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 2013  marzo 15 Venerdì calendario

OMBRE ARGENTINE

Le cose hanno due facce. Almeno due. La prima è bella, affabile e piena di speranza. Loro il papa straniero l’hanno trovato. Straniero, benché non tanto. A Buenos Aires, mi pare, gli italiani li chiamano “tanos”, che è l’abbreviazione di “napolitanos”, ma ci fu un lungo tempo in cui arrivarono soprattutto dal Piemonte e dal Veneto. Il Piemonte di quelli che stanno in fondo alla campagna, e hanno visto Genova e il mare solo per salpare alla volta della fine del mondo.
Da lì all’Argentina partirono soprattutto i salesiani di don Bosco — lui no, lui prese la nave una sola volta, per Civitavecchia, ed ebbe un tal mal di mare da rinunciarci per sempre. Ci si aspetta un salesiano, dall’Argentina, e invece arriva un gesuita e prende il nome di Francesco. Gesuiti e francescani furono diversi come il chiodo e il nodo, gli uni per la guerra, per le paci gli altri. “Quasi” dalla fine del mondo, ha detto: a Ushuaia, che si vanta del titolo ed è diventata una meta da pensionati croceristi, lo slogan suonava fatale sull’insegna di una cabina telefonica. “Locutorio del fin del mundo”.
Tutti hanno notato come dal balcone il nuovo papa non ha mai detto la parola “papa”, nemmeno salutando il predecessore, “vescovo emerito”. Ha parlato a una folla internazionale come se fossero tutti romani. E si è chiamato Francesco. Mi ricordo della predica agli uccelli, corvi, direi, come nella favolosa tavola di Santa Croce in cui se ne stanno neri appollaiati ordinatamente sulle file di rami ad ascoltare quello che i romani non avevano voluto ascoltare. Altro che parlare con gli uccellini. Ora che un Francesco è arrivato nelle stanze del papa, bisognerà trovare un nome che non sia “corvo” per i delatori e gli intriganti di palazzo, senza calunniare i bravi corvi. E i bravi lupi, anche.
Un uomo di 76 anni, e senza un polmone, ce la farà? Riuscirà almeno a far ricordare l’eventualità di un mondo in cui, come sperava Cesare Zavattini, buonasera voglia dire davvero buonasera? Cari fratelli e sorelle, ha detto. Della triade libertà-eguaglianza-fraternità, è la terza a segnare il suo esordio: la più ferita. Lui ha quattro fratelli e sorelle, e oggi, per legge in Cina, perché sì da noi, si vive di figli unici. Sia fatta almeno una fratellanza-sorellanza di elezione: fratello sole sorella luna — oppure, in tedesco, sorella sole fratello luna. E i poveri. Se ho capito bene, si preoccupa proprio dei poveri questo prete, non solo dei poveri di spirito. Non occorre aspettarsi che dica cose clamorosamente nuove sulla sessualità: basterebbe che non si accanisse tanto a ridire sulla sessualità le cose clamorosamente vecchie. Intanto, è bellissimo che abbia lavato i piedi ai malati di Aids. Dovremmo farlo tutti, essere malati di Aids o lavargli i piedi.
I gesuiti non sono più quelli, dopo Carlo Maria Martini e la
Civiltà Cattolica
di padre Spadaro: formidabili, erano, una volta, ma esagerarono col nero, e fornirono il peggiore dei modelli di cinismo, cospirazione, e paranoia delle cospirazioni. La combinazione fra Ignazio e Francesco promette di dare aria ai tendaggi e alle cassette di sicurezza del Vaticano, e di tirar fuori dal luogo comune anche l’anniversario del
Principe
di Machiavelli. Gran colpo, questo conclave.
Poi c’è la faccia triste. I messaggi dall’Argentina, di quelle e quelli che hanno pianto alla notizia, non di commozione, ma di dolore e offesa. «“Non posso crederlo. Sono così angosciata che non so che fare. Ha avuto quello che voleva. Vedo Orlando nella cucina di casa, qualche anno fa, che dice: ‘Vuole esser Papa’. È la persona giusta per coprire il marcio, è esperto. Il mio telefono non smette di squillare. Fito mi ha chiamato piangendo”. Ha la firma di Graciela Yorio, sorella del sacerdote Orlando Yorio, che denunciò Bergoglio come responsabile del proprio sequestro e delle torture patite per cinque mesi nel 1976. Il Fito che l’ha chiamata costernato è Adolfo Yorio, suo fratello. Ambedue hanno dedicato anni a continuare le denunce di Orlando, teologo e sacerdote terzomondista che morì nel 2000 con l’incubo che ieri si è realizzato…».
Messaggi così, cui Horacio Verbitsky fa instancabilmente eco. Verbitsky è uomo di forti giudizi e forti pregiudizi. L’arcivescovo di Buenos Aires respinse le accuse, che non possono dirsi provate. Nel 2000 chiese perdono a nome dell’intera chiesa argentina: «Siamo stati indulgenti verso le posizioni totalitarie … Attraverso azioni e omissioni abbiamo discriminato molti dei nostri fratelli, senza impegnarci abbastanza nella difesa dei loro diritti. Supplichiamo Dio che accetti il nostro pentimento e risani le ferite del nostro popolo …». Si rimane turbati, anche rifiutando di giudicare. Si vuole credere che, se le ombre di un passato così atroce fossero troppo pesanti, il papa avrebbe allontanato da sé la chiamata. L’aveva fatto, pare, la volta scorsa: forse ha pensato che la seconda volta bisogna comunque dire: “Eccomi”, senza aspettare la terza per capire, come Samuele. Se l’orrore degli anni dei generali e dei
desaparecidos
e dei loro bambini rapiti l’avesse imprigionato sia pure nel vastissimo cono d’ombra dell’omissione, come condizionerà il futuro? «Non è questo il punto», ha tagliato corto Küng. Però è un punto cruciale, come per Pio XII e la Shoah. Tuttavia le chiese, la cattolica più generosamente e ambiguamente, non fanno del peccato un impedimento fatale alla santità, e spesso ne fanno una premessa. Chi si astenga dal giudicare — dal condannare e dall’assolvere — può chiedersi se, qualunque sia quel passato, esso chiuda la strada a un pontificato degno e anche mirabile. La risposta è: no.