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 2013  marzo 18 Lunedì calendario

«IL TRASLOCO? NON SARÀ COSÌ PRESTO»

Se è dispiaciuto, non vuol certo darlo a vedere. Lo studio del presidente del Consiglio a Palazzo Chigi è aperto anche di domenica, le pile dei dossier ordinate con cura sulla scrivania non danno certo l’idea di uno che sta per andarsene. «Lo so, è tempo di organizzare il trasloco - sorride Mario Monti -. Ma dicono che non sarà tanto presto».

La trattativa per le presidenze delle Camere, che lo ha visto potenziale candidato al Senato in una candidatura mai decollata, è stata più lunga e tortuosa del previsto. Monti accetta di ripercorrerla.

Presidente, in questa occasione lei è apparso a molti come uno che voleva a tutti i costi aggiudicarsi una poltrona. Un’immagine ben diversa da quella alla quale lei ci aveva abituati.

«Vediamo un po’. Nel gennaio 1995, quando il presidente Scalfaro, spinto dal centrosinistra, mi propose di guidare il governo dopo le dimissioni di Berlusconi abbandonato da Bossi, dissi che avrei accettato solo con l’accordo dello stesso Berlusconi, che mi aveva da poco nominato Commissario europeo. Il Cavaliere disse no e nacque il governo Dini. In seguito declinai l’offerta, questa volta di Berlusconi, del ministero degli Esteri nel 2001 e di quello dell’Economia nel 2004. Non mi pare di aver rincorso poltrone. Nel novembre 2011 ho accettato la presidenza del Consiglio ma solo perché me lo ha chiesto il presidente Napolitano, con l’accordo delle tre principali forze politiche, in condizioni di emergenza».

E stavolta cosa è successo? Non sarà che l’essere diventato un politico ha complicato tutto? Standosene tranquillo a Palazzo Chigi - è opinione generale - lei sarebbe stato in pole position per il Quirinale o per un nuovo governo. Come mai, di colpo, questa voglia di presidenza del Senato?

«Me lo chiedo anch’io! Non ho mai espresso, né avuto, questo particolare desiderio. Ma, dato che la proposta a Scelta Civica e a me era stata prospettata, abbiamo voluto approfondire in quale contesto politico avrebbe avuto senso accettarla e in quale no».

Proviamo a ricostruire dall’inizio. Lei ha trattato, e con chi, per la presidenza del Senato?

«Quando ho invitato Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi il 7 marzo in preparazione del Consiglio Europeo, il segretario del Pd mi ha semplicemente espresso il suo orientamento per decisioni condivise in merito ai vertici delle istituzioni, sul quale mi sono dichiarato d’accordo. Il 13 marzo Luigi Zanda ha incontrato Andrea Olivero, coordinatore di Scelta Civica, ed è stato confermato un consenso sul metodo. In parallelo, alcuni esponenti del Pd in via informale erano più espliciti, proponendo la presidenza del Senato a me a fronte di un appoggio al Pd per la presidenza della Camera. Nel frattempo, all’interno di Scelta Civica era stato convenuto che avremmo insistito per una convergenza larga sulle cariche istituzionali, in coerenza con l’impostazione affermata fin dalla nascita del movimento dati i gravi problemi che l’Italia ha di fronte a sé e le profonde riforme necessarie; e che, se ci fosse stato consenso su ciò, saremmo stati disponibili ad una mia candidatura al Senato, proprio per contribuire ad un quadro ampio di governabilità».

E poi cosa è accaduto? Ha avuto ulteriori contatti con Bersani?

«Sì. Mi ha telefonato nel pomeriggio del 14 mentre ero a Bruxelles per il Consiglio europeo. Ha accennato alle sue difficoltà ad allargare il gioco al Pdl, all’indisponibilità del M5S e all’importanza che almeno Scelta Civica partecipasse alle decisioni condivise, indicando un proprio nome per il Senato o per la Camera, purché non fosse il mio poiché gli risultavano obiezioni da parte di ambienti del Quirinale».

Ma lei era al corrente di queste riserve del Capo dello Stato?

