Mattia Feltri, La Stampa 16/3/2013, 16 marzo 2013
LA PRIMA BATTAGLIA NELLA GUERRA DEI MONDI
Benvenuto a Babilonia, onorevole Bombassei. Gli abiti paiono cascargli addosso come l’umore e l’entusiasmo già sfibrati: "Sono scioccato", dice edulcorando lo schiaffo col sorriso. A lui che è noto per Confindustria, ma ha scalato il pianeta con la Brembo che ha prodotto i freni dei bolidi di Schumacher e Valentino - era sconosciuta l’oziosa tecnologia della lentezza parlamentare.
Ecco la prima battaglia della guerra dei mondi. Lo si vede a occhio nudo. Lo sguardo collaborativo ma circospetto di Vito Crimi, capogruppo del M5S al Senato, che affianca il costituente Emilio Colombo, 93 anni fra meno di un mese e presidente anziano di Palazzo Madama, è il manifesto della legislatura nascente. È lo stridore di tutta una giornata, che alla Camera si era inaugurata col drappello di grillini in attesa fuori dall’aula. In realtà precisini, rispettosi, alcune belle grisaglie primorepubblicane, qualche coda lunga e pettinata e non inedita, occhiali scuri da villeggianti. È una guerra dei mondi, o quantomeno sono mondi che si mischiano senza sfiorarsi, non si incastrano, non si capiscono neppure, la voce di Colombo sembrava provenire da una trasmissione radiofonica di tempi seppelliti: «... Mi dà modo di interpretare... sicuro di avere il consenso unanime... dialogo onesto e rigoroso... difficile congiuntura... nelle pur legittime contrapposizioni....».
I ragazzi a cinque stelle se ne restavano lì, rigidi agli scranni, a sentire quel vecchio orgoglioso che parlava dei suoi esordi: il 1946, al tempo dei padri dei loro padri. Scene che si sono ripetute a fotocopia, come se causa ed effetto fossero implacabili persino nel regno dell’improbabile che sono le nostre camere alta e bassa. Anche a Montecitorio nessuno mollava la seggiola, sebbene non fosse che procedura, scialbo protocollo, al sospetto di chissà quale trucco la casta si sarebbe inventata in un momento di distrazione. Gli altri, i T-Rex della partitocrazia, pascolavano in realtà pacifici come d’usanza. Giusto disturbando un poco col loro chiacchiericcio così scandaloso per chi vede - non sempre a torto - questi luoghi come la replica stanca e stracciona del declino di Weimar. E quando Colombo ha chiesto un po’ di cortesia e di compostezza «colleghi senatori, sedete» - dagli spicchi grillini si è levato il primo vero ruggito anticasta, braccia al cielo ad applaudire. Però non è che fosse proprio tutta epifania grillesca. I ragazzini c’erano dappertutto. Giuditta Pini, alla Camera per il Pd, rivendicava i suoi 28 anni eppure, spiegava, «quando mi fermano le tv, e confesso di non essere Cinque Stelle, mi dicono grazie, magari un’altra volta». I suoi coetanei del M5S al contrario non ne possono più. Il primo fotografo è arrivato al Senato alle 3,30 di notte per conquistare la trincea migliore. Di prima mattina, in piazza Montecitorio, era un festival di scatti, telecamere, I-pad, e questi giovanotti col piercing e la borsa a tracolla resistevano lo spazio della loro non ferrea tolleranza. «Gli ho consigliato di dirgli che erano del Pd», dice Giuditta Pini, e loro lo hanno fatto davvero, e proprio quella volta andavano bene pure se erano del Pd, e ne è uscito un servizio televisivo surreale.
L’epifania oggi la sbandierano un po’ tutti perché non si conosce nessuno. Il bergamasco Beppe Guerini racconta di sé e in dialetto dice: «Mèi che che in fabrica (meglio qui che in fabbrica)». Pure lui è del Pd e il padre partiva per Milano i lunedì mattina, in bicicletta, dormiva in capannone e tornava a Bergamo il venerdì sera. Storie così, di piccolo mondo, non producono soltanto rivoluzionari on-line. Pippo Civati, poi, la fa un po’ fuori da papa Bergoglio e arriva alla Camera in bicicletta, proveniente da casa di amici in zona Termini. La frugalità è l’arma perfetta di oggi. L’inesperienza un titolo di merito. L’inadeguatezza è il solco del rinnovamento.
