Francesco Merlo, la Repubblica 15/3/2013, 15 marzo 2013
SULLE ORME DI FRANCESCO
ASSISI Sono stato da san Francesco che, bizzarro com’è, mi ha subito messo il diavolo addosso. E difatti la cripta più visitata d’Italia, con quella tomba in pietra e quel morto così vivificante, mi è subito sembrata un tempio protestante. E l’immenso refettorio di cento metri per dieci, con i duecento posti già apparecchiati, mi ha richiamato alla mente il college di Harry Potter, con tutto quel legno aris tocratico e quel silenzio, quei quadri dei magnifici santi francescani, sant’Antonio di Padova certo, ma non padre Pio che qui infatti non c’è forse perché, sia pure a sua insaputa, è sepolto in una tomba da faraone che fa inorridire l’ordine dei cappuccini.
Sontuosi ritratti appesi alle pareti arredano le mille sale del convento e sono immagini dipinte che davvero sembrano lasciare lo spazio e il tempo dei loro quadri ed entrare nella vita con un fruscio: «Ad Assisi si arriva da turisti e si esce da pellegrini».
Sembra che davvero si agiti sopra la mia testa l’indice sentenzioso di quell’Alessandro VII di pietra, mentre pare, al contrario, che Innocenzo III chini ancora di più il capo. Si diffonde, nel refettorio nei chiostri e nel porticato- terrazza che si apre come una grande muraglia sulla vallata di Assisi, sui suoi prati e le sue colline, una voglia di stare insieme e di fare comunità che farebbe impazzire di invidia Beppe Grillo, così smarrito in mezzo alla grande Rete della
sua solitudine.
San Francesco, che molti oggi identificano come una specie di John Lennon o come un hippy giullare, un poeta che cantava agli uccelli, era in realtà un soldato di Cristo, un uomo di armi, e la sua chiesa, presagio e profezia per questo papa argentino, era una milizia fondata sulla disciplina, sul superare tutti i gradi di obbedienza. E infatti qui, nella cripta, ci sono, sepolti con lui, anche i suoi compagni, i frati Leone, Masseo, Bernardo, Silvestro, Guglielmo, Eletto, Valentino, Rufino. Sono modestissime tombe spoglie, protette da inferriate senza ghirigori. Due mesi fa un’équipe di medici ha stabilito che il più vecchio ne
aveva 55 e il più giovane 30 e che i loro piedi furono sottoposti a stress biomeccanico. Erano cioè camminatori, viandanti trasgressivi e maltrattati come Dennis Hopper e Peter Fonda sulle moto di Easy Rider o, più moderni ancora, furono i precursori del trekking e del neocamminismo che è la forma muscolare e atletica del pensiero peripatetico che ha animato la civiltà occidentale e che sempre ha comportato e anche oggi comporta rischi fisici, oltre agli inevitabili azzardi intellettuali.
Di sicuro la sepoltura collettiva è un esempio di drappello, di guardia montante. È infatti esistita anche un’appropriazione fascista del santo poverello che il duce definiva «il più italiano dei santi e il più santo degli italiani» (l’eroe francescano del ventennio fu il cappellano militare Reginaldo Giuliani). Ma san Francesco è stato via via, e sempre con ottime ragioni, il santo socialista, il santo comunista, il santo proletario, il santo futurista, il santo pacifista, il santo animalista, e persino il santo femminista e non solo perché c’è anche una donna seppellita qui nella sua disadorna ma calda cripta: c’è scritto «Jacopa dei Settesoli, nobildonna romana, 1239», ed è un presagio, la traccia di un sentiero di disvelamento non della comunità dei perfetti, fatta da uomini superiori, ma della comunità dei fragili, dei poveri, dei pazienti. Ora mi mostrano la cappella di San Martino interamente affrescata da Simone Martini «dove si rifugia Patty Smith», poi mi indicano l’inginocchiatoio dove pregò il suo Dio cristiano caldeo Tareq Aziz, e ancora l’affresco di Giotto «che fece esclamare a Bruce Springsteen: “questa basilica ha i colori della
resurrezione”». «E qui Lula si inginocchiò e pianse ricordando i francescani che lo ospitarono e lo nascosero quando era braccato dalla polizia».
A San Francesco sono venuto a chiedere lumi sul mistero del papa gesuita e francescano, il nuovo ossimoro vaticano, il saio-madre e il clercinepadre, la sensibilità calda di Fra Cristoforo e l’intelligenza fredda del cardinale Martini. E se c’è un nesso con la predizione di Nostradamus e di Malachia, profeta e negromante,
che annunziava il papa nero, il papa appunto gesuita. Dentro una nube di Giotto mi mostrano, per esempio, un demone che per otto secoli nessuno aveva notato. Lo ha scoperto due anni fa la storica Chiara Frugoni: il naso adunco, gli occhi scavati, le due corna scure, tenta di impedire la salita delle anime in paradiso.
Il padre custode del convento, un bolognese di 47 anni, Mauro Gambetti, alto magro e sorridente, pensa che non appena, sul balcone di San Pietro,
è stato pronunziato, il nome Francesco ha subito cambiato l’immagine della Chiesa: «In un momento, grazie a tre sillabe, la percezione della Chiesa è stata rovesciata, adesso la Chiesa è vita».
