Bruno Ventavoli, La Stampa 16/3/2013, 16 marzo 2013
VOGLIO BERE ALLA VITA CON VILLON E MARLOWE"
«La letterina a Babbo Natale, piena di angioletti», dice Francesco Guccini che sta componendo un seguito al dizionario sentimentale degli oggetti perduti (con una bellissima copertina a forma di Nazionali) che l’anno scorso deliziò duecentomila lettori. Ha appena finito il capitolo dedicato a quel rito pieno di speranza e ipocrisia che si compiva da fanciulli. «Promettevi ogni anno di essere buono… scrivevi cose falsissime tra le trine barocche... erano vergognose, meravigliose». Come tutto il sapore delle cose perdute che il Guccio metterà per iscritto nel prossimo libro, le osterie, le toppe al culo, le cartoline. Dopo l’uscita del nuovo disco L’ultima Thule e relativo documentario prodotto dalla moglie Raffaella e diretto da Nene Grignaffini (uscirà in dvd la prossima settimana), ha smesso con la musica, «non riesco più a suonare, nemmeno dopo la bevuta con gli amici». Oggi riceverà ad Alba il premio Go Wine «Il Maestro di Bere il Territorio» per una carriera multiforme lungo le corde della chitarra, ma anche sui binari poligrafi di canzoni, dizionari pavanesi, cronache epafaniche, microstorie di civiltà perduta. Una fama insaziabile di raccontare, dire, cantare, ora con indignazione, ora con delicatezza, sempre con umanità, divorando parole, toponamistica, cognomi, sacche di memoria. Qualcosa che parte da lontano, dalla civiltà contadina abituata alla vita agra, a rattenere a lungo le cose, anche quelle più inutili, tramutandole in tesori che tracimano storie e vita, così come le memorie orali, perché anche la scrittura era rara tra pietre e boschi. Se dovesse compilare una bi blioteca ideale di letture per dute, di allora, che cosa le tor na alla memoria? «Soprattutto fame di leggere. Era evasione, compagnia. Andavo sul letto dopo mangiato e leggevo. Il mio terrore era rimanere senza quella carta intrisa di avventure. Nella casa dei nonni qui a Pàvana, un mulino sul ruscello, si accumulavano libri, riviste, fumetti, lasciate dai villeggianti – sono scomparsi anche loro - durante l’estate… io prendevo quel che trovavo, persino i sussidiari delle scuole rurali dei parenti. Le dispense di Tarzan rilegate in volume a mano, gli albi con le avventure dei Tre Boy Scout, dove mancava sempre una puntata, li lasciavo con un rinoceronte inferocito e li ritrovavo in sudamerica con un’anaconda. Tom Sawyer, le favole dei fratelli Grimm che mi mettevano una paura cane. A un premio di disegno vinsi Ventimila leghe sotto i mari, ma preferivo le avventure di Salgari. I romanzi di appendice di mia zia, l’intellettuale della famiglia perché aveva fatto la cameriera a Genova, e s’era portata dietro Il Fiacre n.13 , Il medico delle pazze , I misteri di Parigi … non mi piacevano granché con quelle agnizioni ogni mezza pagina, “cielo… la mezza moneta!”»
Il libro della sua formazione? « Pinocchio , senz’altro. Su quel legno che diventa bambino ho imparato a leggere e scrivere prima della scuola: mi fecero saltare la prima elementare. Sentivo nel ritmo di Collodi la parlata toscana dei nonni che avevo nelle orecchie, perché Pàvana, per pochissimo, è già dall’altra parte, Pescia, e Collodi non sono lontane. Altro libro centrale, Senza famiglia , agghiacciante, tristissimo. Ma così caro, perché fu il primo regalo di mio padre, a 12 anni, acquistato da un rappresentante passato nel suo ufficio. S’è poi perso con mio sommo dolore in qualche trasloco. L’altro regalo, buonanima, fu un rasoio elettrico prima di andare a militare. Non avevo ancora la barba, lo usai pochissimo».
