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 2013  marzo 15 Venerdì calendario

QUEI GLORIOSI 30 ANNI DI BOOM ECONOMICO FERMATO DAL PETROLIO


Quando scoppiò la seconda guerra mondiale gli strascichi della Grande Depressione non erano ancora stati riassorbiti. Solo in pochi Paesi il pil era ritornato ai livelli del 1929 e la disoccupazione era stata cancellata soltanto in Germania. Alla fine delle ostilità i nostri padri si trovarono di fronte a un mondo da ricostruire. Le distruzioni avevano superato ogni immaginazione: erano rimasti sul terreno 50 milioni di morti; un numero incalcolabile di ponti, strade, ferrovie, case, stabilimenti, porti, erano fuori uso; i capitali per la ricostruzione erano esigui o mancavano del tutto.
Cinque anni dopo il volto dei Paesi più colpiti era quasi irriconoscibile. La ripresa dell’economia aveva riportato il reddito ai livelli del 1938. I danni della guerra non erano stati interamente cancellati, ma tutto lasciava credere che si stesse aprendo un’era di prosperità duratura. E in effetti fino ai primi anni Settanta le economie europee, ma non solo, vissero quelli che Jean Fourastié avrebbe definito “i trenta anni gloriosi”. Un’etichetta leggermente pomposa, ma non ingiustificata. Basta confrontare i tassi di crescita di quel periodo con il ritmo di sviluppo dei decenni precedenti e di quelli successivi per rendersi conto che si trattò di un’epoca insolitamente prospera. Fra il 1900 e il 1950 l’economia europea si era sviluppata a un tasso dell’1% all’anno; fra il 1950 e il 1973 a un tasso del 4,1%, nei due decenni successivi dell’1,8%.
Com’è facile immaginare, la vigorosa espansione dell’economia fu accompagnata dal rapido aumento dei posti di lavoro e dal crollo della disoccupazione. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, fra il 1958 e il 1973 nei maggiori Paesi industrializzati il tasso di disoccupazione si mantenne al di sotto del 3%; in Germania e in Giappone intorno all’1%; in Gran Bretagna superò la soglia del 2% solo nel 1971 e 1972; in Italia scese rapidamente a partire dal 1960, quando il numero dei senza lavoro oscillava intorno al 6% della popolazione attiva, per dimezzarsi negli anni successivi. Solo negli Stati Uniti si attestò per la maggior parte del tempo intorno al 5%, ma c’è chi sostiene che il divario rispetto all’Europa dipendeva in parte non piccola dai diversi criteri di rilevazione.
La disoccupazione di massa era un ricordo lontano, ma i senza lavoro erano ancora numerosi. Secondo Joseph Schumpeter era il meccanismo stesso dell’economia di mercato a creare la disoccupazione e, nello stesso tempo, i mezzi per riassorbirla: «L’impulso fondamentale che mette in moto la macchina capitalista», scriveva, «deriva dai nuovi beni di consumo, da nuovi metodi produttivi, da nuovi mercati e da nuovi tipi di organizzazione industriale... Un processo di cambiamento industriale rivoluziona dall’interno la struttura economica distruggendo i vecchi elementi e creandone incessantemente di nuovi».

Pax sociale. La “distruzione creatrice”, come la chiamava l’economista austriaco, era responsabile della disoccupazione di breve periodo, ma era pur sempre preoccupante e gli economisti incominciarono a chiedersi fin dove poteva spingersi senza intaccare la pace sociale. Nel 1963 Walter Heller, uno dei consiglieri economici di Kennedy, propendeva per una disoccupazione del 4%. Un altro studioso riteneva che la soglia massima accettabile negli Stati Uniti fosse il 3,5%. Gli economisti svedesi fissavano invece la soglia al 2%, ma, secondo il loro parere, doveva ancora scendere. In tutti era presente il monito di William Beveridge che in Full Employment in a Free Society, pubblicato nel 1944, aveva scritto: «Se la piena occupazione non verrà raggiunta e conservata, non sarà salvata nessuna libertà perché per molti non avrà alcun senso». Esisteva però la diffusa convinzione che l’obiettivo fosse a portata di mano. Come osservò Garth L. Magnum dell’Upjohn Institute for Employment Research, «il jet da trasporto dello sviluppo economico non è ancora atterrato nell’aeroporto della piena occupazione... La pista di atterraggio della massima occupazione è sepolta nella nebbia dell’inesperienza, ma noi abbiamo un radar statistico per ridurre il pericolo nell’atterraggio verso di essa... L’economia è ben vicina alla risoluzione del problema disoccupazione generale».
Purtroppo l’aereo della piena occupazione non è mai atterrato. Toccò invece terra, e molto bruscamente, il jet della crisi petrolifera e con esso una sorprendente impennata dei senza lavoro. Nel 1973, quando scoppiò la prima crisi petrolifera, in Germania la disoccupazione toccava l’1,2%, dieci anni dopo aveva superato il 9%; in Italia aumentò dal 3,5 al 9,9%; in Gran Bretagna dal 2,7 all’11,7%; negli Stati Uniti dal 4,9 al 9,5%. Fra i Paesi industrializzati si salvò soltanto il Giappone, dove la disoccupazione raggiunse la punta massima del 2,6%. Da allora il numero dei senza lavoro non è più ritornato ai livelli precedenti. Fra rapide impennate e modeste regressioni la curva dei disoccupati è rimasta stabilmente elevata. In questo grigio panorama soltanto gli Stati Uniti e il Giappone sono riusciti a mantenersi a galla con una disoccupazione che si aggira intorno alla metà di quella di Italia, Francia e Germania. Poi è arrivata l’ultima crisi che ha cambiato ancora le carte in tavola.
La difficoltà di far fronte al flagello della disoccupazione è argomento di dibattito quotidiano. I governi sono presi fra l’incudine del debito pubblico che deve essere riportato sotto controllo e non consente ulteriori spese e il martello della globalizzazione che attenua l’efficacia delle politiche keynesiane. L’impasse nella quale si trovano oggi i governi non è nuova. Alan Greenspan, che presiedeva il comitato dei consiglieri economici di Gerald Ford, confessò «di aver studiato dozzine di proposte per ridurre la disoccupazione massiccia senza essere riuscito a scoprirne una che avesse la probabilità di servire a qualcosa». Sul fronte opposto, un consulente economico del candidato democratico Jimmy Carter ammise che «gli economisti non ne sanno, in questa faccenda, quanto dovrebbero». Chi sa oggi qualcosa di più?
5 - continua