Maurizio Molinari, La Stampa 17/3/2013, 17 marzo 2013
DIECI ANNI DOPO L’ IRAQ L’ AMERICA RESTA DIVISA
Alle 5,34 del mattino del 20 marzo 2003, ora di Baghdad, ebbe inizio l’operazione militare «Iraqi Freedom» ordinata dal presidente americano George W. Bush per rovesciare il regime di Saddam Hussein. La guerra sarebbe durata 8 anni, 8 mesi e 3 settimane prima del completamento del ritiro delle truppe ordinato il 18 dicembre 2011 dal nuovo presidente, Barack Obama. A dieci anni dall’attacco condotto dalle forze della coalizione guidate dal generale Tommy Franks l’America si confronta con un conflitto che l’ha divisa sommando successi militari, errori di intelligence, danni morali, ingenti costi economici e risultati strategici ancora in bilico. I successi militari sono due. Primo: la campagna-lampo di Franks riuscita a rovesciare in appena 21 giorni il dittatore più potente e spietato del Medio Oriente con l’impiego della metà delle forze adoperate nella Guerra del Golfo del 1991 per liberare il Kuwait. Secondo: i rinforzi inviati a partire dal 2007, ed affidati al generale David Petraeus, riusciti a sconfiggere l’insurrezione jihadista nel Triangolo Sunnita grazie ad una tattica fatta di truppe speciali, intelligence e accordi con le tribù locali che è stata poi ripetuta in Afghanistan. Ma tali risultati sono stati offuscati dagli errori che li hanno accompagnati: l’amministrazione Bush giustificò l’attacco con informazioni di intelligence sull’esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa che non sono mai state trovate, errò nel ritenere che le operazioni militari si sarebbero concluse velocemente facendosi cogliere di sorpresa dall’insurrezione armata seguita alla caduta di Saddam e dovette fare i conti con lo scandalo degli abusi sui detenuti nel carcere di Abu Ghraib che ancora pesa sull’immagine degli Stati Uniti. Il tutto al prezzo di oltre 110 mila vittime secondo una stima dell’Associated Press - inclusi 4805 soldati della coalizione di cui 4487 americani, a cui bisogna aggiungere circa 10 mila feriti gravi, in gran parte amputati da esplosioni di ordigni della guerriglia.
I costi economici sono documentati dal rapporto pubblicato dal Congresso in coincidenza con il decennale di «Iraqi Freedom» curato da Stuart Bowen, ispettore generale della ricostruzione dell’Iraq, nel quale si afferma che gli Stati Uniti hanno speso oltre 60 miliardi di dollari - ovvero una media di 15 milioni al giorno - per rimettere in piedi il Paese con risultati assai parziali visto che solo una piccola minoranza dei 31 milioni di abitanti può oggi contare su sicurezza, elettricità e acqua potabile. Bowen stima in circa 5 miliardi di dollari il totale del denaro pubblico andato «completamente perso» a causa di malagestione e corruzione, enumerando alcuni palesi fallimenti della ricostruzione: dalla mega-prigione nella provincia di Diyala mai completata alla centrale di purificazione delle acque di Fallujah costata 108 milioni di dollari per servire appena 9000 case fino al fallito ponte alFatah sul Tigri, alle frodi gestite da ufficiali dell’Us Army ed ai contratti eccessivamente generosi per ditte private americane dimostratesi inefficienti.
Includendo tutti i costi, militari e diplomatici, gli Stati Uniti hanno speso per il Congressional Budget Office circa 767 miliardi di dollari in Iraq e ciò che resta oggi a Baghdad è la più grande ambasciata Usa nel mondo impegnata a gestire rapporti difficili con il governo di Nuri al-Maliki, leader di una coalizione guidata dai partiti sciiti assai più sensibili alle scelte dell’Iran che agli interessi di Washington. Senza contare il precario equilibrio fra governo sciita e regioni autonome sunnite e curde, incentrato sui dissidi sui proventi del greggio.
L’eredità di «Iraqi Freedom» continua a dividere l’America come dimostra il contrasto di opinioni fra Richard Haass, presidente del «Council on Foreign Relations» di New York, che la definisce una «guerra voluta, condotta assai male» e l’ex presidente George W. Bush convinto che «il giudizio della Storia rivaluterà le scelte compiute». Barack Obama, contrario all’attacco dell’Iraq sin da quando era senatore nel 2002, dall’indomani dell’arrivo alla Casa Bianca ha cercato di sanare la ferita irachena rendendo omaggio alle truppe, portando a termine il ritiro e chiedendo ai connazionali di «accogliere con onore i veterani» per evitare di ripetere le asprezze che seguirono la guerra in Vietnam.