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 2013  marzo 15 Venerdì calendario

GLI AMICI, GLI AMORI E GLI AFFARI DI MALAGÒ “ER GRILLO” DELLO SPORT


Di Giovanni Malagò hanno scritto: «Quello che lo ha eletto presidente del Coni è un pezzo di una Roma potente e trasversale, in cui tutti si relazionano con tutti, in cui la destra scolora nella sinistra e la sinistra stinge nella destra» (Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera); «è il Rubirosa dei Parioli, bello e possibile, che ha fatto del Canottieri Aniene la più formidabile concentrazione di Upper Class della capitale» (Alberto Statera, su la Repubblica); «in una leggenda che si arricchisce giorno per giorno, c’è in Malagò tutto quello che può rendere invidiabile un maschio adulto italiano» (Cesare Lanza, su Panorama).
Sono le sette di sera e Malagò ce l’ho davanti. È un pennellone dal fisico atletico, ha un abito grigio, un gilet rosso in lana. Non sta fermo neanche dietro la scrivania piena di cartelline trasparenti giallo fluorescente che seleziona e acchiappa, come se riuscisse ad abbracciare da un capo all’altro l’intero tavolo che sarà lungo quattro metri ed è smisurato come ogni altra cosa qui, nella sede romana del Coni. Smisurato come quel salone di 60 metri che Malagò ha attraversato di corsa per abbracciare le sue due gemelle nel momento in cui, il 19 febbraio scorso, lo scrutinio lo ha certificato presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano. In quel momento, lui, l’outsider, il “Grillo” o “il rottamatore” dello sport aveva gli occhi lucidi.
Nessuno si aspettava che avrebbe battuto Raffaele Pagnozzi, già storico segretario del Coni e sponsorizzato dal presidente uscente Giovanni Petrucci, uno in carica per quattro mandati, dal 1999 a oggi. Nessuno se l’aspettava, tranne lui, che è uomo dall’ottimismo smisurato, tanto che aveva costretto le figlie a raggiungerlo. E una stava a Parigi, l’altra a Milano in partenza per il Sud Africa.
«Qualcuno mi darà dell’incosciente, ma io non ho mai pensato di non farcela», ammette adesso, fermandosi giusto un attimo. «Sono partito da zero: non ero nel Consiglio Nazionale e non potevo neanche votarmi da solo».
Malagò pesca deciso cartelle giallo fluo e detta risposte a due segretarie, fissa appuntamenti, dispone note, risponde a due telefoni e al cellulare. Sono chiamate di ogni tipo. Chiamano presidenti di federazioni sportive, un produttore televisivo, Lando Buzzanca, presidenti dei principali gruppi quotati alla Borsa Italiana. Lui scandisce alla segretaria il numero di John Elkann, «ovviamente per l’anagrafica riservata». Chiamano Diego (Della Valle?) e Luca (di Montezemolo?).
Smisurato è anche il numero degli amici di Malagò. Era amico di Giovanni Agnelli come lo è di Montezemolo, col quale è consocio nei cantieri Itama e Tornado, lo è di Francesco Totti, capitano della sua amata Roma, di Gianni Letta che l’ha sostenuto nella volata al Coni, dei fratelli Vanzina, di Giuseppe Tornatore, di Lupo Rattazzi, con cui è socio nella Gl Investimenti, di Monica Bellucci, lo è di Walter Veltroni, che lo volle nel CdA dell’Auditorium di Roma, come di Francesco Storace; lo è di Cesare Geronzi, col quale è stato consigliere in Banca di Roma e Unicredit; e di Carla Bruni, con la quale si dice ebbe un flirt. Gli chiedo chi siano gli amici veri, quelli che chiama dovesse avere un problema, e si stupisce. Tutti. Li chiama tutti. Insomma… dipende, «Peppuccio Tornatore per una cosa, Albertino di Bagno per un’altra». Ma forse è la storia del “problema”, che non gli torna, a lui, che vede sempre il bicchiere mezzo pieno. Sarà per via della mamma cubana – riflette – ma lui ha sempre affrontato la vita con il sorriso.
