Alberto Mattioli, La Stampa 16/3/2013, 16 marzo 2013
MORTA LA GHIGLIOTTINA E’ TEMPO DI CANTARCI SU"
«Ho l’onore, a nome del governo della Repubblica, di chiedere all’Assemblea nazionale l’abolizione della pena di morte in Francia». Era il 17 settembre 1981 quando l’avvocato Robert Badinter, guardasigilli di Mitterrand, entrò nella storia. Fu lui, figlio di un ebreo immigrato dalla Russia e assassinato dai nazisti, a mandare in pensione la ghigliottina. Lui, il grande penalista che giurò di abolire la pena di morte dopo aver accompagnato al patibolo un suo cliente, «e lei capisce, un conto è parlare della ghigliottina così, in astratto, un conto è essere lì e vedere di quel che si tratta davvero: prendere un uomo vivo e tagliarlo in due».
Di tutti i francesi viventi, Badinter è quello che merita di più l’ammirazione che gli tributano i suoi compatrioti (e non solo loro). Compiuta la missione, ha continuato a occuparsi di giustizia («Mi dispiace, non so fare altro») nelle aule dei tribunali e nelle organizzazioni internazionali. E adesso anche all’opera. Ha tratto dal Claude Gueux di Victor Hugo il libretto di Claude , il compositore Thierry Escaich l’ha musicato e il regista Olivier Py lo metterà in scena il 27 all’Opéra di Lione.
Monsieur Badinter, perché l’opera?
«Perché l’opera mi piace. E mi piace scrivere per il teatro. Ho già rappresentato un testo su Oscar Wilde, C.3.3. , cioè il suo numero di matricola nel carcere di Reading. Poi è stato il caso, che mi ha fatto trovare un soggetto, un teatro e un compositore. Sia chiaro, però: l’opera è del musicista. Il Don Giovanni è di Mozart, non di Da Ponte».
Di cosa parla Claude ?
«Con Gueux, Hugo anticipa il Jean Valjean dei Miserabili . E’ un operaio licenziato che, per far mangiare la moglie e la figlia, ruba una pagnotta. Chiuso nel tremendo carcere di Clairvaux, diventa amico di un altro galeotto ma il direttore del carcere li separa. Claude lo uccide e finisce alla ghigliottina. Questa la versione di Hugo».
E la sua?
«Per fortuna in Francia gli archivi giudiziari sono conservati benissimo. Sono andato in quello di Troyes e ho trovato il dossier di Gueux. In realtà, era un ladro recidivo. E quella che ebbe in prigione con un altro detenuto fu probabilmente una relazione omosessuale. Per questo inaccettabile per il direttore».
Da ministro della Giustizia lei depenalizzò definitivamente l’omosessualità.
«Sì, però non volevo fare di Claude una storia alla Jean Genet. La mia opera parla di giustizia. E il coprotagonista è il carcere di Clairvaux, simile a quei mostri dell’antichità che si nutrivano di carne umana».
Chiaravalle evoca piuttosto sereni chiostri monastici.
«Fu Napoleone a trasformare l’abbazia in un penitenziario, che restò aperto fino al 1970. Nell’Ottocento era un luogo infernale, dove i detenuti venivano appaltati a imprenditori senza scrupoli che li sfruttavano fino allo sfinimento. La giornata lavorativa era di 14 ore, i prigionieri dormivano incatenati in mezzo ai loro escrementi e avevano diritto a due bagni all’anno. La mortalità era la stessa di Dachau».
Perché la Francia ha abolito la pena di morte due secoli dopo il Granducato di Toscana e uno dopo il Regno d’Italia?
«Intanto perché i francesi dicono di amare la letteratura, ma in realtà non leggono. Altrimenti saprebbero che, a parte Beccaria, tutti i grandi autori abolizionisti sono francesi».
E poi?
«E poi per vigliaccheria politica. Quando Mitterrand soppresse la ghigliottina, la maggioranza era a favore della pena capitale: due terzi dei francesi, secondo i sondaggi. La ghigliottina era molto radicata nella coscienza collettiva. Ricordo che quando difendevo qualcuno accusato di delitti particolarmente efferati, fuori c’era la gente che urlava: a morte!. E uscivo scortato dalla polizia».
Quando ha deciso di dedicare la vita all’abolizione?
«Il 28 novembre 1972 accompagnai Roger Bontemps al patibolo. Non aveva ucciso, come sentenziò la Corte d’Assise. Ma era complice di un omicida. Fu condannato e Pompidou non lo graziò. Dopo quel giorno, da avvocato salvai sei accusati».
Era abolizionista anche prima?
«Sì, ma in modo intellettuale. Ero un avversario della pena di morte, non un militante. Bisogna esserci, in un’aula delle Assise, magari in provincia, piccola, a un metro dall’avvocato generale che chiede la testa dell’uomo che senti respirare dietro di te e dai giurati che decideranno. E sai che hai al massimo tre quarti d’ora, perché poi l’attenzione non è più quella, per trovare le parole giuste e salvare un uomo. E se non ci riesci ne porterai il rimorso per tutta la vita».