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 2013  marzo 17 Domenica calendario

APPUNTI PER VANITY


ELEZIONE DI GRASSO AL SENATO
ALDO CAZZULLO
Bersani aveva scovato nottetempo due nomi per stanare i grillini, e in parte c’è riuscito: Laura Boldrini applaudita dai deputati 5 Stelle in piedi per alcuni passaggi del suo discorso, Pietro Grasso votato anche da 12 senatori di Grillo. Il segretario Pd si è probabilmente guadagnato l’incarico di governo, ma il suo cammino non è affatto in discesa: «Un conto è votare al ballottaggio tra l’ex indagato per mafia Schifani e l’ex pm antimafia Grasso, un altro è votare la fiducia a un governo politico» spiega una «cittadina» che implora l’anonimato («se lo sa Casaleggio...»). La giornata allontana la chance già vaga di un governo istituzionale: con meno di un terzo dei voti popolari il centrosinistra si assegna la guida di entrambe le Camere, con un Berlusconi in disparte e un Monti indispettito. Il neopresidente Grasso tiene in Senato un discorso di alto profilo, come se il suo percorso istituzionale potesse portarlo ancora più lontano. Ora Bersani proseguirà nel tentativo di seduzione dei grillini, preparando un governo di volti nuovi tra cui molti giovani e donne, e puntando sulla riduzione dei parlamentari, sul taglio dei loro stipendi e sull’ambiente, tema che ricorre in ogni gesto e intervento dei «cittadini». Ma non è affatto detto che le elezioni anticipate siano più remote.
Al Senato, dove si consuma la vera battaglia, il clima è smorto, già quasi da fine corsa, almeno sino al sollievo finale del Pd (pure la Finocchiaro, silurata all’ultimo momento, simula soddisfazione). Lontanissima l’atmosfera drammatica dello scontro del 1994 tra Spadolini e Scognamiglio, e anche la guerra di manovra del 2006 che portò alla tribolata elezione di Franco Marini. Stavolta la tensione si consuma lontano dall’aula, nelle riunioni a porte chiuse dei montiani, costretti a votare scheda bianca per non dividersi, e dei grillini, lacerati tra la linea del capogruppo Crimi e di Casaleggio — sempre più vero leader —, equidistante tra i poli, e la pressione che sale dal web per sostenere Grasso o comunque entrare in partita. Dalla sala dove sono raccolti i senatori Cinque Stelle arrivano urla inquietanti. «La democrazia partecipativa è davvero uno stress» sospira il «cittadino» Bartolomeo Pepe, prima di infilarsi in una riunione notturna di ricucitura.
L’applauso con cui la sinistra saluta la vittoria di Grasso è di stima più che di trionfo. E quello con cui la destra accoglie l’arrivo in aula di Berlusconi con occhialoni scuri è più tiepido del solito. Il Cavaliere si siede all’estrema destra, assistito dai pretoriani: Bonaiuti, Verdini con capello lungo fluente sul collo, Ghedini. Calderoli vola subito alto: «Presidente, questa è la XVII legislatura, cominciata alle Idi di Marzo, e siamo nel 2013. Era il caso di votare pure con schede viola? Non è che finirà tutto male e subito?». Il presidente protempore, che in assenza di Andreotti è il novantatreenne Emilio Colombo, ride: «Non mi pare il caso di essere superstiziosi». Sandro Bondi siede in alto accanto alla fidanzata Manuela Repetti. Luigi Compagna, figlio dell’insigne meridionalista Francesco, è vicino a Scilipoti. Razzi si paragona al Papa: «Siamo stati entrambi toccati dal Poverello di Assisi. Io l’ho sognato: ero caduto in un pozzo, e un frate mi tirava su. Era lui: san Francesco».
La linea dei montiani è votare scheda bianca: Casini, Lanzillotta e altri la piegano ostentatamente e passano veloci per mostrare che rispettano la consegna; la Alberti Casellati del Pdl urla contro la violazione della segretezza del voto; Colombo non sente o finge di non sentire. L’unico che si attarda in cabina è Monti, di cui si racconta una certa irritazione per lo stop subito dal Pd (e dal Quirinale). I grillini si dividono tra chi insiste sul candidato di bandiera, il venezuelano Luis Alberto Orellana, chi vota scheda bianca, chi cede agli appelli del web a sostenere Grasso «pur di non avere più Schifani come seconda carica dello Stato». L’olimpionica Joseda Idem, che sovrasta la media dei senatori di una spanna, vota felice e spensierata come una ragazzina. Tremonti e l’operaista Mario Tronti si incrociano davanti all’urna e si salutano con un inchino reciproco come dignitari imperiali. Razzi, finora palesemente sottovalutato a favore del sovrastimato Scilipoti, chiarisce il suo sogno premonitore: «Fino a quel momento nella vita ero un perdente. Dal mattino dopo mi è andato tutto bene. Compresa stavolta: credevano di fregarmi mettendomi solo quarto in lista in Abruzzo; invece, grazie a san Francesco, eccomi qua».
Berlusconi è preceduto e annunciato da Mariarosaria Rossi, molto festeggiata, che verifica il suo potere raccogliendo saluti e omaggi. Il Cavaliere si toglie gli occhiali da ipovedente per votare e poi si consegna al calore dei suoi: Francesco Giro accenna un baciamano; la Pelino gli ha portato come d’abitudine i confetti da Sulmona. Per ultimo vota Emilio Colombo, sostenuto a braccia dai commessi tipo veterano cinese della Lunga Marcia; poi respinge la richiesta di Calderoli di considerare nel calcolo della maggioranza relativa pure le schede bianche, e avvia lo spoglio. Razzi rinvia per altri dettagli biografici all’opera prima: Le mie mani pulite. I grillini guardano con disgusto le vecchie facce, contraccambiati: «Io con loro non ci parlo - dice Gasparri -. Piuttosto vado a trovare i detenuti di Poggioreale. Come dice Giampiero Mughini: aborrrro». E comunque qualcosa è successo, il muro è caduto, il Movimento 5 Stelle rischia di dividersi ma comincia a fare politica, la scelta di una militante per i diritti umani e di un magistrato antimafia (che l’altro ieri ha presentato un disegno di legge anticorruzione ispirato da don Ciotti) li ha scossi. Ora Bersani tenterà di allargare la breccia, ma sarà difficilissimo; tanto più che dai montiani per ora non viene nessun aiuto, e il Pdl aspetta sulla riva del fiume. Alla fine Schifani va a salutare Grasso; la sinistra applaude.
Il nuovo presidente del Senato tiene un discorso cita Aldo Moro e gli uomini della sua scorta, Teresa Mattei partigiana e ultima donna della Costituente, le 900 vittime della mafia, i servitori dello Stato caduti in servizio, le parole della vedova di Vito Schifani al funerale di Giovanni Falcone e dei suoi agenti - «sappiate che vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio» - e quelle che gli sussurrò Vito Caponnetto all’entrata nell’aula del maxiprocesso: «Fatti forza ragazzo. Vai avanti con la schiena dritta e la testa alta. E segui sempre e soltanto la voce della tua coscienza». Grasso annuncia «una fase costituente, che sappia stupire e stupirci». Il suo cammino può proseguire. Quello della legislatura sarà più difficile.
Aldo Cazzullo

