Alain Elkann, La Stampa 17/3/2013, 17 marzo 2013
DAL GENOMA LE NUOVE CURE CONTRO IL CANCRO"
Il professor Virgilio Sacchini lavora al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, il più prestigioso ospedale degli Usa per la cura dei tumori. Quale è stato il suo percorso precedente?
«Mi sono specializzato in chirurgia e oncologia all’Istituto Nazionale di Tumori di Milano, poi ho seguito il professor Umberto Veronesi quando ha fondato il nuovo Istituto Europeo di Oncologia sempre nel capoluogo lombardo. Nel 2000 mi hanno invitato come professore di chirurgia alla Cornell University e mi hanno anche offerto di lavorare nel reparto di senologia al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Dove mi sono fermato».
Da quando è negli Stati Uniti si sono fatti molti progressi in campo oncologico?
«Sì, soprattutto negli ultimi anni per quanto riguarda la genetica dei tumori».
In che senso?
«Prima di tutto per l’identificazione delle persone a rischio di sviluppare un tumore. Ora, studiando il Dna, siamo in grado di capire se c’è una particolare predisposizione verso determinati tumori, tipo quello mammario, ovarico, pancreatico, tiroideo o anche verso il melanoma. Sappiamo che alcuni geni producono delle proteine protettive in grado di riparare il Dna danneggiato da sostanze chimiche. Quando il gene è alterato, invece, non può più produrre queste proteine protettive e così si sviluppa il tumore».
Come si fa a sapere se e quando bisogna fare queste analisi personalizzate?
«Esistono particolari criteri per decidere se un paziente è a rischio, ad esempio per i tumori mammari, quando la familiarità è alta per una madre o una zia che l’hanno avuto».
Lo si può fare anche in Italia?
«Certo, ma a volte i tempi sono diversi».
In generale il tumore si può prevenire?
«Sì, se si sanno le cause, ad esempio il fumo per il tumore polmonare e le sostanze con coloranti a base di anilina per quello della vescica».
Dai tumori quanto si guarisce?
«Purtroppo si muore ancora in una percentuale del 47-48%. Per alcuni, come quello della mammella, si guarisce al 98%, per altri come al pancreas solo al 15%».
Qual è il più frequente?
«In assoluto il tumore femminile del seno, poi quello polmonare e quindi il colon».
E quello alla prostata?
«È anche questo molto frequente».
Il professor Veronesi esprime spesso rammarico per non essere riuscito, nella sua lunga carriera, a debellare questo male terribile...
«Penso che gli investimenti che negli anni precedenti sono molto mancati debbano riguardare la ricerca di laboratorio, con l’obiettivo di scoprire i meccanismi biologici e genetici delle cellule tumorali».
A che punto siamo nella ricerca?
«Ci stiamo avvicinando sempre di più alla comprensione di tutti questi meccanismi».
Ma le terapie di chemio e radio sono sempre efficaci?
«Non sono così efficaci come vorremmo e per questo si stanno mettendo a punto nuovi farmaci intelligenti, vale a dire mirati sulle cellule tumorali senza disturbare quelle sane».
Negli Stati Uniti siete più avanti rispetto all’Europa?
«Qui si investe molto di più in ricerca e l’investimento è proporzionale alle scoperte che si possono fare».
Perché negli Stati Uniti la medicina è così costosa per i pazienti?
«Dipende dalla categoria di pazienti. L’ospedale ha diverse convenzioni con lo Stato e con le assicurazioni e, quindi, il paziente viene “caricato” in misura minima, sempre che abbia un’assicurazione».
In quanto italiano, come è stato accolto dalla comunità medico-scientifica americana?
«Molto bene, perché i medici italiani sono particolarmente preparati e le nostre università sono considerate eccellenti».
Cos’è l’«American Cancer Italian Foundation», nel cui comitato scientifico lei è presente?
«È una fondazione benefica senza scopo di lucro, fondata da italiani e italoamericani a New York con la finalità di raccogliere fondi per giovani medici e ricercatori italiani che vogliono specializzarsi negli Usa».
È vero che negli Usa si punta sull’estrema specializzazione?
«Sì, invece noi italiani siamo più interdisciplinari. La tendenza americana può rappresentare un limite in alcune situazioni cliniche o nella gestione di certe complicazioni».
Un suo desiderio, professore?
«Che le analisi e i trattamenti possano essere estremamente personalizzati per poter valutare i rischi e combattere le malattie di ciascun individuo».
Insomma, lei è soddisfatto della sua esperienza a New York?
«Sì. Quella di 13 anni fa è stata una scelta molto difficile, ma il risultato è sicuramente positivo».
Lei non tornerebbe in Italia?
«Tornerei, se avessi la possibilità di portare tutte le esperienze che ho maturato negli Stati Uniti».