Antonio Sgobba, la Lettura (Corriere della Sera) 17/03/2013, 17 marzo 2013
ELOGIO DEL COMPROMESSO
«L’arte del compromesso, che è stata un’arte della politica, non è più valida». Beppe Grillo, nell’intervista a «Time», è stato chiaro. Dario Fo: «Se andiamo col compromesso, andiamo a rifare tutto daccapo. Troppa intransigenza? Ma è per mancanza di intransigenza che siamo arrivati a questo punto». Pierluigi Bersani ha poi detto senza metafore: «Non riteniamo né praticabili né credibili accordi di governo tra noi e la destra». La portavoce Alessandra Moretti ha aggiunto: «Non possiamo scendere a compromessi con Berlusconi». Per il Pdl ha chiuso il cerchio Cicchitto: «Il nodo politico resta uguale, non ci si può chiedere di fare un accordo».
Sembra ci sia un solo punto su cui i tre partiti protagonisti della politica italiana possono essere d’accordo: non si metteranno mai d’accordo. Risultato? Lo stallo. Non si tratta certo di un’eccezionalità italiana. «Il rifiuto sistematico del compromesso è un problema per ogni democrazia. Pregiudica il progresso politico e favorisce lo status quo», scrivono in The Spirit of Compromise. Why Governing Demands it and Campaigning Undermines it (Princeton University Press, 2012) Amy Gutmann e Dennis Thompson, rispettivamente presidente dell’Università della Pennsylvania e professore di filosofia politica a Harvard. I due politologi prendono in esame casi esemplari dalla politica Usa. Tra i quali il dibattito del 2011 sul tetto del debito sovrano: «Un Congresso diviso. Un accordo tra i due partiti appariva l’unica via per evitare il rischio default. Obama riuscì ad annunciare che i leader di democratici e repubblicani avevano raggiunto un accordo solo all’ultimo momento, la notte del 31 luglio». Preferire lo status quo non vuol dire lasciare le cose immutate. «Significa solo che i politici lasciano che siano altre forze a controllare il cambiamento», spiegano Gutmann e Thompson.
Ma l’ostilità al compromesso continua a crescere. Come mai? Secondo i due autori i fattori determinanti sono tre. Primo: la campagna elettorale permanente. «Prima del voto è un processo democratico indispensabile», scrivono. Il problema nasce quando diventa «intrusiva nell’attività di governo». Secondo: «La tendenza dei media a seguire la politica come le corse dei cavalli». Chi ha vinto? Chi ha perso? Con quale distacco? Sia che si tratti della competizione elettorale, sia dell’attività di governo. Terzo: la caccia ai soldi. «Dal primo giorno dopo le elezione, i deputati iniziano il fundraising per essere rieletti. Una raccolta fondi no stop che li tiene impegnati costantemente a scapito della loro attività». Dei tre il più pesante è il primo, influenza anche gli altri due. «Una campagna appassionata gioca un ruolo morale e pratico in democrazia. Fa sì che i candidati possano comunicare quali sono i loro principi guida e il modo in cui si differenziano dagli avversari. Ma quell’atteggiamento chiuso al compromesso non è utile quando è il momento di governare: un leader eletto a quel punto non deve solo tenere fede ai suoi principi, deve anche fare concessioni. Deve rispettare i suoi oppositori e collaborare per legiferare». Il rifiuto del compromesso quando è tempo di governare è «una specie invasiva proliferata fuori dal suo habitat naturale».
Rimedi? «Più educazione civica e una riforma della campagna elettorale. E far vivere insieme i politici a Washington per più tempo» è la ricetta di The Spirit of Compromise. Spesso infatti i deputati tornano a casa, da chi la pensa come loro. «Così non si contaminano con chi ha idee diverse». Il resto dovrebbero farlo gli elettori: «Dovremmo iniziare a premiare i politici che scendono a compromessi, anziché punirli», è l’auspicio dei due professori. C’è chi invece continua a sperare: «Il mio partito avrà la maggioranza assoluta e potrà realizzare il suo programma, senza cedimenti». Una prospettiva allettante? «Un sogno», per Gutmann e Thompson. «È altamente improbabile che un partito solo ottenga il controllo di tutto. E anche se andasse così, avrebbe comunque divisioni al suo interno. Neanche una leadership forte sarebbe sufficiente. Non si scappa dal compromesso».
Antonio Sgobba