La stessa vita dei rossi e dei blu di Giotto che qui attorno trasmettono emozioni e accorciano le distanze tra Dio e il suo popolo, tra Dio e il credente. E c’è la vita delle scene di Cimabue, l’ultima cena con il gattino che dorme e i piatti
sporchi in un angolo della cucina, e ancora il bianco e il rosa della pietra di Assisi. È il realismo cristiano, ma è anche il famoso stile francescano che ha spinto il nuovo Papa, già nella prima messa con i cardinali, a togliere dall’altare i candelabri e gli sfarzosi paramenti e a rifiutare le mitrie barocche di Benedetto per indossare una semplice casula. Mi dice ancora il padre custode: «Benedetto era francescano di cuore, questo è francescano di vita».
Sono i segni della gioia di un radicalismo cristiano che davvero rimanda al protestantesimo e al rapporto con Dio senza mediazioni. E c’è infatti quella
magnifica frase del poverello di Assisi che pare fatta apposta per il nuovo Papa argentino: «Dio, dammi la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di accettare quelle che non posso cambiare, e di sapere distinguere le une dalle altre ».
Giro la basilica e il convento con la guida di padre Fortunato, un responsabile della comunicazione da fare invidia al Quirinale, salernitano di Scala, 48 anni, coltissimo pupillo di monsignor Ravasi. Mi corrono davanti otto suore brigidine con le sciarpe bianche mosse dal vento, scambio due battute sul cielo di New Delhi e sui due marò italiani con Shaty, un frate indiano che sta qui da due anni, poi interrompo le preghiere di un nerissimo e bellissimo giovane senegalese che fa il cameriere ad Assisi e si chiama Jean Reymond, infine mi intruppo in file di ragazzini e ragazzine di tutto il mondo con le scarpe di ginnastica ai piedi e la felpa col cappuccio, e capisco perché ci si può perdere in questa religione. Nel chiostro, affacciato alla più bella cisterna che avevo mai visto, mi viene in mente che i musical su Francesco sono sempre primi al botteghino, cosi come le fiction su padre Pio in tv. Conto un settantina di frati, almeno venti nazionalità, «qui vengono tra i cinque e i sei milioni di pellegrini ogni anno». Mi imbatto in un cinese, poi parlo con un polacco, c’è anche il
frate argentino, che è il più intervistato di tutti, e racconta sempre la stessa storia, ma con un crescendo di dettagli mistici:
«Una volta, a Pilar, l’ho accolto e l’ho accompagnato…». San Francesco è, come il dio Hermes, presente in ogni an-
golo della terra, l’intercessore per antonomasia, il nome che ha scavalcato anche la chiesa per diventare patrimonio di
popolo e di culto spontaneo. Dunque mi perdo in lui come mi perdo nelle tante stanze che sembrano segrete, nei fondi e nei sottofondi della pietra, sotto bassorilievi che mettono soggezione. In alto Giotto ha disegnato le scene della vita di Cristo e in basso quelle della vita di San Francesco e bisognerebbe mettersi in volo su una scopa e infilarsi nei dipinti come fossero nuvole per impadronirsi di tutti i dettagli. È un epos delle meraviglie che si può ammirare come un monumento letterario, come l’Odissea o come Moby Dick. Gli angeli per esempio che stanno attorno al Cristo del Lorenzetti hanno ciascuno un volto definito nei dettagli, sembrano gli elfi e i folletti d’aria dei racconti gotici e qualcuno raccoglie, come per cibarsene, il sangue di un Cristo che non rimanda alla sofferenza di Giotto ma, vagamente, al Cristo dolente di Albrecht Dürer che, il pugno poggiato sotto il mento, non è spaventato dalle ferite che gli hanno inferto sul corpo ma dal mondo che vede, dalle creature di Dio e perché no, dalla gerarchia della Chiesa, dalle lotte di potere che avvelenano la curia, la pedofilia non come reato ma come patologia dell’abominio, come disperazione del prete che, o pratica il sesso in modo abnorme o non lo pratica affatto, che è poi un’altra abnormità. E difatti ogni volta che scoppia uno scandalo sessuale i vescovi e i cardinali scoprono un poco anche se stessi.
Non so cosa direbbe san Francesco della sessualità dei preti ma certo anche in questo il santo di Assisi era speciale, per quel formidabile rapporto con santa Chiara, quasi fossero un coppia di fatto, tanto che nel centro di Assisi visito la basilica
della santa con la cripta in marmo giallo, molto più leziosa di quella del santo, il viso imbalsamato, il corpo con le vesti da suora. Nella biblioteca, oltre centomila volumi più assopiti dei morti della cripta, poggio la mano su una cassaforte: c’è il manoscritto del Cantico delle Creature ed è sufficiente sospirare e intenerirsi per avvampare nella fiamma dell’amore, per illudersi di averlo letto e di avere capito che i Francescani non sono mai riusciti a esprimere un papa perché la loro è una religione spontanea, patrimonio di popolo e non di gerarchie.