Armando Torno, Corriere della Sera 15/03/2013, 15 marzo 2013
I GESUITI, TRA CULTURA E DISCIPLINA
Parliamo di gesuiti, della Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1534. Papa Francesco ha riportato l’attenzione su questo Ordine, strutturato con disciplina militare e celebre per la cultura e l’intelligenza dei suoi membri. Anche se nel linguaggio comune — retaggio del secolo dei Lumi e di quello romantico nonché dell’avversione di figure come Vincenzo Gioberti — l’aggettivo «gesuitico», in senso figurato, è definito dal Vocabolario della lingua italiana Treccani: «finto, falso, ipocrita».
Eppure i gesuiti hanno lasciato traccia indelebile nella cultura e nella Chiesa. Il tema in classe l’hanno inventato nelle loro scuole, così come gli esercizi spirituali si sono diffusi nel mondo attuale grazie al modello fissato da Sant’Ignazio. L’incontro con le altre culture fa parte della loro missione. Lo stesso Francesco Saverio, tra i fondatori della Compagnia, nel 1545 parte per Malacca, in Malaysia: lì incontra dei giapponesi che gli suggeriscono l’idea di portare il vangelo nella loro terra. Non arretra, così come farà in tante occasioni, e una tradizione vuole che sia arrivato alle Filippine. È sepolto a Goa. Matteo Ricci fu pioniere del dialogo con la cultura cinese. Morì a Pechino. E che dire di Francesco Borgia? Viceré di Catalogna, santo, resta il formidabile organizzatore delle missioni dell’Ordine in India, Brasile e ancora in Giappone. Tra l’altro, la cultura gli deve molto: contribuì in modo determinante all’istituzione del Collegio Romano, ovvero l’attuale Università Gregoriana. Non sono che esempi. Se si aggiunge il caso del cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), si incontra un intellettuale che in molti hanno criticato ma indispensabile per comprendere il suo tempo. Formidabile apologeta, difese la Chiesa Cattolica dinanzi alla Riforma ricorrendo soltanto alla razionalità e alla tradizione; di contro, in Germania e in Inghilterra si istituirono cattedre per replicare a tale metodo. Amico di Galileo, dialogò con Giordano Bruno tentando di fargli abiurare le tesi considerate eretiche.
Inoltre, quando si parla di cultura dei gesuiti è inevitabile ricordare Francisco Suárez o Juan de Mariana, due menti della cosiddetta Seconda Scolastica, vissuti tra il Cinquecento e il Seicento. Il secondo divenne celebre per le polemiche legate alla sua opera De rege et regis institutione (1599), ove sosteneva la liceità del tirannicidio: si poteva uccidere il re quando il sovrano, abusando del potere concessogli da Dio, danneggiava patria, leggi e religione, ovvero portava a perdizione il popolo. L’opera fu condannata dai superiori ma lasciò tracce indelebili, a cominciare dalla Rivoluzione francese; anzi «la Marianne», simbolo della libertà, fu omaggio tardivo al gesuita ispiratore. Per Suárez si potrebbero riempire biblioteche. Filosofo, teologo e giurista tra i più acuti, influenzò le opere di autori quali Grozio, Cartesio, Leibniz e Vico, senza contare gran parte dei pensatori politici moderni, tra cui Carl Schmitt. Sosteneva che il potere ha un’origine contrattuale (il detentore originario è il popolo) e, in caso di tirannide, è lecito — se non doveroso — il diritto di resistenza.
In Italia furono i Gesuiti sollecitati da Pio XII a creare una serie di iniziative culturali per arginare il marxismo. Basterà ricordare l’Enciclopedia filosofica (1958, raddoppiata nel 1968); idearono quattro collane di testi per rimettere in circolazione idee non materialiste. Inoltre controllarono le voci religiose della Treccani. Figure come Carlo Maria Martini, di contro, seppero dialogare con quella cultura che la generazione precedente aveva combattuto. E, allargando gli orizzonti, ecco che il gesuita tedesco Augustin Bea, cardinale e confessore di Pio XII, fu pioniere dell’ecumenismo e del dialogo ebraico-cristiano. Teilhard de Chardin, invece, mostrò al mondo contemporaneo che scienza e teologia potevano abbracciarsi. Certo, Blaise Pascal nelle Provinciali non li amava, così come Voltaire. Nella voce «Pietro» del Dizionario filosofico il patriarca degli illuministi, dopo aver elencato le malefatte dei Papi, aggiunge che la santità del loro carattere è provata dal fatto che sono riusciti a sopravvive a tanti mali. Non perde l’occasione per riferire di un teologo che notava: «Se avessero commesso ancor più delitti, sarebbero stati dunque ancor più santi». E chiude: «Ma i gesuiti gli hanno risposto». Battuta che la dice lunga. Interpreta l’idea della Compagnia che mai si arrende dinanzi alle obiezioni.
Non tutti i pontefici li amarono e Giovanni Paolo II, in seguito al malore che colpì il generale Pedro Arrupe, li commissariò. Fu una decisione senza precedenti. Tutti videro una sfiducia nella Compagnia da parte della Santa Sede e un teologo quale Karl Rahner — uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II; suo fratello Hugo era anch’egli gesuita — indirizzò al Papa una lettera nella quale dissentì in termini espliciti, accantonando quella «prova di fede» che taluni avevano individuato nell’intervento del pontefice. «Anche dopo aver pregato e meditato — scrisse — non ci è stato facile riconoscere "il dito di Dio" in questa misura amministrativa, perché la nostra fede e l’esperienza della storia ci insegnano che anche l’autorità più alta della Chiesa non è esente da errori».
Pietro Aretino fu uno dei pochissimi che riuscì a scrivere una frase, o meglio un verso, come «povero ignorante gesuita». È nei Sonetti lussuriosi (pubblicati da Salerno, presso cui è in corso l’edizione nazionale). Lo ha fatto alludendo a una sozzura erotica. Non certo per lo studio di Aristotele o della teologia.
Armando Torno