LE DIVISIONI GRILLINE
FABRIZIO RONCONE
ROMA — Lo sguardo scorre sui ranghi impietriti dei senatori grillini (intanto c’è Pietro Grasso che quasi accenna un inchino, allarga le braccia, e l’applauso così cresce, ci sono le grida di evviva che rotolano dai banchi del Pd, c’è una piccola bolgia di allegria che travolge l’emiciclo di Palazzo Madama).
Vito Crimi, il capogruppo del M5S, è però pallido nonostante le luci gialle dei lampadari, ha gli occhi socchiusi, lentamente abbassa la testa.
Luis Alberto Orellana, che il M5S aveva candidato alla presidenza del Senato, si morde il labbro, stringe i pugni.
Ornella Bertorotta si asciuga una lacrima.
Nunzia Catalfo fa un gesto con la mano, come di chi vuol scacciare un pensiero brutto.
Vincenzo Santangelo si siede, esausto.
I grillini ora sanno cosa è la politica. Cosa significa confrontarsi, scegliere, litigare, decidere, votare e dividersi.
Perché si sono divisi.
Lo sanno, lo sapevano da prima di entrare in Aula, che sarebbe accaduto: adesso c’è la certezza dei numeri. Almeno dieci di loro, e forse undici, e magari dodici — dipende dal tipo di calcolo che si effettua sul voto segreto — hanno voluto eleggere Pietro Grasso. Lo hanno votato nonostante l’ordine di Vito Crimi, e si suppone l’ordine di Beppe Grillo e Casaleggio — Crimi è stato per venti minuti filati al cellulare — fosse quello di votare «scheda bianca».
Avreste dovuto sentirlo, Crimi (al voto finale mancavano ancora un paio d’ore). «Noi non facciamo la stampella di nessuno». E, naturalmente, inutile insistere, chiedere. Lui subito molto sprezzante, molto grillino. «Dovete rispettarci! Cos’altro vorreste sapere, eh? Noi siamo diversi, dagli altri! Noi ci stiamo andando a riunire... Noi decideremo per alzata di mano!».
Vanno su, al terzo piano di Palazzo Carpegna. Da tre giorni, in attesa di avere ciascuno la propria stanza, i grillini hanno scelto di fare base nell’aula della commissione Agricoltura.
Entrano, sbarrano la porta (altro che trasparenza, altro che diretta streaming).
Cinque minuti. Ed ecco che cominciano a rimbombare voci alterate. Molto alterate.
Una cronista appunta pezzi di frasi eloquenti. «Dobbiamo mantenere la nostra linea...» (sembra la voce dello stesso Crimi). «Ma guardate che Grasso è una persona perbene!». «Basta! Dobbiamo evitare che la presidenza del Senato vada a uno come Schifani!».
Esce Bartolomeo Pepe (quello che a La Zanzara, su Radio24, disse: «Bersani? Un assassino. Con lui, nessun accordo!»). È nervoso, racconta che sono soprattutto i sei senatori eletti in Sicilia (Francesco Campanella, Mario Giarrusso, Vincenzo Santangelo, Nunzia Catalfo, Fabrizio Bocchino e Ornella Bertorotta) «a spingere per Grasso... temono che l’agevolare un eventuale ritorno di Schifani non gli sarebbe perdonato sulla loro isola». Ornella Bertorotta, in effetti, scrive su Facebook: «Libertà di voto. È questo che abbiamo deciso».
Esce anche Andrea Cioffi.
Questo senatore napoletano è sempre tra i meno ruvidi con noi cronisti (stavolta parlava però con voce tremante).
«Ci siamo confrontati...».
Avete litigato.
«Litigato? Mah... No... Cioè... Vedete... Io...».
Avete litigato, si è sentito da fuori.
«Eh... la verità è che noi siamo ancora... noi siamo come dei bambini... bambini che non hanno esperienza».
La riunione è durata un’ora abbondante. Molti senatori grillini l’hanno vissuta con l’Ipad acceso, leggendo il dibattito che, contemporaneamente, è deflagrato sul web. Un dibattito assai controverso. Prima, i militanti sembravano spingere verso una scelta, auspicando un voto in favore di Grasso; poi, improvvisamente, non appena Grasso è stato proclamato presidente della Camera, il senatore a vita Emilio Colombo ha letto i numeri della votazione e s’è intuito che l’elezione era avvenuta anche grazie al voto di alcuni senatori del M5S, il tono dei militanti è mutato radicalmente.
Su Facebook e Twitter toni sprezzanti. «Venduti alla prima occasione!». «Vergogna!». E insulti, addirittura, a Grillo, sul suo blog.
Lui, alle 23,03, risponde con un messaggio: «Nella votazione di oggi è mancata la trasparenza. il voto segreto non ha senso, l’eletto deve rispondere delle sue azioni con un voto palese. Per questo vorrei che ogni senatore del M5S dichiari come ha votato».
Poi, la conclusione, praticamente un ordine: «Nel codice di comportamento del M5S al punto "trasparenza" è scritto: votazioni in Aula decise a maggioranza dai parlamentari. Se qualcuno si fosse sottratto a questo obbligo, spero ne tragga le dovute conseguenze».
Molto chiaro, vediamo ora che succede.
Fabrizio Roncone

