Peter Beaumont, La Stampa 18/3/2013, 18 marzo 2013
A BAGHDAD PER MORIRE BASTA SBAGLIARE STRADA
Abu Mohammed giace nel soggiorno di casa sua e racconta una storia tristemente familiare per gli standard iracheni. È un funzionario statale, stava andando al lavoro quando trova un ingorgo al più vicino posto di blocco sulla strada fuori dal suo quartiere. Così fa una deviazione e utilizza un altro checkpoint che lo porta in una zona prevalentemente sciita.
A un centinaio di metri dal posto di blocco è bloccato da due auto e trascinato fuori dal suo veicolo da uomini armati e mascherati. «Non sembrava che mi conoscessero. Mi hanno insultato e quando ho chiesto cosa stessero facendo sono stato colpito alla testa con una pistola. Ho reagito e allora mi hanno sparato a un piede. Hanno cercato di mettermi nel bagagliaio ma sono riuscito a liberarmi. Poi mi sono messo a correre. E allora mi hanno sparato di nuovo».
Può assomigliare a una storia degli anni bui del conflitto settario, dal 2005 al 2007, quando ogni settimana venivano uccise centinaia di persone. Questo episodio, però, è accaduto all’inizio di quest’anno e la dice lunga sulla crescente ondata di lotta settaria che si sta di nuovo diffondendo in Iraq.
Alla fine Abu Mohammed è stato salvato da una folla di residenti sciiti che hanno iniziato a gridare contro gli uomini armati. Pensa di essere stato preso di mira per la semplice ragione che arrivava da un quartiere sunnita e ha un volto «sunnita».
Anche il fratello di Amr Ali AlDulaimi, un sunnita che lavorava nella sicurezza per il ministero dell’Ambiente e che è stato ucciso un mese fa nel sobborgo Baya di Baghdad, è preoccupato di non essere nominato. «Mio fratello stava cercando la casa di un amico in un ricco quartiere misto, in cui si sentiva al sicuro. Era la fine delle vacanze scolastiche e pensava di portare i suoi figli a farsi tagliare i capelli e così andò da un barbiere che conosceva nella Baya dove siamo cresciuti, chiamandolo prima per fissare un appuntamento. Avevano finito e i bambini erano in macchina quando un uomo vestito di nero con un berretto da baseball gli si è avvicinato e gli ha sparato alla testa. Non aveva ricevuto minacce che io sappia. Me l’avrebbe detto. Ma era molto conosciuto nel quartiere fin dai tempi in cui vivevamo lì. Non sappiamo con certezza chi lo abbia ucciso ma le milizie sciite sono attive in quel settore».
Non sono solo i sunniti a essere uccisi. Ci sono altre storie di altri omicidi dall’altra parte della barricata, per esempio dei poliziotti sciiti di un’unità in servizio a Bassora, uccisi al loro posto di blocco la settimana scorsa. Venerdì è stata la volta di Hussain al-Hadeethi, l’imam sunnita di al-Rasheed, a Sab Albor, preso a fucilate e ferito mentre usciva dalla moschea dopo aver guidato la Isha, la preghiera della notte.
Se gli eventi sembrano cupe reminiscenze della guerra settaria, molti osservatori ritengono che ciò che sta accadendo oggi in Iraq sia assai diverso. «Oggi le cose stanno andando di male in peggio per tutti gli iracheni», dice Pascale Warda dell’Hammurabi Human Rights Organization, «sotto il profilo della sicurezza così come per la situazione politica». È incline - come molti osservatori - a tracciare una netta distinzione con quello che è successo in Iraq durante la guerra settaria, non da ultimo perché i leader politici oggi appaiono in difficoltà, in pubblico almeno, nello sconfessare il settarismo. «La scorsa settimana ero a una conferenza sulle donne. Il primo ministro Nouri al-Maliki era lì. Ha fatto un discorso eccellente dicendo che l’Iraq non sarebbe tornato ai giorni delle divisioni settarie. L’ho anche visto parlare in una chiesa e dire la stessa cosa. Tutto ciò va molto bene ma sono stata turbata dal fatto che non abbia riconosciuto il presidente del Parlamento Osama al-Nejafi, un sunnita notoriamente ai ferri corti con al-Maliki, così come Nejafi non riconosce al-Maliki».
