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 2013  marzo 16 Sabato calendario

KAMIKAZE, POSTI DI BLOCCO, LIBRI CENSURATI. BAGDAD DIECI ANNI DOPO: LA LIBERTA’ FRAGILE —

Polvere, tanta polvere, strato su strato. L’afa arrivata in anticipo ne è inquinata. I tagli alla corrente elettrica restano frequenti. Il livello del Tigri è più basso di quanto dovrebbe essere alla fine dell’inverno. L’Iraq ha sete, ma la debolezza del governo centrale si traduce nell’incapacità di trattare la questione dell’acqua con Ankara. Il caos in Siria non aiuta. Ovunque rottami arrugginiti. E code assurde di auto in attesa per ore di fronte ai posti di blocco che paralizzano il centro, separano i quartieri sciiti da quelli sunniti, difendono i ministeri, i commissariati, gli ospedali sporchi, gli hotel a cinque stelle da poco restaurati, l’ex «zona verde» delle ambasciate, la manciata di chiese ancora aperte, si aggiungono alla giungla di muri in cemento grezzo e fili spinati, continuando a creare l’impressione inquietante che la guerra sia terminata solo da pochi mesi. Con una minaccia incombente: la possibilità che l’ostilità crescente tra maggioranza sciita e minoranza sunnita torni a scoppiare in conflitto aperto.
Una delle scene più inquietanti è alla cattedrale siro-cattolica «Nostra Signora della Salvezza». Un edificio noto. Sempre affollata alle messe domenicali, il 31 ottobre 2010 fu attaccata da cinque kamikaze qaedisti, che dopo quattro ore di battaglia con le forze speciali irachene si fecero saltare in aria. I morti tra i fedeli furono 47, le loro foto troneggiano su di un grande cartellone all’entrata. «Non che ci piacesse la dittatura. Ma almeno con Saddam eravamo sicuri. Ora non più. In Medio Oriente è in atto una grande rivoluzione islamica, di cui le primavere arabe sono tra le più preoccupanti manifestazioni. Le minoranze pagano caro. Noi cristiani iracheni eravamo semplicemente protetti, ma i capi della Chiesa di Damasco sono parte integrante del sistema di governo. Là mi aspetto bagni di sangue anche peggiori», osserva il prete locale, Aysar Saeed, 37 anni. Il problema per la stampa locale è riuscire a parlare apertamente dei dilemmi che assillano il Paese. «Il primo ministro Nouri Al Maliki sta limitando la nostra libertà. Non è un segreto per nessuno che, oltre alla minaccia del terrorismo, l’altra grande questione sempre più pressante sia la crescita della protesta sunnita nelle zone occidentali dell’Iraq. Si sta creando una gigantesca enclave militante islamica che parte dalle regioni di Falluja, Ramadi e si spinge sino alle zone liberate dal regime di Assad in Siria, raggiunge Aleppo, Hama, Homs. Lo provano tra l’altro i 48 soldati sciiti-alauiti uccisi pochi giorni fa dalla guerriglia estremista sunnita in Iraq», sostiene Imad Al-Ebadi, 43 anni, reporter per Baghdadia, una delle poche televisioni private che ancora criticano apertamente la politica del premier sciita e per questo motivo chiusa ben quattro volte dal gennaio 2012.
Eppure, sono passati già dieci anni. Nella notte tra il 19 e 20 marzo 2003 i missili «intelligenti» americani colpiscono i centri nevralgici del regime baathista. Il cielo di Bagdad si illumina a giorno, continuerà così per tre settimane. Dovrebbe essere la fine certa della dittatura. L’avvio del rilancio democratico ed economico per il terzo Paese produttore di greggio al mondo. In verità è l’inizio dell’incubo. La vera guerra si scatena in tutta la sua barbarie distruttrice tra il 2005 e 2007. Ci sono mesi che i morti superano quota 3.000, peggio che la Siria oggigiorno. Gli americani adottano allora la tecnica del «surge», pompano oltre 200.000 soldati ad affiancare le nuove unità irachene da loro addestrate. Al Qaeda e le altre milizie sunnite sono circondate. Anche l’Iran entra in gioco, il leader estremista sciita Muqtada Al Sadr acquista forza e influenza nel Centro-Sud. A Nord i curdi fanno ciò che in tanti avevano già previsto: costruiscono un loro Stato indipendente. Formalmente sono ancora iracheni, de facto si fanno gli affari loro, concludono lucrosi contratti con la Turchia, costruiscono una sorta di paradiso in Terra che nulla ha a che fare con l’anarchia violenta della capitale e oggi litiga apertamente con il governo centrale per la gestione dei pozzi petroliferi nelle zone contese di Kirkuk e Mosul. Nel 2011 gli americani infine si ritirano. Hanno perso quasi 5.000 soldati, i feriti sono oltre 50.000. Oggi mantengono 15.000 uomini nel Paese, specie a difesa della gigantesca nuova ambasciata e dei loro interessi economici. Si calcola che i morti iracheni possano essere anche 250.000, senza contare le distruzioni, la povertà, l’imbarbarimento. L’Iraq ha perduto la classe media, i professionisti, i medici, i tecnici. Oltre un milione oggi vivono all’estero.
