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 2013  marzo 17 Domenica calendario

LA GUERRA DI TIM CHE BUTTÒ GIÙ SADDAM CON UNA BANDIERA


Scivolò qualche granello di sabbia dal quaderno che il tenente Tim McLaughlin, Primo Battaglione Corazzato US Marines, aprì con il cuore in gola nella casa della madre in Vermont. Per quasi dieci anni, dai giorni del 2003 nei quali era tornato dall’Iraq dove era stato mandato per abbattere Saddam Hussein e dare la caccia agli stracci delle “armi di distruzione di massa”, non aveva mai osato riaprire quel quadernetto ornato dalle insegne dei suoi Marines.
Sulle sue pagine aveva annotato, con la calligrafia precisa da studente in letteratura russa, ora per ora, giorno per giorno, «kill» per «kill», la cavalcata verso Bagdad. L’aveva fatta in sella al suo tank fino a quella piazza Firdos, la piazza del Paradiso, e alla statua del rais dove era stata issata proprio la bandiera americana che lui, tenentino carrista uscito dai corsi di studi umanistici nelle miti università del New England, si era portato dagli Stati Uniti.
Non avrebbe mai più voluto riaprire il diario di quei giorni, né riprendere tra le mani la bandiera, dopo averli chiusi nella piccola cassaforte murata in cantina. Gli psichiatri militari che lo avevano preso in cura dopo la diagnosi di cedimento nervoso e psicologico da stress post traumatico, temevano che sfogliare le paginette, scuotere la sabbia del ricordo, rileggere quella puntigliosa nota della spesa, con le cifre dei nemici annientati, i nomi dei compagni feriti, la litania dei «300 klicks», i chilometri nell’abbreviazione del gergo militare percorsi sui cingoli, potessero farlo riprecipitare nel suo inferno privato. «Inferno» era proprio la parola che lui stesso aveva usato nel distico scritto per l’intestazione del diario, dal verso di una canzone di Johnny Cash: «Il suo cavallo si chiamava morte e l’inferno li seguiva».
Ma anche questo demonio portato dentro aveva bisogno di un esorcismo per essere, se non cacciato per sempre, almeno ammansito. «Devi imparare a vivere con i tuoi demoni» gli avevano detto il giornalista e il fotografo che lo avevano raggiunto in Vermont: il suo nome era conosciuto, i Marines lo avevano identificato come il primo carrista entrato nella piazza del Paradiso perduto. Non sapevano che avesse tenuto un diario della propria cavalcata sul cavallo della morte. Si sarebbero volentieri accontentati di un racconto, delle memorie di un ragazzo allora poco più che ventenne, messo sulla punta della lancia che era penetrata in Iraq la mattina del 19 marzo 2003. L’idea, oggi diventata una mostra nel Bronx dove sono esposte la pagine del diario e le foto, era di raccontare, nel decimo anniversario di quella follia politico-militare, dal ground zero, dagli occhi di chi stava davvero sul terreno, non di chi celebrava o malediceva la guerra migliaia di chilometri lontano, che cosa fosse stata quella cavalcata nella sabbia della Mesopotamia.
La storia del tenentino del Vermont, un ragazzo con la testa piccola dentro l’elmettone di kevlar, gli occhiali cerchiati più da topo di biblioteca che da Full Metal Jacket, erano sembrate perfette per l’orgoglio, l’ansia di far giustizia, la propaganda bellica. Tim, fresco di università e poi di addestramento fra i Marines a Quantico, era al Pentagono, assegnato a un ufficio e non a un carro armato, la mattina dell’11 settembre 2001. La sua scrivania era esattamente sul lato e al piano che il Boeing 757 della American Airlines, quello che ancora pochi dementi negano sia mai esistito, avrebbe centrato, con 53 passeggeri a bordo, alle 9,37 del mattino. Tim sarebbe stato molto probabilmente fra i 125 impiegati civili e militari polverizzati. Ma alle 9, come tutte le mattine, l’allora sottotenente McLaughlin era uscito per la corsettina quotidiana lungo le belle piste accanto al fiume Potomac. Voltava le spalle al Pentagono quando udì — racconta — un boato, si voltò e vide la bomba di fumo uscire dall’edificio. Tornò di corsa, sgomitò fra i primi soccorritori e i rottami d’alluminio del Boeing, sfidò la marea che usciva di corsa, entrò nel fumo per cercare il fratello, anche lui impiegato in quell’alveare umano. Lo trovò vivo «....al buio, con la voce computerizzata che ripeteva dagli altoparlanti “emergenza, emergenza, sgombrare subito...”» e con lui corse fuori. Ma prima di uscire prese la bandiera che aveva nel suo ufficio e si fece una promessa. Quella di portarla con sé e issarla ovunque i Marines lo avessero spedito, perché anche lui, piccolo ufficiale nel colossale ingranaggio militare, sapeva che da quella colonna di fumo si sarebbe sprigionata la risposta americana.
