Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 15 Venerdì calendario

I DURI NON BACIANO MAI ECCO LA MIA VITA CON PAP


Basta il titolo, per capire dove Ottavia Monicelli vuole arrivare: Guai ai baci - Così grande, così lontano: ritratto di mio padre. In copertina lui, quel padre famoso in mezzo mondo, autore di capolavori assoluti del cinema italiano e mondiale, impossibile scegliere un solo titolo perché si farebbe torto agli altri. Morto suicida a 95 anni dopo aver capito che un cancro in fase terminale gli avrebbe reso insopportabile l’addio alla vita. Sua figlia Ottavia, la mediana delle tre, quarant’anni e uno sguardo diretto, ha deciso di raccontare il suo complicatissimo vincolo tra figlia e padre in un lungo racconto. Il suo libro consegna il ritratto scabro di un uomo asciuttissimo nei sentimenti e nei gesti affettivi. Un solo abbraccio con lei in 180 pagine, ricordato come un episodio indimenticabile…
«Già. Diciamo un po’ poco. Ma è la verità».
Quindi Mario Monicelli era scarno, da questo punto di vista. Eppure i suoi film non lo sono affatto.
«Per niente. Nella sua vita privata era privo di qualsiasi sentimentalismo. Invece i suoi film grondano emozioni fortissime. Senza risparmio, direi».
Diciamo che tra il Monicelli padre e il Monicelli cineasta…
«…ecco, c’era un abisso. Con me nemmeno una carezza. Invece nei film c’erano amore, passioni, risate. E anche con i suoi collaboratori era puntualmente una festa. Le riunioni di sceneggiatura in casa ci riportavano chiacchierate, allegria, discussioni rumorose, vino bevuto insieme. Insomma, c’era proprio uno sdoppiamento tra il suo modo di essere padre, almeno con me, e di essere uomo di cinema».
Si è data una spiegazione?
«Mio padre era poco affettuoso di natura. Veniva da una famiglia di 5 fratelli. Poco spazio per le smancerie e i suoi genitori non erano certo amorevoli, aperti e disponibili come lo siamo noi oggi con i nostri figli».
Ma quando vi vedevate cosa succedeva?
«Gli interessava di più sapere se avevamo viaggiato, dov’eravamo state noi figlie. Davvero, guai ai baci, non è un’invenzione».
Lei racconta che quando confidava un’esperienza di vita a suo padre, e magari si aspettava un giudizio o un consiglio, si sentiva rispondere puntualmente: «E che ti aspettavi»? Perché, secondo lei?
«Lui aveva una regola. I genitori non devono intromettersi nella vita dei figli, devono sbagliare da soli e da soli devono comprendere i loro errori altrimenti non si staccheranno mai dalle figure genitoriali».
Da adulta, ha mai provato a confidarsi?
«Anni fa stavo passando un brutto periodo con mio marito Peter. Gli telefonai e gli dissi: “Papà, con Peter è finita, mi sto separando…”. Lui disse: “Va bene”. E mise giù. Poco dopo mi telefonò mia madre urlando: “Ma sei pazza a dire certe cose a tuo padre, ormai ha quasi novant’anni e non vuole sapere niente perché non vuole avere angosce”. Capito? Anche mia madre, dopo decenni di separazione, lo difendeva».
Seguendo il libro, si capisce immediatamente che per lei è stata dura avere un padre così…
«Direi durissima. Quando i miei si separarono ero piccolissima, avevo appena tre anni. Anche se ho avuto una splendida madre continuamente presente, mi sentivo un po’ sola, mia sorella Martina è più grande di me. Ho sempre avuto un temperamento malinconico. Ho combattuto con la depressione per anni. Ora sono in una fase di risalita e sto abbastanza bene. Ma dalla depressione non si guarisce mai veramente».
Lei che tipo di madre è?
«Molto attenta, presente negli studi e nell’organizzazione della vita quotidiana. Ho volutamente scelto questa strada perché la famiglia mi è enormemente mancata. Io ho dimestichezza con i sentimenti, ci sono riuscita. Ci sono voluti anni e anni di analisi molto profonda. Ma eccoci qui, ancora tutti insieme, Peter e io con i nostri figli Vasco e Fiore. Anche se non è tutto sempre facile».
Che tipo di padre è suo marito Peter?
«Un ottimo padre. Lui lavora molto, io sto sempre con i figli. Ma quando c’è, c’è davvero. Non è un caso, credo…».
Lei, Ottavia, abbraccia i suoi figli?
«Ogni tanto».
Ogni tanto?
«Sì, ogni tanto. Non abbondiamo in effusioni inutili. Be’, qualcosa deve pur restare, dopo un’esperienza come la mia».