COMMENTO DI POLITO SUI GRILLINI
Benvenuti nel mondo dei franchi tiratori. I grillini erano entrati in Parlamento appena l’altro ieri compatti come una falange macedone, monolitici come una novella Compagnia di Gesù, giurando obbedienza perinde ac cadaver. E al primo voto vero, alla prima occasione in cui non hanno potuto evitare di scegliere, si sono clamorosamente divisi. La democrazia parlamentare non è un «meet up». È fatta di voti e di regole. E senza vincolo di mandato.
Messi di fronte all’alternativa tra Grasso e Schifani, numerosi senatori grillini hanno dunque rifiutato una sdegnosa equidistanza, e cioè il mantra stesso di un movimento che considera i partiti tutti uguali e tutti da cancellare, per sostituirli con la democrazia diretta del 100 per cento in cui i cittadini si autogovernano. Non basta star seduti sugli spalti alle spalle di tutti gli altri per evitare di sporcarti nell’arena, quando ti chiamano a votare per appello nominale. Né viene in aiuto la tattica indicata ai suoi seguaci da Beppe Grillo, valutare «proposta per proposta» per evitare così di fare scelte «politiche». Quella di votare Grasso era infatti una «proposta», e un buon numero di senatori grillini l’ha accettata, facendo così una scelta altamente politica.
L’inflessibile logica del sistema parlamentare, nel quale alla fine di ogni discussione c’è sempre un ballottaggio in cui devi dire sì o no, non è d’altra parte aggirabile con i riti della democrazia online, perché sulla Rete non vale la regola «una testa un voto» ma votano solo le minoranze attive. Sarà sempre più difficile, emendamento per emendamento, stare in Parlamento aspettandosi che a decidere sia qualcuno che sta fuori. Ogni giorno si vota innumerevoli volte, e ogni voto può avere conseguenze sulla vita di tutti. Ecco perché l’assemblea parlamentare è diversa da un consiglio comunale o da un’assemblea condominiale: perché fa le leggi, la cosa più politica che ci sia.
D’altra parte i «grillini» non sembrano aver finora trovato nemmeno un modo accettabile per garantire quella trasparenza e pubblicità del dibattito che finché erano fuori del Parlamento sembrava la più innovativa delle soluzioni. Finora l’unica riunione dei gruppi cui abbiamo assistito in «streaming» è stata quella in cui i neoparlamentari si presentavano: più un happening che un’assemblea politica. Ieri, quando il gruppo del Senato ha dovuto decidere, lo ha fatto invece a porte chiuse, con i giornalisti che origliavano come ai bei tempi della Dc, e che riferivano di urla e di pugni sul tavolo poi sfociati in un’aperta contestazione del capogruppo (altra questione delicata: i leader sono essenziali in ogni consesso, e i grillini non ne hanno uno in Parlamento; senza un leader e una linea, il motto «uno vale uno» non può che trasformarsi in continua divisione).
Ma l’astuta mossa di Bersani, che a Schifani ha evitato di opporre un nome usurato della vecchia politica per preferirgli l’ex magistrato antimafia, non ha solo aperto una crepa tra i «grillini», ha anche svelato due punti deboli di quel movimento. Il primo è il rischio di irrilevanza. Se continua così, il 25 per cento dei voti degli italiani in Parlamento non conta nulla. Il Movimento 5 Stelle è completamente privo di potere coalizionale. Il partitino di Vendola, che ha preso poco più del 3 per cento alle elezioni, ha usato invece al massimo quel potere, prendendosi la presidenza della Camera.
La seconda debolezza del M5S è che, per quanto Grillo lo voglia sottrarre alla logica destra-sinistra, la sua élite parlamentare, come segnalava ieri Michele Salvati su questo giornale, pende notevolmente a sinistra e al momento decisivo lo dimostra, come ieri per impedire la vittoria di Schifani. Non basterà forse a risolvere il problema di Bersani, visto che anche con i franchi tiratori «conquistati» ieri gli mancano ancora una ventina di senatori per un voto di fiducia, oltretutto palese; ma può bastare per logorare rapidamente la presa di Grillo sui suoi eletti, forse meno manovrabili di come lui se li immaginava.
Antonio Polito