Le chiamate sono infarcite di “Ahò” e di “A’ Fra’”. Non puoi essere amico di tutti senza un tot di guasconaggine. Eppure, chiunque chiami, Malagò sa d’emblée che hanno un caffè alle quattro di lunedì o una colazione alle 13 di mercoledì. Sono conversazioni asciutte. Non puoi avere una vita smisurata, se non hai il dono della sintesi.

Sportivo e “Cupido seriale”. Uscite le segretarie, Giovanni Malagò si placa. Si allunga sulla poltrona, apre le braccia, intreccia le mani sulla nuca e comincia a raccontare l’epopea di una vita. La sua. Gli chiedo quando ha capito che avrebbe fatto il dirigente sportivo e lui parte da quando aveva sette anni. Detta lui i tempi. Gli capiterà pure di dettare le domande. Tipo: «Facciamo che lei adesso mi chiede chi era la mia segretaria». Ecco, mi domandavo giusto quello. «Io lavoravo per Luca di Montezemolo e la mia segretaria era Ludovica Andreoni. Si conobbero così, poi si sono sposati». E però, al “Malagò Cupido seriale” arriveremo partendo da un campetto di calcio dove si azzuffava bambino al quartiere Fleming di Roma. «Già allora non concepivo un giorno senza lo sport. Tornato da scuola, scappavo subito dopo mangiato. Dove c’era un pallone, c’ero io». Poi ci sono state tutte le scuole, fino allo Scientifico, al Collegio San Giuseppe - Istituto De Merode, «da non confondere col Villa Flaminia, che era sempre dei Padri Lasalliani, ma era una scuola mista, mentre la nostra era solo maschile». Allora, uno scorre il curriculum da playboy, i flirt di cui si favoleggia e mai ammessi con Anna Falchi, Valeria Marini, Claudia Gerini, Serena Autieri, Elenoire Casalegno, Martina Colombari, Carla Bruni, e pensa che il giovane Malagò doveva invidiarli assai quelli del Villa Flaminia. Macché.
«Io stavo bene al De Merode, che aveva la scuola di basket per eccellenza, la mitica Stella Azzurra. La mia gioia era l’ora di ginnastica, coi ragazzi della pallacanestro». Quindi, lo sci, con le settimane bianche a Cortina, in una camera in affitto sul corso, in quattro o cinque amici. «Una stanza con l’ingresso in una sartoria, entravi tra smanicati e stoffe, non le dico l’imbarazzo con le conquiste dell’epoca... Ma pazienza, ci andavamo per sciare». Di nuovo, prima lo sport poi le donne. La sua leggenda personale non coincide con la sua leggenda pubblica.
A livello agonistico o amatoriale, si è appassionato a tutto, dal tennis alla pesca con la canna, ma il calcetto è stato la costante. Ha vinto tre campionati italiani e, con la Nazionale, ha giocato ai Mondiali di Brasile 1986. Il sogno del calcio vero, della Serie A, c’era. «Quando cominciai l’università, ero combattuto, ma il calcio a cinque mi consentì di continuare a studiare». Non c’è spazio per i rimpianti, oggi.

Consulente di grandi banche. Se non ci fosse stata la laurea in Economia e Commercio con lode, per dire, oggi non sarebbe advisor per l’Italia del colosso bancario Hsbc. Ruolo al quale tiene assai. Lo ricorda quando gli cito gli articoli che descrivono la sua nomina al Coni come la rivincita di una vita da Peter Pan, da Giovannino, da Megalò… In sintesi, una vita da simpatico cazzaro. Allora si rabbuia e precisa: «Chi lo scrive non mi conosce. Se c’è una cosa che mi è riconosciuta, è la credibilità. Se sei advisor di Hsbc, vuol dire che ti hanno vivisezionato. E, se non sei permeato di credibilità, non ti rieleggono per la quinta volta all’unanimità presidente dell’Aniene, perché lì nessuno ti regala niente. C’è uno spaccato unico: dall’industriale alla persona che vive di sport, giovani e meno giovani, ricchi e meno ricchi».
Dunque, avesse scelto il calcio, non ci sarebbero state le mille cariche da consigliere di amministrazione, come quella in Air One, tra il 2002 e il 2008, e quella attuale in Maire Tecnimont, leader mondiale in impianti petrolchimici, di cui è socio. Non ci sarebbero state le offerte in politica «tutte declinate» e «da più fronti», non solo dall’amico Montezemolo «che ha fatto bene a non candidarsi, per lui, ma non per il Paese o per la coalizione».
