Massimo Gaggi, la Lettura (Corriere della Sera) 17/03/2013, 17 marzo 2013
VERSO LA CIVILTA’ DEL DOPOLAVORO
Forse Marc Andreessen esagera o è addirittura fuori strada quando sentenzia che in futuro ci saranno solo due tipi di posti di lavoro: quelli in cui dici al computer cosa fare e quelli nei quali è un computer a dirti quello che devi fare. Con il corollario inquietante della scomparsa del ceto medio che, già messo alle corde dagli effetti della globalizzazione (concorrenza del lavoro dei Paesi emergenti che ha proletarizzato la middle class), verrebbe definitivamente spazzato via dalla rivoluzione tecnologica che polarizza ulteriormente i redditi: da un lato gli esecutori, dall’altro quella che Richard Florida ha definito la «classe creativa». Che, però, nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione del saggio del celebre sociologo americano, ha cominciato a restringersi man mano che l’«intelligenza artificiale» delle macchine ha imparato a sostituire mestieri sempre più sofisticati.
Forse esagera il genio delle tecnologie digitali che vent’anni fa creò il primo browser, Netscape, poi svuotato e schiacciato da Bill Gates con il suo Internet Explorer. Andreessen va preso sul serio: è un imprenditore con la capacità di vedere nel futuro che oggi guida l’impresa di venture capital più dinamica della Silicon Valley. Ma a volte sembra ragionare sulla società con la mentalità da codice binario del programmatore, tutta fatta di zero e di uno. In fondo se l’Europa è in recessione e il Giappone ristagna da 15 anni, negli Usa gli ultimi dati dell’occupazione segnalano una leggera ripresa.
Ma Andreessen non è solo nell’avvertire che i paradigmi del lavoro, dello sviluppo e del benessere che abbiamo conosciuto finora sono destinati a cambiare più di quanto non immaginiamo. Jaron Lanier, il tecnologo-musicista che tre anni fa fece scalpore con la sua critica spietata alla cultura di Internet in Tu non sei un gadget, sta per pubblicare negli Usa e in Italia Who Owns the Future?, un nuovo saggio (già disponibile in Gran Bretagna) nel quale descrive l’impatto mozzafiato della tecnologia sul mondo del lavoro (la fotografia digitale che ha fatto evaporare la Kodak con i suoi 140 mila dipendenti mentre Instagram, nuovo sovrano del regno delle immagini, aveva appena 13 dipendenti quando la comprò Facebook) e avverte che la rivoluzione del «tutto free» in Rete, oltre ad avvantaggiare gli utenti, garantisce benefici enormi a quelli che chiama i «server sirena»: non solo meno lavoro, ma anche distribuzione più diseguale del reddito in un mondo dominato dai monopolisti dei dati, da Google a Facebook, e con meno protezioni sociali.
Prendiamo pure con beneficio d’inventario le visioni acute ma anche estreme di questi entusiasti e critici della tecnologia. Ma qualche settimana fa, al forum di Davos, è stato un personaggio mainstream come Larry Summers — docente di Harvard, ministro del Tesoro di Bill Clinton, consigliere economico di Obama alla Casa Bianca fino a non molto tempo fa — a parlare del rischio di un mondo nel quale gli economisti gioiranno per il ritorno a una piena occupazione raggiunta, però, con posti di lavoro la cui specializzazione dipende dalla profondità della piscina dei ricchi che si è chiamati a pulire.
Più che sulla progressiva scomparsa del posto fisso, insomma, dovremmo concentrarci sul venir meno di molti mestieri e professioni ormai svolti dalle macchine. L’era dei robot, annunciata per decenni, sta arrivando davvero: un nuovo mondo fatto non solo di strumenti elettronici con sembianze vagamente umane come quelli che negli ospedali giapponesi già assistono gli anziani o i robottini cingolati della General Electric che gironzolano sulle piste degli aeroporti, fermandosi di tanto in tanto a ispezionare i motori dei jet appena arrivati.
La «robot economy» o, meglio, l’era del software, va ben al di là della macchina che sostituisce l’operaio nel montare e verniciare un’auto o del bancomat al posto dello sportello bancario. È l’auto che si guida da sola sviluppata da Google. Sono i droni senza pilota e i programmi come TurboTax o TaxAct con i quali in questi giorni decine di milioni di americani preparano la dichiarazione dei redditi facendo a meno del commercialista. Sono gli aggregatori di notizie dei giganti del web che tolgono spazio alla stampa. Sono le università online che vogliono sfidare quelle con i professori in carne e ossa. Ed è anche Watson, il supercomputer dell’Ibm che, come ho raccontato qualche giorno fa sul «Corriere», comincia ad affiancare gli oncologi negli ospedali più avanzati d’America. E che prima o poi, secondo molti, li sostituirà, visto che le sue diagnosi risultano più accurate, basate come sono sull’esame comparato di una casistica infinita.
