Ugo Bertone, Libero 14/3/2013, 14 marzo 2013
ZARA FA «GIRARE» LA MODA UTILI RECORD A 2,3 MILIARDI
La crisi non frena l’impero Zara. Anzi, ieri Inditex, la holding che controlla assieme a Zara, Massimo Dutti, Berksha ed altri marchi del «vestire senza spendere una fortuna», ha reso noti i conti del 2012, altro anno d’oro: 2,36 miliardi di profitti, ovvero il 22 per cento in più dell’anno prima, su un fatturato di 15,9 miliardi. Un fiume d’oro in arrivo da una rete di negozi che cresce a vista d’occhio: le insegne di Zara in giro per il mondo sono, al momento, 6.009. È necessaria la precisazione,perché il marchio cresce al ritmo di un negozio o due al giorno: 482 vetrine, nelle vie dello shopping più frequentate ed eleganti, hanno aperto i battenti l’anno scorso in 64 Paesi. Batte bandiera Zara l’emporio al numero 666 della Quinta Strada, l’operazione immobiliare più cara di New York (pagati sull’unghia 324 milioni di dollari), l’emporio parigino di Boulevard de la Madeleine così come quello londinese di Bond Street, frequentato dalla Duchessa di Cambridge.
Numeri da capogiro, festeggiati con un robusto aumento dei dividendi (2,20 euro, il 22% in più). Anzi, una bella favola di un uomo tanto ricco quanto sconosciuto, che non concede interviste e mangia in mensa con i suoi operai, da cui si fa raccontare le gesta del Deportivo La Coruña: Amancio Ortega, il padrone di Zarachefigura al terzo posto tra i più ricchi del pianeta, con un patrimonio di 35 miliardi circa ma che vive in un modesto condominio di La Coruña, non possiede un abbonamento allo stadio per vedere il “suo” Deportivo e si concede in solo lusso: un allevamento di cavalli per la gioia dell’unica figlia, Marta, 29 anni, grande amazzone che un giorno dovrà vedere in sella all’azienda orgoglio della Galizia, cuore della disgraziata Spagna di oggi ove un giovane su due non trova un posto di lavoro.
È lui l’uomo che ha montato una formidabile macchina da guerra che ha rovesciato i canoni tradizionali del settore. «Una ditta tradizionale - scrive Suzy Hansen sul New York Times - manda i disegni dei vestiti a fabbriche che stanno in India o in Cina. La merce viene poi spedita in Occidente via nave due volte l’anno. Al contrario, Zara invierà solo pochi pezzi per volta nel negozio. Saranno i direttori dei punti vendita a sollecitare nuovi invii, se c’è domanda. O a correggere il prodotto con indicazioni che arrivano in tempo reale ai progettisti che realizzeranno, tempo due settimane, nuovi disegni da spedire alle fabbriche». Insomma, rotazione continua con un obiettivo: ogni volta che la cliente entra in un negozio Zara deve trovare qualcosa di nuovo. Spesso copiato, in pochi giorni, dalla griffe che offre lo stesso abito a venti volte di più, cento metri più in là.
Sembra facile, in realtà ci vuole una grande organizzazione. Ma anche tanta fame. Come quella provata da Amancio Ortega Gaona, fondatore e padre padrone di Zara, famiglia d’origine povera (papà stradino delle ferrovie, tre fratelli ed una sorella maggiori), che nel ’48 a 12 anni subì l’umiliazione che gli cambiò la vita: il rifiuto del panettiere a fare ancora credito alla signora Josefa, madre di Amancio e di altri quattro figli. Quel giorno, Amancio promise a sé stesso che un Ortega non avrebbe mai più chiesto credito a nessuno. Di qui la decisione di lasciar la scuola per ritrovarsi, pochi mesi dopo, garzone presso una camiceria del centro di La Coruña. E fu l’inizio di una scalata, fino amettersi in proprio, con i fratelli, sotto la sigla Zara, nel ’75 all’insegna di una filosofia che poggia su pochi e chiari concetti: mettere il cliente al centro del business; produrre roba comoda ad un prezzo conveniente; controllare l’intero ciclo del prodotto, dal disegno fino alla vendita al cliente. Più il negozio, la «spugna» che assorbe ed elabora le informazioni per il lavoro dei disegnatori.