PEZZO DI STELLA SULLA BOLDRINI
Tenerla ferma nella gabbia dorata di Montecitorio: questo sarà il problema. Perché Laura Boldrini, eletta ieri alla guida della Camera, appartiene a quelle specie animali che non vivono in cattività. Dopo un po’ che sta ferma e non vola via, comincia a mancarle l’ossigeno.
Forse per questo ha chiuso il suo discorso di insediamento dicendo: «Oggi iniziamo un viaggio». Un viaggio non nello spazio, si capisce, ma attraverso una politica diversa, che «deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione». Che si occupi di «chi ha perduto certezze e speranze», che ingaggi «una battaglia vera contro la povertà e non contro i poveri», che sappia «ascoltare la sofferenza sociale di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia», che si faccia «carico (passaggio accolto da una standing ovation a sinistra, da una certa freddezza perfino di alcune deputate di destra) «dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore».
Una politica che riesca finalmente a stare «accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l’aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante». E poi a chi «ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato». E «ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana». E «a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti». E ogni citazione del suo discorso pareva una tappa di un itinerario alla riscoperta di mondi troppo spesso dimenticati dalla «politica politicante». I migranti, l’ambiente, i bambini, la disabilità…
La sua casa romana, ha scritto Famiglia Cristiana che la premiò come italiana dell’anno 2009 per «il costante impegno, svolto con umanità ed equilibrio, a favore di migranti, rifugiati e richiedenti asilo», trabocca di ricordi di viaggio nello Yemen, in Madagascar, Tagikistan, Perù, Pakistan, Afghanistan… Accumulati in trent’anni percorsi girando come una trottola tutti i continenti. Alla scoperta di spazi che fossero un po’ più grandi di Matelica, l’antico borgo collinare in provincia di Macerata, nelle Marche, dove ha fatto le elementari prima del trasferimento per le medie e il liceo classico a Jesi.
«Io e i miei fratelli andavamo alla scuola rurale, vivevamo in un mondo chiuso, ovattato. La voglia di partire è nata lì», spiegò al settimanale cattolico diretto da Don Antonio Sciortino. «Sono la più grande di cinque figli, due femmine e tre maschi. Mia madre ci ha allevati lavorando: era insegnante di Arte, poi ha fatto l’antiquaria. Nella mia famiglia sono tutti artisti, tranne me e mio fratello Ugo: siamo i pragmatici di casa».
Il papà, come raccontò a Paolo di Stefano, faceva l’avvocato ed era «un uomo molto speciale: riservato, studioso, solitario, tradizionalista, molto religioso» che amava «la campagna e la musica classica» e spesso si esprimeva a tavola in latino e in greco: «I suoi princìpi non si coniugavano con la mia curiosità».
Cresciuta nella parrocchia di San Filippo, era legatissima a Don Attilio, un prete attentissimo agli ultimi: «Ho imparato lì la vita nel gruppo, l’amore per la natura, il rispetto dei più deboli, lo spirito del servizio». Presa la maturità, contro il volere del padre si preparò uno zaino e partì per il Venezuela, «a lavorare in una "finca de arroz", un’azienda di riso a Calabozo». La misero in ufficio, «ma io volevo conoscere la vita nei campi: rimasi lì tre mesi, abbastanza per capire come vivono i contadini in quella parte del mondo, li vedevo lavorare duramente per otto ore, poi la sera andavano nei bar a spendere i soldi che avevano guadagnato di giorno». Tre mesi dopo, partiva in autobus, tra campesinos, maiali e galline, per un lungo viaggio verso Nord: Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, poi Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Rientrata in Italia, si iscrisse a Giurisprudenza alla Sapienza, a Roma: «Sei mesi a studiare come una pazza e dare esami, gli altri sei a viaggiare». La prese, come voleva il padre («non mi parlò per otto anni») quella laurea in Legge: 110, con una tesi sul diritto di cronaca. Mentre studiava, lavorava all’Agenzia italiana stampa e migrazione: «Mi occupavo di selezionare le notizie che potevano essere rilevanti per i giornali delle comunità italiane all’estero».
Entrata come giornalista alla Rai, mollò tutto nell’89, quando aveva 28 anni, vincendo un concorso dell’Onu per «Junior Professional Officer»: «Ho lavorato cinque anni alla Fao, poi il capo ufficio stampa del Pam, il Programma alimentare mondiale, mi chiamò per chiedermi se conoscevo qualcuno che curasse i rapporti con la stampa italiana e mi proposi». Era sposata, allora. E incinta: «Stavo aspettando mia figlia, Anastasia, mi ricordo che mi presentai al colloquio con la pancia». Nel febbraio del 1998, la destinazione definitiva: portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.
«Uno degli organismi che non contano un fico secco, finché la stampa non decide che conta», avrebbe ironizzato anni dopo Ignazio La Russa. Non sopportava, l’allora ministro della Difesa, la passione con cui Boldrini attaccava la scelta italiana dei respingimenti (ci scrisse anche un libro: «Tutti indietro») sostenendo, Costituzione alla mano, che gli aspiranti immigrati fermati sui barconi non potevano venire respinti senza che fosse prima controllato se non avessero diritto all’asilo, tanto più che la Libia di Gheddafi non aveva il minimo rispetto per i diritti umani. Ringhiò La Russa: «La Boldrini o è disumana — e io l’accuso — perché pretende che li teniamo per mesi rinchiusi nei centri per poi espellerli, oppure è criminale perché vuole eludere la legge e vuole che una volta qui scappino e si sparpaglino sul territorio».
Lei, mentre intorno si alzavano reazioni indignate, liquidò la cosa così: «Parole che si commentano da sole». E tirò diritto: «I numeri parlano chiaro: i rifugiati da noi sono ancora pochi, 47 mila, contro i 600 mila della Germania, 300 mila in Gran Bretagna, 150 mila in Francia. L’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, non in Europa».
Certo, c’è chi dirà (e qualche voce critica si è già levata) che Laura Boldrini non è mai stata una donna «al di sopra delle parti». Ed è vero. Basta leggere il suo libro in uscita per Rizzoli, «Solo le montagne non si incontrano mai», dove racconta (insieme con lo strazio della morte nel giro di un anno del padre, della madre e della sorella Lucia) la storia di Murayo, una bambina gravemente malata e «adottata» dai soldati del nostro contingente e da lei riportata in Somalia a rivedere il padre, per trovare la conferma: la donna che ha preso il posto di Fini, non è tipo da barcamenarsi sugli equilibri equidistanti. Sai sempre da che parte sta. E questo, a chi non la pensa come lei, può non piacere. Di più: lo stesso discorso di insediamento sarà certamente apparso a molti schieratissimo.
Chi la conosce, però, sarebbe disposto a scommettere che, prendendo sul serio il nuovo ruolo, potrebbe riuscire a smentire i diffidenti e ad essere davvero ciò che ha promesso: «Sarò la Presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato». E magari potrebbe anche essere fedele all’impegno più solenne che ha preso: «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica, rendiamo il Parlamento e il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani…». Sempre che, si capisce, sappia resistere in certi momenti di asfissia alla tentazione di volarsene via…
Gian Antonio Stella

