Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 16/03/2013, 16 marzo 2013
ONOREVOLI «DENTRO»: A PALAZZO O IN CELLA
«Ah, quando c’era Ciriaco!» E il capannello intorno, in un sospiro: «Ciriaaaco!» «E Mirello, allora?» «Mireeello!» «E Wilmo Ferrari detto la clava? Ve lo ricordate “Wilmo la clava?”» «Wiiilmo!» È durissima, per i sopravvissuti delle stagioni di ieri, parlamentari, cronisti o portaborse che siano, riconoscersi nel Transatlantico di oggi. Si muovono spaesati come in una giungla ignota. Ogni faccia giovane è un’incognita. «Scusi, signorina: deputata?» «No, cronista». «Scusa, collega…» «No, non sono un giornalista, sono un neo eletto». Un caos.
Ed è tutto un rimpianto «per i bei tempi andati». In ogni poltrona, a una certa ora, si spaparanzava il deretano di «quel» preciso onorevole, ogni divanetto aveva un bracciolo riservato al gomito di «quel» parlamentare e l’altro a «quel» sottosegretario, ogni angolo era occupato dai conciliaboli degli addetti alle trattative, ogni posacenere accoglieva i residui del sigaro di «quel» deputato. E tutto era facile, tutto semplice, tutto riconoscibile. E tutti si muovevano seguendo con sciolta sicurezza percorsi noti.
Tutto cambiato. Rovesciato. Sconvolto. Neanche il tempo di entrare in aula e perfino la scelta dei banchi, fino a ieri in qualche modo scontata con la destra che stava a destra e la sinistra a sinistra, è sottoposta a uno scossone: dove si piazzeranno i grillini, da quale parte dell’emiciclo? E quelli vanno a impossessarsi, a sorpresa, di tutti i seggi in alto. Lo spiegherà su Facebook Simone Valente, un ventiseienne perito tecnico di Savona dalla barbetta allegra: «Siamo appena entrati in aula per la prima seduta! Operazione “fiato sul collo” già iniziata: abbiamo occupato le ultime due file in alto in modo da controllare tutto!». Il torinese Ivan Della Valle twitta una foto dell’emiciclo: «Arrendetevi, siete circondati!».
Nei corridoi dietro le tribune, cosa un tempo impensabile, c’è una carrozzina con dentro un bambino bello e tranquillo. Si chiama Mario, è il figlioletto della palermitana Loredana Lupo. Il marito della deputata chiede se è possibile portare la carrozzina direttamente in tribuna. «Venga, veda un po’ lei…», gli spiega un commesso. Si affaccia: impossibile. Spazi minuscoli. Aperta la seduta porterà il piccolo a vedere la mamma, dall’alto, tenendolo in braccio.
Il presidente di turno più anziano, Antonio Leone, sottolinea magnanimo come sia «aumentata la rappresentanza delle donne». Applauso. Benedice l’aumento dei colleghi «di più giovane età: circa il 38 per cento degli eletti ha meno di 40 anni». Applausi ancora. Aggiunge, in velenosetta polemica proprio con i grillini, una postilla, augurandosi che «chi vi arriva per la prima volta animato dall’entusiasmo, dalla passione, dalla voglia di impegnarsi per il bene del Paese» capisca quanto si tratti di «un lavoro ben più difficile e faticoso di quanto possa essere talora superficialmente rappresentato». I nuovi arrivati sorridono perplessi.
A proposito, le cravatte? Nessuna ribellione. Anzi, quelli che Beppe Grillo chiama i «boyscout» del Movimento 5 Stelle, sono tutti ordinati e compiti. Chi non ce l’ha, la cravatta, è giustificato. Quattro o cinque se ne erano messa una nera con scritto «No carbone». I commessi hanno loro spiegato che non si poteva: niente messaggi scritti, neppure sugli indumenti. «Non lo sapevamo».
Quasi negli stessi minuti, alla periferia nord di Napoli, un altro politico si toglieva la cravatta. Per consegnarla, stavolta, non ai commessi ma alle guardie del carcere di Secondigliano. Era Nicola Cosentino, già potentissimo sottosegretario berlusconiano. Cosa gli passasse per la testa, in quel momento, possiamo immaginarlo andando a rileggere i ricordi dell’ingresso in carcere, nel libro «Il candore delle cornacchie», di Totò Cuffaro che passò in un paio d’ore dai salamelecchi dei commessi di Palazzo Madama ai modi spicci dettati dal «regolamento» della galera: «Entro in uno stanzino, mi fanno spogliare nudo, totalmente nudo, devo togliermi anche una piccolissima collanina con crocifisso che ho sempre portato con me da oltre 40 anni, me l’ha data mamma quando a dieci anni sono andato in collegio… Fa un freddo terribile, sto tremando, chiedo se posso rivestirmi, devono prima perquisirmi, l’agente mette dei guanti di plastica trasparente, fa scivolare le sue mani guantate dalla testa sino ai piedi… L’agente mi fa appoggiare al muro dove c’è disegnata un’asta millimetrata, mi aggiusta la testa, prende la misura, mi dice di star fermo e mi fa la prima foto…».
Contemporaneamente all’ex sottosegretario accusato di essere il referente politico dei Casalesi, cessavano di essere parlamentari, perdevano l’immunità e venivano colpiti da ordinanze di custodia cautelare altri tre ex senatori: Alberto Tedesco, Sergio De Gregorio e Vincenzo Nespoli, sindaco in carica di Afragola. Tutti agli arresti domiciliari. Umiliazioni carcerarie risparmiate.
Ed è proprio in questi due modi di finire «dentro», di qua gli ex parlamentari fino a ieri coccolati e riveriti e vezzeggiati oggi sbattuti dentro la galera e di là i nuovi parlamentari ascesi in gloria dentro le preziose bomboniere dorate di Montecitorio e di Palazzo Madama, c’è il senso di un passaggio storico. Forse la fine della seconda Repubblica, forse. Forse l’inizio pasticciato e convulso di una fase nuova, dai contorni non ben definiti.
Non solo perché anche i riti procedurali che mai erano stati contestati davvero neppure dalle ali più estreme della destra e della sinistra vengono oggi messi in discussione, per esempio, dalla capogruppo grillina Roberta Lombardi secondo la quale le votazioni per eleggere il presidente della Camera «con un voto elettronico si potevano fare in mezz’ora» risparmiando «noi abbiamo calcolato 420.000 euro». Ma perché perfino fra i più disponibili dei «vecchi partiti» contestati dal Movimento 5 Stelle, quelli che sostengono come Nichi Vendola l’opportunità di votare con una apertura unilaterale il candidato grillino Roberto Fico, affiora lo sgomento per l’«incapacità di capirci, di parlare la stessa lingua».
Raccontano gli storici che Marco Polo riuscì ad arrivare in Cina, alla corte del Gran Khan, parlando soprattutto il persiano allora assai più diffuso di oggi e imparando via via un po’ di parole dei popoli che incontrava. Senza avere mai bisogno di un vero e proprio «dragomanno» che gli facesse da interprete. Quel viaggio, però, gli portò via tre anni. E dall’una e dall’altra parte, a differenza del piccolo mondo racchiuso oggi nei palazzi della politica, c’era la volontà di capirsi l’un l’altro.
Gian Antonio Stella