Omero Ciai, la Repubblica 17/3/2013, 17 marzo 2013
IL PAPA DA BAMBINO
Guardi la faccio entrare solo perché è italiano, e anche il mio cuore è italiano. E scusi il disordine, sono giorni che non ho tempo neppure di darmi una sistemata. Chiamano da tutto il mondo, io e i miei figli passiamo il giorno e la notte a rispondere al telefono». La casa di Maria Elena Bergoglio, sessantacinque anni, l’unica sorella ancora viva di Papa Francesco, è la tipica villetta con giardino nella periferia di classe medio-bassa di Buenos Aires. Un grande living senza divani, cucina e tre camere da letto. Dal centro della capitale ci vuole quasi un’ora per arrivarci. Lei ci vive con i due figli: Jorge, in onore del fratello maggiore, e José. I suoi ricordi vanno subito alla casa di famiglia, dov’è cresciuta, nel quartiere Flores.
«Credo che i miei genitori l’abbiano comprata perché aveva una cucina enorme. È che dopo averla comprata non sapevano più dove mettere i loro cinque figli. Jorge nacque nel dicembre del ’36, Oscar 13 mesi dopo, poi arrivò Marta e due anni dopo Alberto».
«Prima di avere me, che sono la più piccola, di dodici anni più giovane di Jorge, mamma perse un altro figlio. E avevo tredici anni quando nostro padre Mariomorìd’infarto.Mafinoadallora, era il 1959, eravamo una famiglia felice. Soprattutto, una famiglia italiana: “Tanos”, così ci chiamano in Argentina. Ricordo la sacralità delle domeniche: prima a Messa, nella Chiesa di San José, poi i pranzi lunghissimi fino al pomeriggio tardi. Quei pranzi infiniti e bellissimi con cinque, sei, anche sette portate. E con i dolci. Eravamo poveri ma con grande dignità, e sempre fedeli a quella che per noi era la tradizione italiana. Mamma era una cuoca eccezionale. Faceva la pasta fresca, i cappelletti con il ragù, il risotto piemontese e un pollo al forno da leccarsi i baffi. Diceva sempre che quando aveva sposato papà non sapeva fare neppure un uovo fritto. Ma poi nonna Rosa, che era scappata nel ‘29 dal Piemonte perché era antifascista, le aveva insegnato i trucchi. Nonna Rosa per noi era un’eroina, una donna coraggiosissima. Non dimenticherò mai di quando ci raccontava che nel suo paese, in Italia, saliva sul pulpito della chiesa per condannare la dittatura, Mussolini, il fascismo».
«Papà Mario era contabile ed era anche l’unico che lavorava in casa. E Dio sa quanto ha faticato per farci crescere. Quando arrivò in Argentina aveva già il suo titolo di studio ma non glielo riconobbero e allora trovò lavoro in una fabbrica però non poteva firmare i registri, li firmava un altro. E per questo lo pagavano meno di quanto avrebbero dovuto. Ma era un uomo sempre allegro, a me ricorda tantissimo mio fratello Jorge Mario. Non s’arrabbiava mai. E mai ci ha picchiato. Era questa la grande differenza tra le famiglie di immigrati italiani e le altre famiglie d’Argentina. L’uomo era l’autorità in casa, ma senza maschilismo. Noi, anche Jorge che era il più grande, eravamo terrorizzati dagli sguardi di papà se sapevamo di aver fatto qualche marachella. Ma a lui davvero bastava lo sguardo. A volte avrei preferito prendermi cento frustrate piuttosto che dover sostenere un suo sguardo di rimprovero. Mi annichiliva. Era innamoratissimo della mamma e le portava sempre dei regali. Mi prendeva per mano e uscivamo di nascosto quando tornava dal lavoro per comprare qualcosa, una cosa qualsiasi, alla mamma. Jorge mi ha sempre ricordato un po’ tutti e due. La mamma, perché anche lui cucina benissimo, fa dei calamari ripieni da urlo, ma soprattutto mi ricorda papà. La domenica papà si portava il lavoro a casa. Poggiava quegli enormi libri da contabile sul tavolo del soggiorno e accendeva il giradischi che diffondeva la musica in tutta la nostra piccola casa. Ascoltava l’opera, e qualche volta le canzoni popolari italiane. Era la musica classica la colonna sonora delle nostre domeniche. Ancora oggi Jorge è come papà: ama l’opera e ogni tanto qualche buon tango. E Edith Piaf. E come papà è l’unico, tra di noi, a essere tifoso del San Lorenzo».