ANALISI DI VERDERAMI
ROMA — L’elezione dei presidenti delle Camere è il primo tassello della strategia con cui i due acerrimi alleati puntano a sfidarsi di nuovo a giugno nelle urne. Ne sono consapevoli persino i centristi, tanto che ieri il segretario dell’Udc Cesa ha detto pubblicamente come l’avvento di Grasso e Boldrini agli scranni più alti del Parlamento testimoni che «si voterà presto». E non c’è dubbio che Bersani e Berlusconi abbiano deciso la strada da intraprendere. Ce n’è la prova nei conversari riservati dei due leader, nell’analisi svolta dal segretario democratico, che — forte del risultato raggiunto con le scelte ai vertici di Camera e Senato — ha parlato del voto «entro l’estate» con i suoi più stretti collaboratori, così da capitalizzare il successo della propria linea e impedire che il crescente malcontento della nomenklatura nel partito si trasformi in rivolta e abbia il tempo di saldarsi attorno a Renzi.
Non è quindi un caso se nelle stesse ore il Cavaliere ha fatto gli stessi ragionamenti, incontrando i senatori del Pdl nell’Aula di palazzo Madama: «È preferibile votare a giugno. I sondaggi dicono che prima andiamo alle elezioni e più vinciamo. Perciò, portatemi idee, progetti, contributi. Dobbiamo essere Grillo, ma Grillo con quello che realizziamo. Perché il movimento Cinquestelle non ha proposte, mentre noi dobbiamo dimostrare di avere una marcia in più per segnare la differenza. Inventiamoci qualcosa, i tempi sono cambiati e bisogna tenere il passo. Il vecchio sistema è fallito. Si deve costruire».
Il duello si avvicina e il ballottaggio per la presidenza del Senato tra Grasso e Schifani conforta Bersani e Berlusconi, perché è la dimostrazione che il bipolarismo incarnato da Pd e Pdl esce trionfante da una prova che ha dimostrato da una parte come i montiani siano ormai definitivamente fuori dai giochi, e dall’altra ha rivelato la fragilità politica dei grillini, che — rinnegando se stessi e la loro idea di trasparenza — hanno evitato la diretta in streaming della riunione di gruppo per non rendere manifesta la spaccatura interna. Lo ha ammesso poco dopo il senatore M5S Bartolomeo Pepe, raccontando che «già eravamo indecisi sul da farsi. Ma quando è arrivata la dichiarazione della Borsellino a favore di Grasso, i siciliani sono andati fuori di testa. Volevano votare a favore di Grasso, non volevano che vincesse Schifani. Ai siciliani si sono uniti i calabresi e poi i campani. D’altronde la gran parte di noi è più vicina a Bersani che a Berlusconi».
Le piazze sono una cosa gli emicicli parlamentari un’altra. E alla prima prova i grillini si sono trasformati in coriandoli. Era quanto si attendeva il leader del Pd, che mira a drenare il bacino di consensi di Grillo nelle urne, più che fare opera di proselitismo tra i suoi deputati e senatori. Anche perché i numeri non basterebbero a formare un governo capace di reggere anche solo per un anno. Né servirebbero a Bersani le truppe in rotta di Scelta civica, disorientate dalle manovre spericolate del Professore al punto tale da volersi ora affidare a chi — in campagna elettorale — era vissuto come un appestato, un vecchio arnese della politica: Casini. L’ex capo dell’Udc per un verso gigioneggia — «sono stanco, non conto più niente» — e nel frattempo sta dettando la linea, anche ieri l’ha fatto invitando i senatori a non uscire dall’Aula al momento del voto: «Non lo fanno nemmeno i grillini, votiamo scheda bianca».
È stata piuttosto una bandiera bianca, il segno della resa, nel disperato tentativo di mettere una toppa al buco provocato da Monti, protagonista nel primo pomeriggio di una maldestra trattativa con Berlusconi sulla candidatura di Schifani. Tutto era iniziato in mattinata, quando — per favorire la vittoria al Senato del candidato pdl — si era mosso addirittura il presidente del Ppe Martens, che aveva avviato una mediazione riservata con Scelta civica, così da garantire almeno sei voti a Schifani.
Per tutta risposta il premier ha alzato la posta, proponendo al Cavaliere l’appoggio al Senato di tutto il suo gruppo per la presidenza di palazzo Madama, ma a patto che il Pdl lo sostenesse poi nella corsa al Colle e si acconciasse intanto ad appoggiare dall’esterno un governo Bersani. E mentre Berlusconi diceva di no al «mercato delle vacche», Schifani esprimeva tutta la sua «indignazione» per l’atteggiamento «arrogante» di un Monti in parabola discendente. D’altronde che Martens sia intervenuto a favore del pdl berlusconiano, dimostra come siano mutate le cose in pochi mesi anche in Europa.
Con le spoglie del centro da spartirsi e il grillismo in evidente difficoltà, i due acerrimi alleati muovono verso il voto a giugno, sapendo che la prova decisiva non sarà legata alla formazione del governo ma alla scelta del Quirinale. Berlusconi ormai non ne fa più mistero, anche ieri ha ripetuto che «in base alla strategia elettorale», la scelta «migliore» sarebbe quella di «confermare la permanenza di Napolitano» al Colle. Il Cavaliere non parla a caso, sa che i nomi di Prodi e di D’Alema si «elidono», perché su questi due candidati il Pd è «spaccato», ed è perciò convinto che «alla fine» si convergerà sull’attuale presidente della Repubblica. Bersani ne sa qualcosa?
Francesco Verderami

