Marco Belpoliti, La Stampa 16/3/2013, 16 marzo 2013
OCCHIO ALL’OTTOCENTO PER "VEDERE" GRILLO
Non so se ci avete mai pensato, ma le funzioni proprie dell’occhio umano stanno per essere soppiantate da pratiche visive in cui le immagini non hanno più nessun rapporto con la posizione dell’osservatore posto in un mondo «reale», e percepito secondo le leggi dell’ottica. La progettazione degli spazi urbani, e delle architetture, mediante rendering, i simulatori di volo con cui si guidano i droni, aeromobili bellici, la risonanza magnetica negli ospedali, l’olografia con cui si realizzano film, i sistemi di riconoscimenti della robotica diffusi nelle aziende, i caschi della realtà virtuale, e altro ancora, sono diventati, dopo l’avvento dei computer, tecniche che riposizionano la visione su un piano separato dall’osservatore umano. Con queste affermazioni inizia un libro apparso più di vent’anni fa negli Stati Uniti, e tradotto solo ora, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo (a cura di Luca Acquarelli), scritto da un professore della Columbia University, Jonathan Crary.
La sua diagnosi si è rivelata esatta: il fenomeno visivo, scriveva, sarà determinato mediante tecniche cibernetiche ed elettromagnetiche, dove elementi astratti, visivi e linguistici coincidono, e dove il loro consumo e circolazione avverrà su scala planetaria. Ma come si è arrivati a questo? Crary risponde in modo indiretto, descrivendo cos’è accaduto negli anni precedenti il 1850, prima dell’invenzione della fotografia, quando dall’incorporeo osservatore cartesiano, postulato dalla filosofia occidentale, si è passati all’osservatore dotato di un apparato sensoriale, come accade nelle pagine di Goethe sul colore o in quelle di Fechner sulla fisiologia.
Per capirci è il passaggio dalla pittura di Vermeer, tersa, limpida, quasi fotografica, a quella di Turner caotica e visionaria, dal personaggio colto nella sua stanza delle celebri pitture dell’olandese, L’astronomo e Il geografo (1668-69), che padroneggia anche simbolicamente il suo spazio, alle opere in cui Turner dipinge una tempesta, dopo averla osservata legato all’albero di una nave, per poterla rendere su tela nella forme del vortice d’acqua, aria e luce.
Crary analizza dispositivi visivi come la camera oscura, da un lato, e lo stereoscopio, il caleidoscopio, il fenachistoscopio e il diorama, dall’altro, oggetti visivi che producono visioni, non in modo realistico, bensì secondo le capacità e i difetti visivi dell’osservatore stesso. Per dirla con William Blake: «dall’occhio dipende l’oggetto». Nella camera oscura, di cui si dice Vermeer facesse uso, è la visione oggettiva a dominare, mentre nelle successive macchine ottiche, di cui non abbiamo quasi memoria, se non come oggetti di divertimento, o per bambini, è l’osservatore medesimo a produrre l’immagine, attraverso meccanismi fisiologici come la «post-immagine». Crary sostiene che i problemi della visione sono fondamentalmente questioni relative al corpo e al funzionamento del potere sociale. Nel corso del XIX secolo si riorganizza la conoscenza e, insieme con questa, anche le pratiche sociali, a loro volta legate ai sistemi produttivi. Nei primi decenni dell’Ottocento, ben prima dell’invenzione della fotografia, il fenomeno visivo «venne estratto dal contesto di relazioni incorporee della camera oscura e ricollocate nel corpo umano».
Le tecniche dell’osservatore non è solo un libro di storia delle immagini, o delle idee, ma anche un’opera che sollecita interrogativi sul presente. Fino a che punto, si chiede Crary, possiamo dire che le grafiche digitali, rivoluzione visiva portata dai computer, sono un’ulteriore elaborazione e un raffinamento di quello che Debord chiamava «società dello spettacolo»? E ancora: come si posizionano i nostri corpi rispetto alle macchine che hanno prodotto nuove economie e nuovi apparati sociali e tecnologici? Quando Crary scriveva il suo testo non era ancora dominante la realtà del web o quella dei social network, eppure già si chiedeva se per caso la nostra soggettività non stesse diventando «una precaria condizione di interfaccia tra sistemi di scambio organizzati e reti di informazioni razionalizzate». Ora che la politica, in Usa con gli algoritmi, che hanno aiutato l’elezione di Obama, e in Italia con le piattaforme di discussione del Movimento 5 Stelle, appare come il luogo d’applicazione del nuovo paradigma informatico e visivo, quel libro di vent’anni fa diventa utile per capire cosa sta succedendo intorno a noi.