Invece com’è il rapporto con sua madre?
«Sempre stato strettissimo, molto simbiotico. Lei mi ha costantemente aiutato nella vita, mi ha aiutato a superare il mio momento di buio, mi ha dato forza, ha appoggiato le mie scelte e mi ha aiutato a evitare strade sbagliate e dannose. Il suo grande merito è aver mantenuto un eccellente rapporto con papà dopo la separazione».
Provi a descriverlo.
«Si erano lasciati sulla carta. Ma mai veramente. Sono rimasti uniti, quando li vedevi insieme erano affiatatissimi, si telefonavano continuamente. L’ultimo giorno di vita di papà, la mamma era stata da lui fino a pochi minuti prima che decidesse di aprire quella finestra in ospedale e di farla finita».
Invece, suo padre vi ha fatto sentire la separazione?
«Sì, molto. Io ho conosciuto la sua nuova compagna e la mia piccola sorella dopo anni e anni. Molte famiglie si spezzano e poi si ritrovano in una nuova modalità. Succede a chi ha superato ogni ambiguità affettiva. Ogni invidia. Ogni paura. Lui non ha voluto. Non c’è riuscito».
Secondo lei perché?
«Credo avesse paura di perdere la sua libertà. Temeva che una eventuale, possibile alleanza tra le sue donne, cioè tra mia madre e la sua nuova compagna e tra noi tre sue figlie, gliela avrebbe sottratta».
Lei racconta nel libro di essersi sentita molto isolata anche per lo stretto rapporto tra sua sorella Martina e suo padre.
«Martina è segretaria di edizione, il loro era un legame collegato anche al lavoro. Ma non vorrei parlare di mia sorella. Parlo di me. C’era tra noi anche un immenso gap generazionale. Quando io ho compiuto diciott’anni, lui ne aveva intorno agli ottanta. Avrebbe potuto essere mio nonno, non mio padre. Questa distanza non è mai stata colmata davvero».
A cosa serve un padre?
«E chi lo sa? Lo chieda a chi ne ha avuto davvero uno. Io ho vissuto nella sua sostanziale assenza: una grande e profonda mancanza. C’era un uomo difficile e scostante che mi dava il suo affetto in un modo bislacco e furtivo. Quell’uomo era mio padre».
Lei racconta che, qualche volta, sentiva il bisogno di parlargli e andava a suonare nella sua casa di anziano scapolo. E lui la lasciava fuori perché era occupato…
«La pura verità. Nulla di esagerato. Ecco, quella storia basta da sola a capire tutto».
Se tornasse indietro, c’è un gesto che farebbe verso suo padre per sbloccare un meccanismo che paralizzava evidentemente i vostri sentimenti?
«Che domandona. Forse, proprio per carattere, non lo farei, quel gesto. Resterebbe tutto così com’è stato semplicemente perché non era nelle cose fare altro».
Quindi, significa che qualcosa suo padre Mario Monicelli le ha pur insegnato…
«Sicuramente a essere poco rompipalle. Ad affrontare i miei problemi da sola. Alla fine ho condotto una vita di libertà totale, mi sono scontrata con molte situazioni difficili e risolverle non è stato facile. Ma alla fine eccomi qui. Ho fatto tutto da sola. Lui mi ha insegnato questo. E poi mi ha spiegato anche che il cinema non può che essere un fatto corale, un racconto di più persone. Io ho provato a scrivere per il cinema e ho capito che da soli si narra una sola parte della realtà».
Nei suoi film c’è un continuo omaggio alle donne. E quando sua madre aspettava lei, Ottavia, urlava che non avrebbe mai voluto un figlio maschio. Perché?
«Semplicemente perché per tutta la vita è stato affascinato dal mondo femminile. Vedeva la figura maschile un po’ inutile, un po’ sciocca».
Suo padre si è ucciso. Lo condanna? Lo biasima per quella scelta?
«No. Non lo condanno. Non lo biasimo. L’ho capito, punto e basta. Alla fine, scrivendo questo libro, ho ritrovato molte cose di lui dalle persone che lo conoscevano».
Cosa le ha lasciato?
«L’essere libera. Il vedere la vita con disincanto, controllare le mie emozioni, essere distaccata dal denaro e dalla fama. In questo, sì, è stato un ottimo padre».
Lei crede nell’Aldilà? Immagina suo padre da qualche parte?
«Io sono buddista e credo nella reincarnazione. La regola è che chi ha avuto una buona condotta in una vita nella successiva avrà un’esistenza ancora migliore. Ecco, alla fine, penso che mio padre ora sta vivendo un’altra vita, ancora più fortunata e magari più buona. Una vita meravigliosa, insomma».
Paolo Conti