MARIA TERESA MELI
ROMA — È notte fonda, quando i vertici del Pd decidono la svolta. Pier Luigi Bersani capisce che per uscire dall’angolo sono necessari due nomi nuovi per Camera e Senato. «Ci vuole uno come Piero Grasso, ragazzi. Uno che può mettere in difficoltà i grillini, che li può far riflettere. Uno a cui è difficile per loro dire di no». L’idea viene accettata subito dal gruppo dirigente.
«E ora ci vuole una donna per la Camera». L’immancabile rappresentante femminile, quella che serve per non farsi dire che i partiti, anche a sinistra, sono tutti maschilisti. Potrebbe essere Marianna Madia, propone qualcuno. Ma alla fine la scelta cade su Laura Boldrini. Vasco Errani la conosce bene. E anche Dario Franceschini che dovrà cederle suo malgrado il posto. È stata eletta con Sel, ma va più che bene al Pd, che avrebbe dovuto candidarla ma, non avendo più posti sicuri nelle liste, ha lasciato che fosse il movimento di Vendola a candidarla. «Perfetto», mormora Bersani mentre morde il sigaro.
Il compito forse più difficile è quello di comunicare la notizia a Giorgio Napolitano. Ma tocca farlo. Dall’altro capo del filo, dopo aver sentito i nomi, il capo dello Stato fa una pausa. Silenzio, poi: «Ottima scelta». Bersani sa che il presidente della Repubblica avrebbe preferito una soluzione condivisa e gli spiega: «Concordo con i tuoi appelli, ma in queste condizioni l’unità nazionale non è proprio possibile».
No, da quell’orecchio il segretario del Partito democratico non ci vuol sentire. Per lui ci sono solo due strade: o il governo da lui presieduto, o il voto. Possibilmente il 30 giugno e il primo luglio. Perché a ottobre è tardi. Si rischia di più.
In autunno le primarie saranno inevitabili: questa volta bisognerà farle vere, allargate, e Matteo Renzi è pronto. Per quella data Bersani potrebbe non essere più in campo.
Ma nel Pd si è già individuata la possibile avversaria del sindaco di Firenze, nel caso in cui Bersani si faccia da parte: Laura Boldrini. Sì, proprio lei: «Sarebbe un’ottima candidata e fossi in Renzi ne avrei paura», spiega ai suoi, Beppe Fioroni, assiso su un divanetto del Transatlantico.
Ma questo eventuale scenario riguarda il futuro, per adesso il segretario pensa di aver fatto «la mossa del cavallo». E intende chiedere nuovamente, e con maggior forza, il mandato a Napolitano. Forte del fatto che i grillini non si sono mostrati più una falange compatta e ostile al dialogo con il Pd.
Alla Camera, dove pure non hanno votato per Boldrini, l’hanno applaudita e poi incontrata. Al Senato il gruppo del Movimento 5 Stelle si è spaccato. Più di dieci parlamentari nel segreto dell’urna hanno votato Grasso. Insomma, secondo Bersani in quel fronte «qualcosa si potrebbe muovere»: «Cerchiamo di far nascere questo governo, e poi vedrete che va avanti». Anche perché Bersani potrebbe proporre altri nomi adatti per un confronto con i grillini. Potrebbe indicare Stefano Rodotà per la presidenza della Repubblica, o inserirlo nel suo governo insieme ad altre personalità che non dispiacciono a quel mondo. Si vocifera che anche Luigi Ciotti potrebbe dare una mano per aprire un canale di comunicazione tra Partito democratico e 5 Stelle.
Ma c’è chi ritene che in realtà questa mossa di Bersani porti soltanto alle elezioni. «Due nomi degnissimi, però si sembra che siano due nomi da campagna elettorale», osserva Ermete Realacci. E Rosy Bindi confida a un amico: «Questa legislatura dura poco». Già, anche perché, per dirla con il veltroniano Andrea Martella, «i problemi restano tutti». Nel senso che questa soluzione per le presidenze delle due Camere non ha creato una maggioranza autosufficiente.
Inoltre quelli di Boldrini e Grasso sono due nomi difficili da usare per un governo istituzionale perché incontrerebbero il no del centrodestra: segno, secondo alcuni Democrat, che Bersani sta facendo di tutto per ridurre a due le possibili alternative: o un governo da lui guidato, o le elezioni il prima possibile.
Maria Teresa Meli

