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 2013  marzo 17 Domenica calendario

IRAQ, L’AMERICA PAGA ANCORA LA GUERRA DU BUSH

In questo mese di marzo 2013 cadono insieme il decimo anniversario dell’attacco del presidente George W. Bush all’Iraq di Saddam Hussein e il quarantesimo dalla ritirata delle truppe Usa in Vietnam, decisa dal presidente Nixon e da Henry Kissinger. I due storici momenti vaccinano nella coscienza americana la saggezza di non accendere guerre per scelta, senza motivi davvero profondi e gravi.

Bush figlio fu indotto dal suo vice Dick Cheney ad agire da solo contro Saddam, e pagò il prezzo di dividere in due il Paese, alienarsi i pur incerti alleati europei, isolarsi nel mondo. Dai documenti di allora abbiamo appreso che la decisione di invadere Bagdad data già dal luglio 2002, impossibile fermarla con le analisi pragmatiche. Poche voci nobili, il presidente ceco Havel, il Nobel per la Pace Ramos-Horta, ammonirono l’Occidente di non spaccarsi e mantenere una comune visione internazionale: invano, i falchi di Washington e le colombe europee non ascoltarono.

La Casa Bianca sottovalutò, spaventata dall’11 Settembre e spazzata da un vento ideologico, la cautela suggerita dalla vecchia guardia repubblicana, il presidente Bush padre, il generale Scowcroft, il Segretario Powell, il decano della diplomazia Kennan. Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, ricorda i dispacci della Cia che prevedevano correttamente il caos in Iraq, una volta caduto Saddam: nessuno li lesse.

Oggi l’Iraq non funziona più come trincea contro l’Iran sciita, anzi spesso lo spalleggia, vedi guerra civile in Siria. Al Nord i curdi vivono in autonomia, di fatto separati da Bagdad. La produzione di petrolio è salita, ma la stabilità del Paese resta fragile e il premier Nuri al Maliki oscilla tra confusione di governo e ostilità antiamericana: come l’astuto Karzai a Kabul, quando è in difficoltà fa una bella tirata contro gli yankee e tira avanti.

In un documentario andato in onda sabato sera, il vicepresidente Cheney dice «Rifarei tutto». Pochi americani la pensano come lui. Nel partito repubblicano l’idea di diffondere la democrazia nel mondo ha ormai rari seguaci e una nuova generazione vuol tornare all’antico isolazionismo del Gop, il Grand Old Party che lasciava le avventure nel mondo ai rivali democratici. I neoconservatori di Bush riflettevano su una filosofia giusta, senza democrazia non c’è pace duratura, ma per sostenerla serviva un’indole morale più salda e una seria capacità egemonica, niente torture nelle segrete del carcere di Abu Ghraib, niente litigi da asilo con gli europei col vino francese versato nei tombini in America e le vetrine dei McDonald’s sfasciate in Europa. Bush jr non le ebbe: la guerra è finita in un fallimento, di cui 4500 caduti americani, migliaia di feriti tra i militari Usa, decine di migliaia di vittime irachene e milioni di profughi portano testimonianza dolorosa.

I libri di storia registreranno le opposte ipocrisie, le manovre di spie e informatori sulle armi di Saddam, gli amici del regime Baathista, intellettuali, governi, aziende militari europee, che specularono sull’errore di Bush per mascherare i propri profitti. Per l’America conta il saldo netto: la guerra fu un errore. Come la ritirata da Saigon del 1973 siglò l’errore del presidente Johnson e dei suoi consiglieri di non ascoltare la lezione del saggio repubblicano Eisenhower e prendere il posto dei francesi, scacciati con la battaglia di Dien Bien Phu, in Vietnam, così, dieci anni dopo, l’attacco a Saddam ha più conseguenze negative che positive.

Questo è dunque il bilancio razionale 2003-2013. Poi la storia ha le sue lente, sinuose, curve e non procede mai in modo lineare. I sottufficiali algerini della Legione Straniera, presi prigionieri a Dien Bien Phu dai guerriglieri Viet Minh nel 1954, si sentirono chiedere «Perché combattete con i francesi contro di noi anziché combattere i colonialisti francesi in Algeria?». Liberati, tornarono a casa e costruirono subito i quadri militari del Fronte di liberazione. Oggi gli americani sono popolarissimi in Vietnam, fanno manovre insieme alla Marina di Hanoi e i generali vietnamiti ripetono: «Abbiamo combattuto contro gli Stati Uniti per 30 anni, ma contro la Cina combattiamo da 2000 anni». Alleanza tra vecchi nemici.

Dal dopoguerra i regimi arabi totalitari godevano di impunità perfetta, chi coperto da Washington, chi da Mosca. L’impiccagione brutale di Saddam Hussein, trasmessa con crudeltà da milioni di parabole tv nel mondo islamico, ha cancellato quel senso di onnipotenza. È possibile che i tanti ragazzi della primavera araba, i democratici come gli ortodossi salafiti, le abbiano avute davanti agli occhi quando hanno occupato le piazze dei loro Paesi. Quel processo, così contraddittorio e doloroso, è ancora agli inizi, la democrazia resta una pianta a lenta crescita. Lenta ma inesorabile, che nessuno sa mai sradicare una volta che ha messo i suoi semi nella società. Per questo, il bilancio del Vietnam 40 anni dopo la ritirata americana è diverso da quello che avremmo tratto nel 1983. La stessa regola storica varrà per l’Iraq, nel 2043.