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 2013  marzo 16 Sabato calendario

IL GRANDE VECCHIO DELLA VALLE D’AOSTA

«Nel nostro mondo rurale costruito nei secoli con tanti sacrifici e fatica c’era molta povertà ma eravamo uomini liberi. Quel mondo è stato cancellato. Guardiamo al futuro», mi spiazza Cesare Dujnay, 93 anni compiuti a fine febbraio, il Grande Vecchio della Valle d’Aosta.

«Dobbiamo riconquistare i concetti di responsabilità e libertà: non può esserci autonomia e libertà quando si vive di contributi! Che fare? Il cambiamento non dipende dai partiti, tantomeno da un uomo solo. Ci vuole partecipazione popolare. Anche se viviamo un tempo difficile bisogna impegnarsi per costruire una alternativa; la vita è lotta e nella lotta c’è la conoscenza dei problemi». Tempra valdostana doc. Sulla porta della sua casa a Châtillon, in una gelida giornata di marzo con le cime innevate dei monti Zerbion e Barbeston che sbucano dalle nuvole, Cesare Dujany, occhi vivaci, fisico asciutto è in maniche di camicia. Scusi ma non ha freddo? «Per niente», sorride salendo veloce una scala. «Il mio segreto? Mangio poco e cammino molto; però, mi regalo mezzo toscano al giorno. Ben altri inverni ho vissuto da bambino. Mio padre faceva il cantoniere, mia madre aveva 4 mucche, abitavamo a SaintVincent in una gelida cascina vicino alla Dora e, per riscaldarci, avevamo solo una stufa. Ogni giorno dovevo camminare mezz’ora nella neve per andare alla scuola elementare; e poi c’erano i secchi del latte che dovevo portare in paese».

Partigiano nella 101a brigata Marmore, storico leader del movimento autonomista Union Valdotaine, presidente della sua Regione dal 1970 al 1974, dal 1979 parlamentare a Roma prima alla Camera e, poi, fino al 1996 in Senato Cesare Dujany è reduce dalla cerimonia ad Aosta per il 67° anniversario dell’Autonomia della Valle e il 65° anniversario dello Statuto Speciale. Gran festa in un clima poco sereno. «L’Autonomia è un patrimonio che dobbiamo proteggere dagli attacchi di coloro che la considerano un privilegio», ha avvertito Augusto Rollandin l’attuale presidente della Regione e c’è chi, alla vigilia delle elezioni il prossimo maggio, ha persino parlato di «rigurgiti neocentralisti» mentre nelle paesi della Valle torna la toponomastica in lingua francese.

«Lamentarsi di Roma non serve», scuote la testa il Grande Vecchio. «La Valle d’Aosta deve ritrovare se stessa senza perdersi in inutili polemiche; nel confronto delle diversità c’è la vera ricchezza. Quanto alle strade il fascismo non solo italianizzò i nomi - Chatillon divenne Castiglione Dora e Saint-Vincent San Vincenzo della Fonte - ma, soprattutto, diede un colpo letale alla nostra cultura francofona. Ora, però, siamo o non siamo in Europa? La toponomastica? Penso che ci siano ben altre sfide d’affrontare!».

Dalle finestre di casa Dujany si vede la bella conca alpina tagliata in due dall’autostrada. «Con la crisi del ’29 allo stabilimento della Châtillon dove si produceva seta artificiale 2 mila dei 3 mila operai persero il lavoro. Mio padre fu trasferito a Modane; per poter studiare entrai in seminario ad Aosta. Vigilia della guerra, miseria, paura. Mio fratello Adolfo, alpino nella Brigata “Julia” morì disperso in Russia. Aveva 20 anni. E oggi mi ritrovo a sentire certe orribili dichiarazioni su Mussolini!», riflette amaro Dujany. Autonomista della prima ora l’ex presidente della Valle d’Aosta non condivide l’idea leghista di una macroregione del Nord. «Non ha senso. Si deve tornare alle idee della Resistenza.

La partitocrazia ha tradito la Costituzione affossando il regionalismo. Allo stesso tempo però noi invece di distribuire i poteri li abbiamo verticalizzati. Aosta sembra una piccola Roma, ovunque ci sono uffici regionali proprio come nella Capitale ci sono ministeri dappertutto. Risultato: in una Regione superburocratizzata le forze intermedie - dai Comuni ai cittadini - non sono coinvolte. Senza partecipazione popolare è in gioco la nostra stessa identità». Quindi, secondo lei, Aosta oggi è più simile a Roma? Cesare Dujany, il Grande Vecchio della Valle, sospira: «Purtroppo è così. Anche sul piano etico abbiamo importato inconsapevolmente alcuni difetti nazionali».