PAOLA DI CARO SU BERLUSCONI
ROMA — A sera — nei conciliaboli, in pubblico, in privato — è solo grande amarezza. Perché si è giocata una partita disperata che aveva poche chance di essere vinta e tante di fallire, ma alcuni ci avevano creduto davvero: «Se passa Schifani con i voti di Monti, rientriamo in gioco e si riaprono le larghe intese». Pochi erano sicuri fin dal mattino che sarebbe finita male, e sconsigliavano di abboccare all’amo di Monti: «I grillini si schiereranno con Grasso, non possiamo farcela. Meglio restare sulla scheda bianca», predicava a nome degli scettici Bonaiuti. Ma lo stato maggiore del partito, in collegamento con un Silvio Berlusconi sospettoso ma comunque disponibile ad andare a vedere le carte, ha deciso di ascoltare le sirene montiane, dei pontieri come Mario Mauro che cercavano con Gasparri, Romani, Verdini un’intesa: «Noi — è stata alla fine la proposta centrista, a quanto giurano nel Pdl — votiamo Schifani se Berlusconi ci fa una dichiarazione in cui dichiara che appoggerà un governo Bersani anche dall’esterno, e poi Monti per il Quirinale».
Proposta «indecente», confermata da tanti nel Pdl, da Cicchitto in giù. Ma soprattutto irrealizzabile, perché «Monti non riusciva a portarci neanche tutto il suo gruppo...». Insomma, il tentativo abortiva già nel primo pomeriggio, amareggiando ancor di più un Berlusconi delusissimo da come Bersani, il giorno prima, gli aveva sbattuto in faccia la porta: «Irresponsabili, non hanno accolto la nostra disponibilità... La loro è un’occupazione militare». Un Berlusconi che si è presentato a sera in Senato ed è sembrato già pronto a una campagna elettorale che ai più nel Pdl pare a questo punto probabile perché — è il ragionamento — è vero che con i 137 voti presi al Senato, la ventina potenziale di Monti e quelli ipotetici della Lega, Napolitano sarà costretto a dargli l’incarico, ma conquistare i grillini sul campo e metter su una maggioranza sarà un’impresa, e dunque la strada maestra che si apre sarà quella del voto.
Ed ecco allora che un Cavaliere che ha ancora come obiettivo primario quello di salvarsi da sentenze e processi di chi «vuol farmi fuori», arrivando in Senato protetto da un paio di occhialoni da sole tenuti anche in Aula, accolto da fischi e contestazioni di un gruppetto di persone (apostrofate da un «Vergognatevi, siete degli ignoranti!»), spara ad alzo zero su tutti. Sulla magistratura, l’Anm che è «molto ben classificata e svolge un’attività criminale, eversiva, e ne ho le prove. Serve una pre-commissione per verificare questi fatti!». Poi contro Grillo, il cui movimento è «come una setta, come Scientology, non dovrebbero essere ammessi qui dentro». Infine contro la stessa ipotesi di conquistare la presidenza del Senato: «Non so se Schifani vincerà, tanto questa elezione non ha alcuna importanza». In Aula, con i suoi, Berlusconi si è sfogato contro «l’assedio» contro di lui, ha dato corpo ai timori di una maggioranza tra Pd, Monti, pezzi di grillini e perfino leghisti perché «in tanti avranno paura di tornare a votare», ha ribadito che «non potranno comunque farci fuori dal gioco del Quirinale, sarebbe un golpe», ha avvertito che «bisogna prepararsi al voto, e restare uniti». Poi, ha ascoltato il discorso nel neopresidente del Senato, applaudendolo spesso. E gli ha stretto la mano: «Io sarò il presidente di tutti», l’assicurazione di Grasso. Che non basta a un Cavaliere costretto a vivere l’ennesima giornata di calvario.
Paola Di Caro

MARCO GALLUZZO SU MONTI
ROMA — Saranno ininfluenti, ma li hanno a lungo corteggiati. Si spaccano, durante la riunione: c’è chi propende per Schifani, chi per Grasso; alla fine sarà scheda bianca. Una scheda «veloce», con i senatori montiani che passano dentro la cabina del voto in modo così rapido da dimostrare di non aver espresso alcuna preferenza: un ritmo che gli varrà l’accusa del Pdl di aver violato la segretezza della votazione.
Per tutta la giornata si vagheggiano incontri riservati dello stesso Monti: «Lo ha cercato Berlusconi», dice Mario Mauro. Sarà vero? «Ha cercato lui Bersani, senza trovarlo», dicono alcuni nel Pd, del Professore. Sarà vero? Alla fine, almeno ufficialmente, Monti non parla con nessuno dei due leader, presiede una riunione a tratti turbolenta, contribuisce alla decisione del suo gruppo: scheda bianca.
I corteggiamenti in Aula sono evidenti: fitti conciliaboli fra lo stesso Monti e Schifani, ma anche fra Mario Mauro, Andrea Olivero, Benedetto della Vedova da un lato e Maurizio Gasparri, Gaetano Quagliariello e Paolo Bonaiuti dall’altro. A un certo punto i pidiellini coltivano la speranza: «Monti è molto adirato con il Pd, potrebbero votare Schifani». Non andrà così, le trattative avranno un epilogo diverso da quello immaginato all’ora di pranzo: «Hanno chiesto cose oscene», riassumerà Gasparri. «Monti voleva il Quirinale in cambio del voto a Schifani», accuserà, via Twitter, il neosenatore Minzolini.
Ufficialmente, a metà pomeriggio, un punto fermo lo mette Andrea Olivero, coordinatore di Scelta civica a Palazzo Madama: «Nella situazione politico-istituzionale che si è venuta a determinare, le forze che si riconoscono in Scelta civica ritengono che l’assetto di vertice delle istituzioni non può rispondere solo a logiche di parte. La drammatica situazione del Paese non può fare a meno di riforme e anche sugli assetti istituzionali ci deve essere una convergenza ampia che garantisca continuità alla legislatura. Per queste ragioni abbiamo deciso di votare scheda bianca anche al ballottaggio».
È una posizione che nel Pdl ovviamente non gradiscono. Per il partito di Berlusconi restringe ulteriormente le prospettive della legislatura: «L’elezione di due presidenti delle Camere di sinistra peggiora indubbiamente la situazione politica che appare ancor più senza sbocco. Con le decisioni del Pd e di Monti di non consentire una presidenza del Senato per Schifani, i margini di manovra per il capo dello Stato sulla formazione di un governo sono ancor più stretti se non annullati. Ciononostante auspichiamo che Napolitano riesca a far ragionare Bersani e il Pd. Diversamente il voto anticipato entro giugno è l’unico sbocco obbligato», dichiara il senatore Altero Matteoli.
«Sono state fatte scelte di parte e non nell’interesse del Paese», riassume con i suoi, Monti, a fine giornata, convinto come Berlusconi che il Pd abbia messo con le sue scelte una pesante ipoteca sulla durata della legislatura. Ma anche le ultime mosse del Professore sono oggetto di critiche, persino nel suo stesso schieramento.
Colpisce, su tutte, la dichiarazione durissima di Giuliano Cazzola, ex pdl e candidato non eletto di Scelta civica: «Mi dispiace per Monti, ma Napolitano ha ragione. Anzi sarebbe stato meglio che alle conclusioni del capo dello Stato il professore ci fosse arrivato da solo, evitando una brutta figura davanti al Paese». Oggetto della critica la disponibilità del premier, due giorni fa, per la presidenza del Senato: «Quando si sale in politica non si può pensare soltanto a sé stessi e alla propria carriera. Si deve mettere in conto anche la possibilità di perdere e di dover aspettare pazientemente un’altra occasione».
Marco Galluzzo