Sarebbe stato meglio lasciare in piedi la dittatura oppressiva di Saddam? La risposta varia a seconda di chi intervisti. «Non va dimenticato che curdi e sciiti hanno beneficiato della caduta della dittatura. E assieme rappresentano quasi due terzi dei 30 milioni di iracheni», avvisano i diplomatici occidentali. Una speranza viene anche dal greggio. Nel 2012 i barili venduti al giorno hanno superato quota tre milioni. Una ricchezza enorme. Tuttavia a Bagdad è difficile trovare una parola gentile per gli Stati Uniti. «Ci hanno liberato, ma poi lasciato nelle mani dell’Iran», accusano anche i più moderati. Al Teatro Nazionale sono in fibrillazione. Si sta allestendo il festival che tra una settimana vorrebbe rilanciare Bagdad a «capitale culturale» del Medio Oriente. Sono previsti spettacoli sino a oltre la mezzanotte. Un segno di speranza, sino a tre anni fa il teatro chiudeva con il primo buio per paura di bombe e rapimenti. Ma è Leila Mohammad, nota attrice e autrice di spettacoli di successo, a raffreddare l’ottimismo. «Stiamo precipitando nel Medioevo. Abbiamo ministri sempre più condizionati dai circoli religiosi conservatori. Censurano e vietano in nome di Allah. Per noi donne è un salto indietro di decenni. Altro che rivoluzione democratica! Una volta mi vestivo come diavolo volevo, ora se giro con le gonne al ginocchio mi aggrediscono per la strada». Ieri la capitale era particolarmente blindata, con posti di blocco ovunque, dopo il blitz di un commando suicida che giovedì ha causato, sembra, una trentina di morti al ministero della Giustizia (dall’inizio dell’anno si calcola siano almeno 600 le vittime per attentati). Ma una folla discreta si era assiepata come ogni venerdì a Muthanabbi, la via pedonale del mercato dei libri. Qui qualche cosa è cambiato rispetto a dieci anni fa. Sono spariti i volumi in lingue straniere. Dominano invece i testi religiosi. «Gli americani hanno fatto male ad andare via e noi iracheni abbiamo perso una grande opportunità di libertà. Peccato! Un’occasione unica, irripetibile. Ora Maliki censura i libri baathisti, presto tornerà la dittatura», lamenta Abdel Mahdi, 61enne venditore di testi universitari che si definisce «comunista». Vicino a lui una trentenne offre corsi di inglese a pagamento con i due figli di 6 e 12 anni al fianco. Non vuole dire il nome. «Ho paura», confessa. La sua storia è straziante: «Noi siamo turcomanni. Mio padre fu assassinato dalla polizia segreta di Saddam. Fui felice nel 2003. Finalmente saremmo stati liberi, pensavo. Ma nel 2006 mio marito è stato rapito, torturato e ucciso forse da un gruppo armato sunnita perché lavorava alla compagnia elettrica nazionale. E ora non credo più a nessuno». Ci allontaniamo per andare alla moschea Abu Hanifa, il cuore pulsante dei sunniti nel quartiere di Hadamia. Sono attese manifestazioni di protesta. Ma la polizia non lascia passare. Vietato anche avvicinarsi alla moschea sciita nel quartiere di Kadamia. Sono divise dal Tigri, poche centinaia di metri, ma due mondi a parte. Vietato raggiungere le grandi marce previste a Falluja e Ramadi. Giunge voce di scontri violenti. Anche i campus universitari sono chiusi alla stampa: per entrare occorrono permessi e un accompagnatore ufficiale. Nel quartiere sunnita di Yarmuk due giovani se la prendono con il figlio del premier, Ahmed Al Maliki. Lo accusano di essere alla testa «dei corrotti», addirittura di guidare assieme al padre il famigerato «Battaglione 45» sospettato di gestire «centri di tortura». Esclamano: «Ahmed Al Maliki come Udai, il figlio criminale di Saddam».
Lorenzo Cremonesi