Meno di due anni dopo era a bordo del mezzo corazzato che dal Kuwait cominciò la marcia verso Bagdad, la solita promessa della gloriosa cavalcata del liberatore fra ali di donne e bambini festanti. È qui che comincia il suo diario. È diligente e minuzioso, il tenente. Disegna i percorsi e le piantine dei punti chiave, dove si aspetta di trovare la massima resistenza del nemico, di quell’armata di Saddam che si raccontava formidabile e dotata di ordigni micidiali. Invece, pochi, sporadici contrattacchi, azioni da disperati contro la strapotenza e la precisione delle armate americane. «.... Turkey shoot....», come sparare ai tacchini. «I miei ordini sono quelli di chiudere la porta sul retro e di bloccare ogni tentativo di fuga.... il kill (l’obiettivo, ndr) è un carro iracheno... gli obiettivi abbandonano escono e scappano in massa.... arriva improvvisamente un veicolo civile che s’infila nell’incrocio.... lo centro con una raffica della nostra mitragliatrice di bordo... veicolo sbanda e finisce contro palo... civile esce e tenta di fuggire.... centrato cinque volte nella schiena e nelle gambe con mitragliatrice ». È un bravo studente, un ufficiale meticoloso, Tim. In una pagina annota la contabilità del suo lavoro. «T 55 (i vecchi panzer russi, ndr) 1 distrutto. T 62 (altro modello di tank, ndr) IIII», poi precisa in numero arabico: «4». «Camion militari: 4. Postazioni antiaeree: 2. Pezzi di artiglieria: 2. Bunker distrutti: 4. Truppe: 2+8+12+3+3, tot 28». Nel complesso, una fruttuosa giornata di lavoro.
Trenta giorni più tardi, lo attende l’apoteosi. In groppa al proprio cavallone di acciaio e titanio, il Marine che leggeva Cechov e Dostoevskij in russo, sbuca sulla piazza Firdos, con in mezzo il monumento al grande macellaio di kurdi, di sciiti ribelli, di oppositori, benedicente nel mezzo. Qualche iracheno tenta di colpirla e abbatterla, ma sono pochi, imbranati, la statua è massiccia, robusta, non si muove. Un carro leggero s’avvicina sotto gli obbiettivi delle telecamere satellitari e un cavo di acciaio viene teso per tirare giù la statua. I comandi segnalano la loro inquietudine, nel timore che quel cavo diventi una frusta e mieta le vite della piccola folla che si è raccolta intorno. Dalla torretta del panzer, Tim osserva sbigottito la scena del proprio trionfo, vive il momento due anni prima sognato e assaporato.
Annota: «Siamo circondati da un gruppo di persone ostili... non possono farci nulla... sono disarmati... cominciano a gridare in inglese how many kids did you kill today?.... », ripetendo il coro che migliaia di renitenti alla leva, di pacifisti, di contestatori del Vietnam cantavano ogni giorni attorno alla Casa Bianca di Lyndon Johnson, negli anni ’60. «Via radio il capitano Lewis mi dice di tirare fuori la bandiera che porto sempre con me....».
Dieci anni dopo quella bandiera è esposta in mostra a New York, insieme al diario del soldato che vide e raccontò a se stesso la guerra com’è davvero, ad alzo zero, cavalcando per tentare di sfuggire all’inferno che lo accompagnava. Dieci anni dopo, la guerra non è finita del tutto, per gli iracheni, anche se gli americani se ne sono andati quasi tutti, lasciandoli nella loro padella. La sabbia non c’è più, quella è scivolata via, insieme con la grande illusione della guerra che metterà fine a tutte le guerre.