I LEGHISTI. PEZZO DI GIOVANNI CERRUTI SULLA STAMPA
Forse bastava una telefonata. E invece no, nemmeno quella. «Davvero?». Davvero, spiegano a Roberto Maroni con un sms, quando sono le nove del mattino. È bastata una notte e addio, i lavori in corso sono già finiti. L’accoppiata Boldrini-Grasso non poteva piacere. Meglio, molto meglio quell’accordo che partiva con Anna Finocchiaro presidente del Senato. «Ma a quanto pare il Pd ha voluto tirar giù la saracinesca», dice Massimo Bitonci, capogruppo al Senato. E Davide Caparini, deputato bresciano: «Complimenti, così riescono nella grande impresa di farci votare Schifani al Senato».

La telefonata a Maroni è arrivata troppo tardi. «A cose fatte», dice lui con un certo fastidio. «Ora ci sono due schieramenti, e con questi due Presidenti di Camera e Senato ci spingono a rafforzare l’alleanza con il Pdl». Un bicchiere ancora mezzo pieno: «Meglio per il nostro progetto nelle regioni del Nord, avremo piú tempo. Provino a metter su un governo Pd e “grillini”, se ci riescono. E poi vedremo quanto dura». Mercoledì Maroni sarà a Roma, con la delegazione che sale al Quirinale per le consultazioni. Difficile che in tre giorni gli umori possano cambiare. E a questo punto è impensabile che altre telefonate possano bastare.

Perché ai leghisti, per cominciare male la giornata, il nome di Laura Boldrini non è mai piaciuto e non piace. «Ma come, proprio lei che sulle questioni di profughi e immigrazione si è sempre messa di traverso, quando Bobo era al Viminale?», dice il senatore milanese Massimo Garavaglia. Gianluca Pini, deputato romagnolo è più spiccio. «Ma se gli pisciava in testa un giorno sì e l’altro pure». Su Grasso, invece, meno turbamenti. Anche se i buoni rapporti con Maroni pare siano appena formali, collaborazione senza troppe scosse negli anni al ministero degli Interni e nulla più.

«Non c’è più nulla da trattare», annuncia ai senatori il capogruppo Bitonci. La saracinesca e chiusa e si possono buttare le bozze dell’intesa, i sei punti che il senatore bergamasco Giacomo Stucchi venerdì pomeriggio riassumeva così: «Via il patto di stabilità, interventi per lavoro e sviluppo, riduzione dei parlamentari, riduzione fiscale, fine del bicameralismo perfetto e infine riforma elettorale». Un programma per almeno due anni di governo. Ma in una notte la disponibilità della Lega è svanita. Boldrini e Grasso due ostacoli impossibili da superare.

«Peccato - dice a sera Bitonci -, per colpa del Pd si è persa una grande occasione. Si stavano creando le basi per una legislatura di riforme». E bastano queste poche frasi per intravvedere una certa delusione. «Tra Bersani, Grillo e Monti si son voluti creare una loro maggioranza -insiste Sergio Divina, senatore trentino -. Ora si mettano a governare, se ci riescono. Noi eravamo all’angolo del ring, ora siamo fuori. E prima di capire come andrà a finire aspettiamoci qualche intemerata di Grillo dal suo blog». E non sembrano i migliori auguri di buon lavoro, al contrario é lo sfogo di chi non l’ha presa bene.

Maroni domani riunisce i suoi a Milano, in via Bellerio. Ci sarà poco da dire. «Faranno nascere, se riescono, un governo sinistra-centro»: Pd più «grillini» o «montiani». L’attesa vera è per mercoledì, con l’inizio delle consultazioni al Colle. Sperando che non vada a finire come nella Lega si teme, con nuove elezioni alle viste. E queste sì che sarebbero un rischio da evitare, per una Lega ha appena preso il Pirellone con Maroni, e va bene, ma ha perso un terzo dei voti. Non è detto che ritornino in cassa così in fretta. E la Lega ha bisogno di tempo. E di un governo.