Warda, come tanti altri, imputa l’attuale impennata di violenza a una complessa coincidenza di eventi. I sunniti della provincia di Anbar, che ha come capoluogo la città di Fallujah, hanno intensificato le proteste, lamentandosi della marginalizzazione della loro confessione nelle istituzioni irachene. Il governo di Baghdad ha attuato un giro di vite per evitare che le proteste si diffondessero nella capitale.
La congiuntura politica non aiuta a risolvere la situazione. Prosegue lo stallo dopo le ultime elezioni nazionali nel 2010, quando il premier in carica, al-Maliki, non riuscì a conquistare la maggioranza ma coalizzò attorno a sé abbastanza fazioni sciite per formare un governo. Da allora, gli iracheni sunniti accusano al-Maliki di essere un dittatore. E lui accusa i suoi detrattori di complotto contro lo Stato.
Il risultato, secondo Pascale Warda, non è l’odio settario fine a se stesso come cinque anni fa. Al contrario, là dove esiste, è definito da un programma politico.
Se i pericoli sono evidenti negli occasionali omicidi e attentati che minano la vita in Iraq, la situazione è esacerbata ulteriormente da attori marginali che però hanno il potere di spaventare e dalla lotta per i frutti della dilagante corruzione. «In provincia di Anbar si avverte la crescente influenza di Al Qaeda», ha detto Saad al-Muttalibi, un anziano funzionario del partito Dawa, vicino al primo ministro. «Abbiamo concordato con le autorità locali di ritirarci da Fallujah e lasciare a loro la vigilanza, ma non appena l’abbiamo fatto nel giro di cinque minuti Al Qaeda era tornata. E ci si deve chiedere chi trae vantaggio dall’instabilità: Al Qaeda e i baathisti (sostenitori del partito di Saddam Hussein)».
Da notare l’assenza dalla scena dell’Esercito del Mahdi, la milizia sciita fedele al leader religioso Moqtada al-Sadr, che perpetrò alcuni dei peggiori abusi durante la guerra settaria. Ma se l’Esercito del Mahdi ha brillato per la sua assenza, è entrato in gioco un nuovo fattore, l’influenza pericolosamente destabilizzante della guerra della porta accanto in Siria, che rischia di alimentare le divisioni settarie in un conflitto in cui l’Esercito di liberazione siriano è in gran parte sunnita e il regime di al-Assad è dominato dagli alawiti, un ramo dell’Islam sciita.
All’inizio del mese 42 soldati siriani fedeli al regime di Bashar al-Assad, che erano fuggiti in Iraq sono caduti vittime di un’imboscata sulla strada e sono stati uccisi insieme a 11 poliziotti iracheni da sospetti militanti sunniti.
Ibrahim al-Sumydai, sunnita ed ex alto funzionario del ministero degli Interni con relazioni nelle alte sfere del governo iracheno si dice preoccupato dagli sviluppi da entrambe le parti. Egli ritiene che il fallimento del governo nell’ascoltare le lamentele dei manifestanti di Anbar rischi di rafforzare un ritorno di Al Qaeda in Iraq. Teme anche che con le elezioni provinciali in aprile né lo speaker del Parlamento, sunnita, né il primo ministro siano disposti a mostrarsi deboli alla loro compagine di riferimento, portando così a una situazione di stallo. Insiste, tuttavia, nel dire che il movimento di protesta è «genuino al 100 per cento». «Mio nipote è stato arrestato e ha confessato sotto tortura crimini che non aveva commesso. Ho delle conoscenze ma alla fine ho dovuto pagare per far cadere le false accuse. Ogni famiglia sunnita ha avuto un’esperienza simile. Ma so per certo che il primo ministro vuole agire e disinnescare la situazione. Il modo in cui la pressione su di lui è stata presentata dai suoi avversari lo mette in una posizione difficile perché stanno dando l’impressione che il loro obiettivo sia quello di piegarlo. Se farà marcia indietro sulle richieste, alle prossime elezioni locali perderà il sostegno tra la sua gente. Lo stesso vale per al-Nejafi e i suoi sostenitori. Non si rivolgono a tutto il Paese, parlano solo ai loro fedeli».
«Quando è cominciata questa crisi - prosegue al-Sumiday - ho cercato di fare appello al primo ministro perché agisse come mediatore, ma non è successo nulla, mi ha dato solo una risposta parziale, insufficiente». «La mia preoccupazione?», aggiunge e si risponde da solo: «Che entrambe le parti stiano giocando con il fuoco. E la domanda è: abbiamo ancora tempo per risolvere questa crisi?».