Suo padre guidava alla lettura? «Nutriva rispetto per i libri, mi portava alla biblioteca dei postelegrafonici – lavorava alle Poste – per farmeli amare anche come oggetti, da scegliere, scoprire, vezzeggiare. Mi sgridava di non leggere troppi fumetti, perché toglievano il “gusto della lettura”. Naturalmente sbagliava, e io ne ero ghiotto. Tex Willer a striscia, Il Vittorioso , e soprattutto Paperino di Carl Barks. Ho messo assieme tutte le edizioni italiane… con un altro amico, maniaco come me, riconosceremmo un Barks falso a venti metri come un Vermeer. Meritava il premio Nobel, Carl Barks». A proposito di fumetti, tra i suoi amici d’in fanzia c’era Bonvi... «Anche l’Equipe 84, i Nomadi. Componevamo uno strano gruppo nel quartiere Nuovo di Modena, Anni 50. Stranamente non si parlava di calcio, invece della squadra dell’Inter, recitavamo gli “Hot five” di Armstrong, leggevamo la storia del jazz, ascoltavamo Jerry Mulligan. Ci siamo divorati tutto Dos Passos, Hemingway, Steinbeck, Caldwell. Scoprivamo l’America ricca e potente, ma anche quella povera e dolente dei romanzi. Quando facevamo cabò da scuola, chi aveva i soldi andava al bar, noi alla sala di lettura della biblioteca estense. Lì ho scoperto Spoon River , adesso nutro qualche dubbio sul suo valore poetico…». La poesia è contigua alla musi ca… «Verlaine, Baudelaire, erano pane per i nostri denti giovinetti, Villon poeta maledetto per eccellenza, graziato dal re. Marlowe morto accoltellato in una rissa d’osteria. Di García Lorca conoscevo interi pezzi a memoria. Studiavo e assimilavo le parole del tango scritte in lunfardo, il gergo della mala curiosamente simile al dialetto modenese perché l’immigrazione lì era stata soprattutto dall’Italia settentrionale. Con passione e fatica esplorai i poeti elisabettiani in originale. Nei Dodici mesi mi sono divertito citando John Donne che citava i bestiari medievali, depurato da Eliot». Quanto delle sue letture s’è tra vasato nelle canzoni? «Il salvadanaio o il maiale se lo riempi bene, ti ricambia… così è la lettura. Le parole degli altri riaffiorano trasformate e digerite spesso senza averne coscienza. Due grandi, molto influenti sul mio sentire, sono Jerome e Wodehouse con il loro senso dell’antifrasi, dell’umorismo che distacca dalle cose, la battuta irriverente. Come le comiche di Stanlio e Ollio. Le ho viste seimila volte, mi fanno ancora ridere, nello stesso tempo mi commuovo se vedo Hardy ballare con leggiadria nel West nonostante la sua mole». All’Università ha incontrato Ra imondi. «E’ stato un maestro importante, che continuo a frequentare con altri amici. Anche mia moglie è una raimondiana. Arrivavo da un liceo di provincia abituato a una compita professoressa, ricordo lo stupore per le prime lezioni su langue e parole di de Saussure. Mi ha abituato a
una lettura più strutturata e profonda, sprofondai nei Promessi sposi , la lingua di Gadda». Nei suoi anni da uomo di mon do, lei ha fatto il militare a Trie ste… «Un tenente mi dette due libri in caserma, “Guarda qui, a te che piace la fantascienza”. Uno era Diario minimo di Umberto Eco. L’altro, L’aleph di Borges. A parte la confusione sui generi… è stato un innamoramento totale. L’ho letto tutto con foga. Addirittura a Buenos Aires ho comprato l’opera omnia autografata da Borges… Autografata? Boh, c’è uno scarabocchio, ma dato che era cieco…».