Sara Bennewitz, la Repubblica 15/3/2013, 15 marzo 2013
LA GRIFFE TANTO AMATA DAI SOCI CHE CON LE CONTROLLATE ESTERE TENEVA A STECCHETTO L’ERARIO
MILANO — Bulgari in Piazza Affari è sempre stata un modello di eccellenza per i suoi azionisti, ma nel contempo ha sempre dato scarse soddisfazioni all’erario italiano. Dalla quotazione che risale a metà degli anni Novanta fino all’Opa miliardaria di Lvmh del 2011, il colosso dei gioielli è stato una delle storie di successo del capitalismo familiare. Nel panorama del lusso tricolore, l’azienda romana era famosa anche per essere “campionessa” quanto a ottimizzazione della pressione fiscale, grazie alla forte presenza in Svizzera.
In anni in cui Tod’s versava all’erario il 42-43% del suo utile lordo, Bulgari aveva un tax rate del 10-12%, degno di rivali illustri come l’elvetica Finacière Richemont, che controlla i marchi della gioielleria Cartier e Van Cleef & Arpels e quelli dell’orologeria Vacheron Constantin e Officine Panerai. Ma diversificare le lavorazioni degli orologi e di alcuni gioielli in Svizzera, dove è riconosciuto che ci sono alcune tra le migliori manifatture, era considerato motivo di orgoglio anche per un gioiello del Made in Italy. Chi poi conosce da vicino Paolo e Nicola Bulgari - e il loro nipote Francesco
Trapani, vera anima manageriale della maison - non si capacita che un’ombra possa incombere sull’onestà di una delle famiglie della Roma bene.
Allo stesso tempo, qualche professionista che in Bulgari ha lavorato diversi anni s’è spesso domandato quali fosse il ruolo operativo della filiale irlandese e di quella olandese, due lontane province dell’impero a capo della logistica e di un crogiolo di partecipazioni
che, a prima vista, avevano poco a che fare con gioielli, orologi e profumi. Alcuni ex manager del gruppo ricordano anche che in Via dei Condotti (dov’è la sede storica) e in Lungotevere Marzio (dove c’è quella amministrativa legale) la Guarda di Finanza era di casa. Ma nonostante le numerose ispezioni, in azienda non c’era mai stato motivo di preoccupassi fino all’autunno 2009, quando erano cominciati i primi nervosismi.
Già tre anni fa il fisco aveva avvisato la società di presunti accertamenti sulle filiali olandesi e irlandesi; a quel punto il chiacchiericcio era cresciuto, finché nella semestrale del 2010 Bulgari aveva segnalato la questione, provvedendo in via prudenziale a fare alcuni accantonamenti, pur restando sicura di aver agito nella piena legalità e giudicando «remota » la possibilità di incorrere in sanzioni. «Colpa dei banchieri e
dei fiscalisti che hanno mal consigliato Trapani», afferma chi conosce bene l’ex patron della Bulgari. Le capacità del manager appartenente alla quarta generazione della dinasty romana sono sempre state apprezzate sia dai rivali che dagli investitori di Bulgari. Non a caso mentre gli zii Paolo e Nicola dopo la vendita del 2011 si sono ritirati a fare altro, Trapani guida la divisione gioielli e orologi di Lvmh, il colosso che si è man-
giato Bulgari.
E mentre la griffe romana nega fermamente i fatti contestati, la casa madre guidata da Bernard Arnault fa spallucce e non manca di rilevare che si tratta di «eventi della passata gestione». Secondo fonti bene informate, e stante il fatto che le contestazioni erano già emerse prima dell’Opa francese, Lvmh sembrerebbe al riparo da eventuali e possibili ricadute. E in attesa che si faccia luce sulla vicenda, ieri nel mondo del lusso e in quello degli affari in molti si interrogavano su come fosse potuto succedere un simile pasticcio, e a chi toccherà pagare l’eventuale conto. Va segnalato che nell’ultimo bilancio disponibile della maison italiana, quello 2010, la controllata olandese aveva un capitale sociale di appena 18,3 milioni e quella irlandese di solo un milione. Due piccoli satelliti, almeno a livello finanziario, di un grande impero. Che però contribuivano in modo significativo al consolidato: nel 2010 Bulgari Ireland Ltd aveva pagato a Bulgari spa un maxi dividendo di 41 milioni, ma la società estera a fronte di 545 milioni di ricavi aveva un «costo del lavoro» ridotto a 2,9 milioni.