Un nuovo mondo magistralmente descritto un anno e mezzo fa da Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due professori del Mit di Boston, in Race Against the Machine: un libro-affresco che spiega come la rivoluzione digitale abbia accelerato l’innovazione, modificato gli effetti degli aumenti di produttività e creato una vera e propria mutazione genetica nel mercato del lavoro. Fin qui si è creduto che ogni innovazione che distrugge posti di lavoro in un settore ne crea molti altri in campi diversi, spesso nuovi: il motore a vapore ha lasciato disoccupati gli stallieri, ma ha creato l’industria ferroviaria. E gli Stati Uniti, prima dello tsunami finanziario del 2008, erano arrivati quasi alla piena occupazione anche con un’agricoltura ormai tutta meccanizzata.
Ma ora i due economisti di Boston avvertono che la vecchia regola secondo la quale in un’economia in cui aumenta la produttività crescono anche i posti di lavoro non vale più. È in atto quello che chiamano un «grande sdoppiamento»: il lavoro digitale sostituisce quello umano senza crearne, necessariamente, dell’altro. Sembra una previsione cupa, ma in realtà i due autori amano la tecnologia: pensano che ci farà vivere meglio, se impareremo a prosperare anche lavorando meno. Facile solo a parole. Basta, comunque, accusare la globalizzazione: ormai molte produzioni delocalizzate in Asia stanno tornando in Occidente. Solo che finiscono in fabbriche automatiche, mentre ormai i robot sostituiscono gli operai anche nei Paesi a basso costo del lavoro come India e Cina.
Più pessimista l’analisi di Robert Gordon, economista della Northwestern University, che pochi giorni fa alla Ted Conference di Long Beach, una specie di Davos delle tecnologie digitali sulle rive del Pacifico, è stato protagonista di un appassionante faccia a faccia proprio con Erik Brynjolfsson. A dare retta a Gordon (e al suo Beyond the Rainbow sull’evoluzione degli standard di vita in America) viene il sospetto che siamo arrivati alla fine dell’era del progresso: le innovazioni che hanno prodotto la rivoluzione industriale e l’esplosione del benessere hanno avuto un impatto moltiplicatore sul mondo del lavoro ben diverso da quello dell’economia digitale. E non sono ripetibili: la lampadina di Edison ha portato all’elettrificazione, agli ascensori, alle lavatrici e a mille altre applicazioni industriali e domestiche. Ma l’onda è finita con le grandi innovazioni della metà del secolo scorso: la televisione, il trasporto aereo, le autostrade, l’aria condizionata. Poi ci siamo fermati: «Solo una volta nella storia — dice Gordon — si passa dai 10 chilometri all’ora di un cavallo ai 900 di un Boeing». I jet di oggi volano alla stessa velocità di quelli di oltre mezzo secolo fa: rassegniamoci alla fine dell’«effetto magico» che l’innovazione ha prodotto sull’economia per quasi 200 anni.
Per Brynjolfsson, invece, l’innovazione tecnologica non sta rallentando ma accelerando. Tutti e due, però, riconoscono che la politica deve prepararsi ad affrontare un quadro profondamente diverso rispetto ai paradigmi del passato: un sistema più produttivo, ma che forse non richiederà più enormi volumi di lavoro. Timore condiviso da Al Gore nel suo recente saggio The Future: «I luddisti avevano torto. Temevano che la rivoluzione industriale avrebbe creato una disoccupazione strutturale. Invece produsse più lavoro e redditi più elevati. Ma non c’è alcuna garanzia che la storia si ripeta».
Inutile fasciarsi la testa, meglio provare a ragionare su come adattarsi alla nuova realtà, su come trarre beneficio dalla tecnologia senza creare traumi sociali insostenibili. Di ricette ne circolano tante: dalla riduzione generalizzata degli orari di lavoro proposta da Jeremy Rifkin fin dal 1995 quando pose per primo, col suo La fine del lavoro, il problema dell’impatto della tecnologia sull’occupazione, fino alla decrescita di Serge Latouche. Ma molte di queste idee sono state giudicate fin qui impraticabili in società che hanno bisogno comunque di crescita. Lanier ora propone un sistema di micropagamenti che costringa i «server sirena» a compensare la gente per i dati che fornisce loro.
Un quadro incerto e frastagliato complicato anche dal fatto che la politica viene chiamata a rompere schemi consolidati, a tentare svolte coraggiose e anche a rischiare qualche salto nel buio proprio mentre quasi tutte le democrazie liberali dell’Occidente vivono processi di sfaldamento e un indebolimento di tutti i poteri.
Massimo Gaggi