Racconta Malagò: «Ho studiato, ma per quasi dieci anni ho trascorso sabati e domeniche giocando. Ho avuto soddisfazioni che mi hanno marchiato la vita. Giocavamo sulla terra rossa con le Superga, ho disputato finali davanti a 12mila tifosi. Certi compagni di squadra sono rimasti amici carissimi».
L’emozione più forte fu al suo primo campionato italiano: «A dieci secondi dalla fine, perdevamo con un gol di scarto. Avevamo in squadra il portiere Luca Bergamini, che giocava coi piedi come se giocasse davanti. Fece gol all’ultimo secondo. Sa perché lo dico? Perché, per andare verso la fortuna, devi cercare di prenderla».

Un talento nel creare incontri. Lui ha capito che la sua fortuna stava nella carriera da dirigente sportivo un giorno del 1996. «Mi chiama Luca di Montezemolo. Me l’ero ritrovato presidente della Ferrari, una botta di fortuna, dato che la mia famiglia rappresentava la Ferrari con la concessionaria Samocar. Mi chiama e mi dice: “Ti vorrei presidente del comitato organizzatore dei 50 anni del marchio”. In un anno, misi su un evento enorme. A Roma arrivarono mille Ferrari. Le portammo in corteo, con 500mila persone assiepate lungo il vecchio circuito di Caracalla. Facemmo correre Schumacher al Circo Massimo. La mia carriera da dirigente sportivo nasce lì. E ora, non sono io a dirlo, è lei a fare la domanda: chi era la mia segretaria?». Ecco. Ludovica Andreoni, che nel 2000 sposò Montezemolo. «Era una mia carissima amica, la presi perché non si scomponeva neanche davanti alle richieste più assurde. All’inizio, lei e Luca, si davano del lei». Poi, tempo dopo, Luca lo chiama e gli fa: «Sai, Giovanni, volevo dirti che sono molto felice». Malagò sarebbe un gran combinatore di matrimoni, ma la definizione non gli piace. «Il discorso è diverso. A me viene bene avere rapporti con le persone più eterogenee. Allora, capita che presenti qualcuno e in quella dinamica di polo positivo e negativo succede anche che si innamorino». È capitato anche a Corrado Passera, ultimo ministro dello Sviluppo Economico, e Giovanna Salza, sua seconda moglie. È successo a Rosario Fiorello e Susanna Biondo. In questo caso, Malagò ammette di averci messo del suo: «Rosario si era trasferito a Roma e ci vedevamo spesso a casa mia. Io ero molto amico di Susanna. Per certi ragionamenti che mi ero fatto sul polo negativo e positivo, quei due erano perfetti, insieme. Ci ho visto giusto: il successo di Fiorello nasce dall’equilibrio e dalla forza che gli dà lei».
Malagò ha imparato il trasversalismo da Gianni Agnelli. «L’Avvocato è stata la persona più curiosa che abbia mai conosciuto. Se uno lo interessava, voleva conoscerlo e sapere tutto. Infatti, la prima volta mi chiamò perché ero molto amico di suo nipote Lupo Rattazzi. Telefona e mi dice: “Piccolo Malagò, ci incontriamo?”. Avrò avuto vent’anni». E no, non era intimidito, il “piccolo Malagò”. Agnelli lo ha poi chiamato tutte le mattine. Chiedeva di calciatori, donne, politici, e sugli amici voleva aneddoti buoni per prenderli in giro. Chiedeva di tavoli di poker dove giocavano suo cognato Carlo Caracciolo e il suo amico Jas Gawronski: lo divertiva che Jas si chiudesse a riccio se perdeva.
A carte, Malagò confessa di aver vinto fortune: «Quando Polissena di Bagno, che poi diventò la mia prima moglie, studiava in America, mi pagavo i viaggi giocando a carte. Una volta, in volo, trovai un avvocato che conoscevo. Giocammo 11 ore. Mi pagai quel viaggio e quello successivo».
Dal 1997, da quando è presidente del Circolo Aniene, con le carte ha smesso. «Me lo sono imposto come regola, non mi va di far perdere soldi ai soci».