«Sì certo, eravamo dignitosamente poveri, a casa non si buttava niente. Mamma riusciva a ricavare qualche indumento per noi anche dalle cose di nostro padre. Una camicia rotta, un pantalone liso, venivano riparati, ricuciti e diventavano nostri. Forse viene proprio da lì l’estrema frugalità di mio fratello, e anche la mia. Però c’era un problema. Mamma non poteva portare in tavola per due volte di seguito lo stesso piatto. Papà s’offendeva. E allora con tutto quello che avanzava s’inventava altre cose. Mascherava».
«Jorge Mario era per me il fratello più grande, quello che giocava a pallone, che andava all’Azione cattolica e che studiava. Davvero non mi ricordo che abbia mai fatto arrabbiare papà o mamma. Quanto a quella fidanzatina che è andata in tv e che lui avrebbe avuto a tredici anni, certo non potrei ricordarmela ma altrettanto certamente dice una cosa falsa. Dice che Jorge avrebbe dovuto celebrare il suo matrimonio nella chiesa di San José de Flores. E questo è impossibile. Jorge è un gesuita, e non è mai stato sacerdote a San Josè de Flores. Ci andava sì da bambino e adolescente, mai da prete».
«Quando terminò il Liceo tecnico e divenne perito chimico, Jorge disse a mia madre che voleva studiare medicina. Allora mamma decise di sistemare la soffitta che c’era sopra la terrazza della nostra casa per farlo studiare in pace, lontano da noialtri. Un giorno, però, salì a pulirla e trovò solo libri di teologia. Quando mio fratello tornò a casa l’affrontò, chiedendogli perché le avesse mentito. Non posso scordarmelo: “Non ti ho mentito mamma — rispose calmo Jorge — ti ho detto sì che volevo studiare medicina, ma medicina dell’anima”. Lei ci rimase malissimo perché capì che lo avrebbe presto perduto. Papà invece era contento: fosse stato per lui i suoi figli avrebbero dovuto essere tutti preti e monache. Jorge decise che sarebbe entrato in seminario che ormai aveva diciannove anni, era un 21 settembre e doveva andare con gli amici ad un picnic perché in Argentina quel giorno è l’inizio della primavera. Invece andò in chiesa a parlare con il sacerdote. A quel tempo è vero che c’era una possibile fidanzata, me lo ha raccontato spesso lui stesso ma senza mai dirmi il nome. Era una ragazza del suo gruppo di amici, quelli del picnic. Quel giorno di primavera avrebbe dovuto dichiararsi a lei. Ma se continuo a raccontare finisce che mi fratello mi scomunica...».
Maria Elena affonda le dita in una scatola azzurra di cartone, dalla quale estrae due lettere: una autografa del maggio ’58 ai genitori dal collegio “Sagrada Familia” di Cordova e un’altra scritta a lei appena divorziata, qualche anno dopo. E alcune foto di Papa Francisco adolescente. «Siamo rimasti soltanto io e lui», dice con la prima lacrima che le scende sulla guancia mentre fuma l’ennesima sigaretta. «E adesso lo perdo di nuovo. Lui che è stato sempre presente. Anche quando affrontai il divorzio da mio marito mi appoggiò, mi aiutò. Non posso ancora credere che è diventato Papa. Quando è partito per Roma ci siamo salutati come sempre. Jorge ama Buenos Aires e amava il suo lavoro qui. Ha lasciato perfino la casa in curia un po’ in disordine, qualche libro sul letto, lettere da aprire, la spesa fatta, come se dovesse tornare subito. No, non ci ho ancora parlato, ma ho deciso da sola, prima che fosse lui a chiederlo agli argentini, di non spendere i soldi del viaggio per Roma. Lo vede come siamo in sintonia? So che quando lo incontrerò ci abbracceremo senza dirci nulla. Senza scene, soprattutto se in pubblico. Perché siamo italiani del nord: le emozioni sono profonde ma restano dentro».
«Quando venne nominato cardinale da Papa Wojtyla allora sì, andai a Roma con lui. Il giorno prima un altro porporato gli chiese se avesse già scelto la Limousine per andare in Vaticano e lui rispose “Sì, certo, come no”. Ma quale Limousine. Andammo a piedi, camminando per tutta Roma. Lui con i suoi piedi piatti che poi gli fanno sempre male. Ecco, mio fratello è così».