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 2013  marzo 07 Giovedì calendario

QUANTO CI COSTA UNA VITA DA SPREAD. IL DEBITO DA GESTIRE. LO SVILUPPO DA INSEGUIRE. I MANAGER DA SCEGLIERE. PER IL NUOVO GOVERNO L’AGENDA E’ SUBITO IN SALITA

Già la mattina di martedì 26 febbraio il Tesoro ha buttato dalla finestra 22 milioni di euro. Per collocare 8,75 miliardi di Bot semestrali, intatti, il ministro dell’Economia ha dovuto sborsare 50 punti base (0,5 per cento) di interessi in più rispetto alla precedente asta. Le elezioni che avrebbero dovuto portare la stabilita come primo risultato hanno portino un aumento dello spread sui tassi tedeschi e, di conseguenza, un aumento della spesa pubblica (per interessi). Sono bastate poche ore dall’apertura delle urne perché il rischio si materializzasse: spaventati dalla possibile impasse post elettorale i mercati hanno venduto titoli italiani, rimettendo in tensione i tassi d’interesse. E il Tesoro ha subito pagato il conto.
Proprio quello di cui l’Italia non ha bisogno: il ritorno del debito pubblico sulle montagne russe, tra investitori che scappano, rendimenti che salgono, aste che faticano a tare il pieno. Sembrava passato tanto tempo dai giorni dell’ansia e dello spread oltre quota 500. In realtà sono passati solo pochi mesi. In cui però molto è staro fatto. Il bilancio pubblico, tanto per cominciare, è quasi in equilibrio: al netto degli effetti ciclici (il peggioramento della congiuntura fa aumentare la spesa e calare il gettito fiscale) e delle una tantum, il pareggio è stato sostanzialmente raggiunto. Ed e stato blindato con l’inserimento nella Costituzione del vincolo del bilancio in pareggio (nominale). L’avanzo primario (quello al netto della spesa per interessi) si è irrobustito. Gli investitori esteri, che erano scappati, si sono riaffacciati sul mercato dei moli pubblici italiani. Lo “scudo” aperto dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha persuaso analisti e gestori di tutto il mondo che l’Europa è pronta a intervenire per sostenere i paesi in difficoltà (se dimostrano di aver fatto il loro dovere con il risanamento dei conti pubblici). Infine la Commissione Ue ha lasciato intendere che in caso di peggioramento della congiuntura qualche scostamento dagli obietti vi sarà più tollerato di prima: una concessione che farà comodo all’Italia dove la recessione si aggrava anziché allentarsi.
Il nuovo governo sarebbe potuto partire in discesa. Grazie anche al provvidenziale accumulo di “fieno in cascina” da parte del Tesoro che tra gennaio e febbraio ha coperto il 25 per cento della raccolta necessaria per il 2013. Ma basta che lo scenario politico si complichi perché il mondo intero si ricordi che l’Italia ha bisogno, nel 2013, di collocare titoli per oltre 400 miliardi, considerando anche il rinnovo di quelli in scadenza. E se i mercati temono che uno Stato non riesca a mantenere gli impegni, scappano. Ecco dunque quale sarà il primo compito del nuovo governo, a termine, di minoranza, di grande coalizione che sia, guidato da Pier Luigi Bersani o da un altro: mantenere la rotta sui conti pubblici e pagare così il minor prezzo possibile alla prospettiva di instabilità aperta dall’esito delle elezioni. E magari portare avanti quella spending review, avviata dal governo Monti, per racimolare risorse da destinare a qualche riduzione della pressione fiscale.
All’indomani del voto è difficile ipotizzare la formazione di un governo in grado di avviare grandi riforme strutturali. O di far sentire la propria voce in Europa per imporre una strategia più aggressiva sul fronte della crescita e del lavoro, come ha tatto balenare Bersani. Ma qualsiasi soluzione prendesse forma, per quanto provvisoria, il nuovo governo dovrà gestire, per lo meno, le emergenze più urgenti dell’economia. Che non riguardano solo il debito. La questione più delicata, in questo momento, non e il debito ma il lavoro», ha detto a L’Espresso un’autorevole fonte del governo in carica: «Finora la disoccupazione non è esplosa perché le imprese, i sindacati e lo Stato hanno fatto tutto il possibile per tenere in piedi posti che si sarebbero dovuti eliminare. Cassa integrazione, contratti di solidarietà, moderazione salariale: tutto è servito per contenere il tasso di disoccupazione al 12 per cento e non portare l’Italia verso il livello della Spagna, cioè al 26 per cento. Ma la recessione continua: anche il 2013 si chiuderà con un meno 1 per cento, se va bene. E il numero dei disoccupati potrebbe aumentare in misura significativa. Innescando tensioni sociali assai più gravi di quelle che abbiamo vissuto finora».
La competitività dell’Italia sta peggiorando da almeno dieci anni, come ha più volte ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, a causa del declino della produttività che si riflette in un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto: abbiamo accumulato un “distacco” del 30 per cento dalla Germania che in altri tempi sarebbe stato compensato con una svalutazione della lira. Oggi bisognerebbe ridurre i salari reali di altrettanto. Un’ipotesi socialmente ed economicamente impraticabile. Intanto il made in ltaly sta perdendo quota sulle esportazioni europee. Per rilanciare la produttività bisognerebbe convincere le imprese che è arrivato il momento di riprendere a investire. Da quando è stato introdotto l’euro, gli imprenditori hanno infatti tirato i remi in barca. Ma per sperare in qualche risultato il governo dovrebbe mettere sul piatto qualche riforma strutturale importante. E in questa fase politica non sarebbe facile.
La crescita, rimedio di tutti i mali, rimane la grande assente. L’iniezione di fiducia che sarebbe dovuta arrivare con le elezioni e con l’avvento di un governo con un mandato popolare pieno e con una maggioranza solida è sfumata. Al suo posto ci sarà, se tutto va bene, un governo “precario” destinato a durare poco e che potrà fare ben poco per la crescita. Anche se alcune decisioni dovrà prenderle per forza. Per esempio, dovrà scegliere se rinnovare o confermare i vertici di importanti società pubbliche che scadono con l’assemblea di bilancio di aprile-maggio: Finmeccanica, Ferrovie, Cassa depositi e prestiti. Tutti snodi vitali dell’economia italiana, perché in grado di dare un contributo a qualsiasi piano di sviluppo. Nel caso della Finmeccanica, in particolare, c’è da decidere il turno di due settori come l’energia e il trasporto ferroviario che, nei progetti dell’ex capoazienda Giuseppe Orsi, dovevano essere ceduti, probabilmente all’estero. La Cdp è un’osservata speciale: ha tanti soldi, quelli raccolti dalle Poste, che fanno gola ma non possono essere impiegati, più di tanto, in progetti rischiosi. Bersani è convinto che le imprese pubblche possano avere un ruolo importante nella ripresa dell’economia. E se toccasse a un suo governo gestire il ricambio nei grandi gruppi la scelta cadrebbe su manager che hanno in testa più l’ampliamento del business che l’aumento dei dividendi. Ci sono nodi da sciogliere anche nel settore privato. A cominciare dalla rete per la banda larga che Telecom Italia da sola non riuscirà mai a tare. C’è il Montepaschi che il governo potrebbe essere costretto a nazionalizzare se non sarà in grado di pagare le cedole sui Monti bond. E ci sono le banche che hanno chiuso i rubinetti del credito. Un altro bel freno allo sviluppo.