Il gioco e le regole. Le regole. La sua fissa. «Il rispetto delle regole l’ho imparato dai Padri Lasalliani. Il passaggio, prima o dopo, è il senso del dovere. Sono uno che, nella vita, si è sempre alzato tra le sette e le otto». Il resto gliel’ha insegnato il gioco di squadra e gliel’ha insegnato l’Avvocato: «Mi ha lasciato la capacità di sdrammatizzare, di incoraggiare le persone e di cercare nuove avventure. Anche se pensi di avere tutto, ti manca sempre di assaggiare le triglie in quel certo ristorantino della Provenza». Si narra che fu Agnelli a battezzarlo “il Rubirosa dei Parioli”, in onore al celebre playboy. «Cazzate. Mi ha chiamato sempre “piccolo Malagò”. Ogni tanto, “piccolo piccolo”». Si narra che fu Suni Agnelli a battezzarlo “Megalò”, per la megalomania. «Falso».

Amori e circoli sportivi. Nella leggenda, che non è la sua personale ma quella pubblica, c’è anche la storiella del tavolo fisso a 18 anni al Number One. «Falso pure questo, ci sarò stato due volte».
Le leggende pubbliche Malagò le smentisce. Compresa quella di lui che arriva 18enne davanti a una discoteca e lancia le chiavi della Bmw a un tizio che crede un parcheggiatore, ma è un ladro. Malagò serra le braccia, rannicchia le gambe. «Questa non è falsa, è superfalsa». Addirittura. «Vabbè, c’è un fondamento di verità. I parcheggiatori prendevano le macchine, le chiudevano e tenevano le chiavi. Quella sera, nascosero le chiavi sui sedili e ne furono rubate 15, non solo la mia. Però Carlo ed Enrico Vanzina l’hanno raccontata a tutti a modo loro».
Era bella, la Roma dei suoi vent’anni. «C’era più spensieratezza. Però c’erano altri problemi. Io mi sono salvato da un sequestro di persona. Rapirono mio zio Tommaso, ma quando i responsabili furono arrestati ammisero che avevano provato a prendere me e non ci erano riusciti perché ero irregolare negli orari».
Ci sarebbe poi l’irresistibile storiella sulla luna di miele, quando portò Polissena in un Paese scandinavo, magnificando il romanticismo dei luoghi, ma poi venne fuori che c’era andato per vedere una partita della Roma. Ora Malagò riallarga le braccia e si sbraca di nuovo sulla poltrona. «Eh no… Scriva che rispondo: “Non è vero, feci di peggio”». Scrivo. «Dopo la cerimonia, andammo a letto alle cinque del mattino al Grand Hotel di Rimini e, alle sette e mezzo, tornammo in auto a Roma, per vedere Roma-Avellino». Doveva essere molto innamorata, sua moglie. «Presumo di sì». E ride.
Mai stato timido con le donne? «Mai. Non sono timido, però ho senso del pudore. Se qualcuno al ristorante tratta male un cameriere, mi vergogno, chiedo scusa e me ne vado. Detesto chi è sgarbato con le persone più umili».
Fidanzate povere, però, non ne ha avute. Almeno fra le tre che considera “vere”: la nobildonna Polissena, l’attrice Lucrezia Lante della Rovere dalla quale ha avuto Ludovica e Vittoria, 25 anni fa, e l’ultima in carica da cinque anni, Daniela Marzanati, che sta aprendo un sito (garage142.com) di abiti vintage, «una che non cerca di forzare, di entrarti dentro. Sarebbe una dinamica che oggi non potrei accettare». Inutile snocciolare i nomi di altre bellissime. «Non ha senso nominarle, ma molte sono state importanti». E Carla Bruni? «È un’amica, ma a qualsiasi domanda su di lei non rispondo». Monica Bellucci? «È una persona di famiglia».