Aris Prodani, simpatico e affabile grillino del Nord-Est, reclama chirurgico una app per smartphone con cui orientarsi per i piani e i corridoi del castello del potere. Molto più modestamente, come s’è fatto sin qui, qualche ora prima il democratico Miguel Gotor aveva chiesto al volenteroso cronista d’essere guidato per i labirinti senatoriali fino alla mèta dell’aula. Certo, Crimi a un certo punto non riusciva più a trovare la via d’uscita, ma questo semmai lo omologava alla moltitudine degli esordienti. I poveri commessi sono andati avanti all’infinito a ripetere «in fondo al corridoio a destra». Nico Stumpo e Roberto Speranza, due del Partito democratico che dovrebbero avere idee più precise sui riti del tempio, hanno sbagliato tutto e si sono seduti ai banchi del centrodestra, proprio dietro ad Angelino Alfano che di buona educazione siciliana s’è alzato a salutare, raggelando la coppia. Sembrava pesca a strascico, buttavi la rete e tiravi su qualsiasi cosa, compreso il baciamano feticista alla destra più medagliata di tutti i tempi, quella della divina (e montiana)Valentina Vezzali, sicura nel parallelo fra l’emozione perpetua della pedana e quella dell’emiciclo. Ecco la prima brasiliana del Parlamento italiano, Renata Bueno, già deputato del Paranà, «e orgogliosa delle origini trevigiane». Ed ecco l’ex procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che ha visto scolpiti sui muri del Senato i suoi princìpi di vita: «Diritto, giustizia, fortezza, concordia». E intanto lì in mezzo transitavano placidi come grossi e pesanti mammiferi i vecchiacci sopravvissuti, Umberto Bossi e Pierluigi Bersani, Renato Schifani e pure Mario Monti, arrivato a Palazzo Madama per votare il nulla, e mancava soltanto Silvio Berlusconi, ieri, e forse per una volta sola, così lontano da ogni prospettiva.
In questo scoppiettìo di ingenuità e smarrimento, i blasonati incrociavano le strategie per uscire dalla palude dell’elezione dei presidenti, e gli esiti fantasiosi, gli arrocchi, le ipotesi marziane, i conteggi febbrili restituivano un poco del gusto bizantino che ha insaporito queste stanze nei decenni, in un altro, ennesimo lampo di contraddizione. Lunghe ore nemmeno di schermaglie, ma di liturgia incomprensibile durante le quali i soliti ceffi se la spassavano come potevano, Luca D’Alessandro del Pdl offriva lo sfregio un po’ maramaldo votando Gianfranco Fini alla prima chiama e Italo Bocchino alla seconda; Daniele Marantelli, varesino e democratico, intascava sei voti d’augurio, si diceva, al suo ruolo geografico ed etnico di pontiere con la Lega; Domenico Scilipoti - molto fotografato dai colleghi imberbi e sprezzanti - guadagnava un voto al Senato e senz’altro era il suo. E quanto erano conciliabili queste scene sovrapposte e stridenti? Perché c’era spazio persino per la sfilata dei bimbi, il piccino di bellezza straziante (qualche settimana di vita) di Loredana Lupo, deputata M5S, che usciva dalla stanzetta con culla che fu dei figli di Maria Vittoria Brambilla e Stefania Prestigiacomo: «E’ un figlio del MoVimento». Un’altra bimba di tre anni in braccio alla mamma, e di notte ne erano nati ancora due, un piccolo renziano, un piccolo grillino, il trionfo abbagliante del crollo dell’età media che va assieme al proliferare di donne, tutte furenti per le code infinite in bagni inadeguati a contenere la carica. Eppure la polvere austera restava tutta lì, in quell’andirivieni delirante sotto i catafalchi del voto, un parlamentare per volta, a chiama nominale e coi biglietti di carta e il matitone. Una giostra folle ed estenuante. «E poi segnare un voto dopo l’altro col cerchietto rosso, una roba dell’Ottocento», diceva allibito Giuseppe Vacciano, senatore del M5S chiamato a sgobbare ai banchi della presidenza; e il suo collega Andrea Cioffi («mamma mia, che impressione vedere ’sta gente da vicino») soppesava divertito il tomo con Costituzione e regolamenti parlamentari: «Quattrocento pagine che la sera ci si prende sonno». Ecco, benvenuti a Babilonia, benvenuti nel cerimoniale scioccante, mettete mano a questi regolamenti giolittiani, portate la rete dentro queste fortezze in cui i telefonini prendono poco e male. «Bisogna fare qualcosa subito», diceva Bombassei. Questa certo non è un’azienda diceva. «Bisogna dimezzare i parlamentari, sveltire i lavori, lo dico per il bene di tutti». Se ci sarà tempo, forse lo faranno. Forse sì. Perché alla fine rimane negli occhi la prova di questo mare di ragazzi, perduti nell’enormità del compito, scombussolati dall’impatto col medioevo, ma non spaventati e nemmeno arrendevoli.