«Me ne aveva fatto cenno, alcuni giorni prima, Napolitano. Gli avevo fatto presente che difficilmente si sarebbero verificate le condizioni politiche che avrebbero indotto Scelta Civica a contribuire alle decisioni; ma che, in quel caso, avrei ritenuto importante non sottrarmi al compito di far evolvere il quadro politico nel senso desiderato. L’attività del governo, con il Consiglio europeo che si sarebbe svolto da lì a poco, il 14-15 marzo, avrebbe potuto considerarsi conclusa e vi sarebbe stato modo di continuare per i giorni, o le poche settimane, ancora necessari affidando la guida del governo al ministro più anziano o a un vicepresidente del Consiglio. In quell’incontro, e in un altro avvenuto la sera del 15 marzo al mio rientro dal Consiglio europeo, il Presidente mantenne ferma la sua obiezione, motivata su elementi giuridici (dai quali, fatti fare a mia volta approfondimenti, mi permisi di dissentire rispettosamente) ma soprattutto, mi è parso, su valutazioni di ordine politico-istituzionale, in seguito espresse in un comunicato».

Insomma non è riuscito a convincere Napolitano.

«Non mi restava che “obbedire” al capo dello Stato che così grande fiducia aveva dimostrato di avere in me, affidandomi la guida del Paese nel tempestoso novembre 2011. Dato il rapporto di stima e, se mi è permesso dire, di amicizia che il presidente mi ha consentito di avere con lui, non gli ho nascosto la mia amarezza. Mi sono sentito onorato dalle valutazioni del Presidente sul mio ruolo al governo ma al tempo stesso un po’ “prigioniero”. E mi dispiace che, su due piani completamente diversi di dignità e di senso di responsabilità verso il Paese, il divieto impostomi dal Quirinale possa aver fatto piacere a più d’uno degli “uomini di Stato” subdoli e manovrieri, che a volte si ritengono anche depositari esclusivi dei criteri della “moralità” nella politica».

A quel punto perché non ha proposto un altro nome di Scelta Civica?

«Infatti ho prospettato questa possibilità ai miei colleghi il mattino del 16 marzo, prima della terza votazione. Ho anche detto loro che dal Quirinale mi era giunto il suggerimento di valutare l’ipotesi di indicare un nome per la Camera. Poi, anche perché si sentissero completamente liberi da ogni possibile disagio, mi sono assentato. Ma i gruppi parlamentari riuniti hanno escluso di indicare un altro nome».

Dopo di ciò è stato il Pdl a premere su di lei per ottenere che i voti dei senatori di Scelta Civica si spostassero su Schifani. Com’è andata questa seconda tornata di trattative?

«Ne ho parlato con Gianni Letta. La trattativa riguardava esclusivamente la possibilità che Scelta Civica sostenesse la candidatura del Pdl per il Senato, a condizione però che il Pdl dichiarasse che non avrebbe frapposto ostacoli pregiudiziali alla nascita di un eventuale governo di centrosinistra presieduto da un esponente Pd (verosimilmente Bersani), sia pure senza votargli la fiducia, nell’interesse della governabilità. Proposta respinta. Così Scelta Civica, in coerenza con se stessa, ha votato scheda bianca, al Senato come alla Camera».

Resta un’ultima domanda da farle: dica la verità, non è un po’ pentito di essere entrato in politica?

«Me lo hanno detto in tanti e mi hanno fatto capire che se ne fossi rimasto fuori avrei potuto aspirare ad altre e più importanti collocazioni. Eppure non sono affatto pentito. Al contrario penso di aver realizzato, insieme a quelli che mi hanno aiutato a mettere su un partito in pochi giorni, un risultato importante: se non ci fossero stati i nostri tre milioni di voti, Berlusconi avrebbe vinto le elezioni e oggi sarebbe lui a scegliere se tornare a Palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale. Quanto a Bersani, al centrosinistra e al tentativo di allearsi con M5S, dovrebbero pensarci bene: il cammino che abbiamo fatto insieme per ritrovare un posto in Europa è stato tutto in salita. Si fa presto a rimettere in gioco un patrimonio di credibilità per timore di un nuovo passaggio elettorale e per un pugno di voti. Spero che ci riflettano bene».