Malagò, lei si sente invidiabile? «L’invidia non è nel mio vocabolario. Quando gli amici mi indicano i rosiconi, a me viene da ridere». Non gli è venuto da ridere, invece, quando ha letto su un quotidiano che al Coni l’ha portato «un grande inciucio che poteva nascere solo in quel Canottieri Aniene, melting pot perfetto di alti burocrati e palazzinari, professionisti e commercianti, imprenditori e star o pseudo tali». «Non dico che quel passaggio mi ha ferito, ma è quanto di più ingiusto esista verso i circoli». Già, i circoli… Centri di potere, bersagli di ironie. In un film, Simpatici e Antipatici, i suoi amici Vanzina misero un Gianfranco Funari in un ruolo ispirato a Cesare Previti e a una celebre accusa dei tempi di Mani Pulite. Previti dava una mazzetta a Renato Squillante dopo il calcetto, ma quello si scordava la busta su un tavolo. L’episodio, raccontato dalla teste Stefania Ariosto, sarebbe avvenuto al Canottieri Lazio. Malagò ha di nuovo le braccia serrate: «Se prendi qualunque quartiere o condominio, c’è sempre uno passato alla cronaca per qualcosa di male, ma è sbagliato evidenziarlo a dispetto del 99,9 per cento degli onesti».
Racconta che quando a 38 anni divenne presidente dell’Aniene, trovò già «un posto molto serio, che oggi è il circolo più importante, un’eccellenza nello sport nel sociale». Poi si mette la mano sul cuore: «L’Aniene per me è stata una palestra di vita in tutti i sensi». In quali, per esempio? «Dovrei parlarle per giorni. Lì c’è tutto: la grandiosità e la ridicolaggine, il tema più scottante e il cazzeggio, la gestione economico finanziaria e i rapporti col personale. C’è la vita». E c’è più cazzeggio o più business? «Solo cazzeggio, le dò la mia parola d’onore. Può capitare che uno ci faccia una colazione di lavoro, ma che c’entra?».
Umberto Croppi, ex assessore alla Cultura di Roma, disse una volta: «Nei circoli si sentono tutti padreterni». Malagò non ci sta. «La stragrande maggioranza va lì per fare sport. I circoli sono enti privati no profit, si autofinanziano. L’Aniene dà lavoro a 250 persone. Sono nostri 19 atleti delle ultime olimpiadi, la canoista Josefa Idem, la nuotatrice Federica Pellegrini…». La Pellegrini ora andrà in Francia per seguire il suo allenatore Philippe Lucas. «Federica ha sempre privilegiato il rapporto con l’allenatore, perché, da cavallo di razza, per vincere, ha bisogno di stare bene, ma sarà sempre dell’Aniene». Malagò le è stato vicino quando a Shanghai scoppiò lo scandalo del triangolo con Luca Marin e Filippo Magnini. Da uomo di mondo, non scende in dettagli: «I ragazzi sanno che su questi argomenti trovano in me un porto sicuro». Ci mancherebbe.

Le Olimpiadi del 2024. Ora sogna le Olimpiadi 2024 a Roma. «Rinunciare alla candidatura del 2020 è stato doloroso, ma con la crisi economica era inevitabile. Se a settembre non ci fosse un’aggiudicazione europea, l’Italia e Roma hanno il dovere di riprovarci per il 2024, non possiamo rinunciare a sperare e sognare». A proposito di sogni, da presidente del Coni vorrebbe tre cose subito: «La legge su stadi e impianti, più sport nelle scuole e la parola “sport” nella Costituzione».
Malagò è stato eletto con 40 voti contro i 35 del favorito Pagnozzi. Ed è scattata la caccia ai “traditori”. «Nessun traditore», si difende lui, «ho costruito consenso, confrontandomi, incontrando vari elettori. In sette mesi, ho fatto l’Italia 150 volte su e giù. Tra gli elettori ci sono i rappresentanti di comitati regionali, provinciali, degli enti di promozione. Quando mi sono candidato, nessuno sapeva chi fossero: se avessi aspettato i nomi, ero fregato. Per cui, ho costruito le loro candidature per farli eleggere. In qualche caso, mi è andata bene».
Gli è andata bene, perché «la fortuna, per prenderla, devi cercarla». Però lui è anche nato ottimista. E allora la fenomenologia di Malagò sta tutta in un lapsus: quando, stirandosi al massimo sulla poltrona, dice: «La vita è fatta di momenti belli e momenti belli». I “meno belli” non sono contemplati nel suo vocabolario e nella sua personale epopea.
(Per la cronaca, alle 21 e 20 ha ancora gente fuori dalla porta. Stanotte, come sempre escluso il sabato, prenderà dei sonniferi: «Arrivo a letto ancora adrenalinico. Allora, ingoio una pasticca, dormo di sasso e non sogno mai»).
Candida Morvillo