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 2013  marzo 14 Giovedì calendario

L’IRAK DIECI ANNI DOPO: UNA BEFFA

L’han pagata gli americani, ma a guadagnarci sono turchi ed iraniani. I primi incassano, i secondi decidono. Dieci anni dopo la guerra in Iraq gli ameri­cani fanno i conti con gli amari bilanci di un’avventura rivela­tasi- nonostante l’abbattimen­to di Saddam Hussein - assai avara di risultati sia per la demo­crazia, sia per chi sperava di esportarla. I conti son presto fat­ti. Per stabilizzare il Paese gli Stati Uniti c’han messo sette an­ni lasciando sul terreno più di 4400 soldati e spendendo, ad oggi, circa 812 miliardi di dolla­ri. Conteggio tutt’altro che defi­nitivo. I reduci continuano a morire e così il costo economi­co, se si aggiungono le spese di assistenza alle famiglie di cadu­ti, feriti e mutilati rischia di su­perare i 3700 miliardi. Un bilan­cio astronomico per un’impre­sa destinata, secondo le stime del 2003, a costare solo 60 mi­liardi e a garantire, oltre alla na­scita della democrazia, anche una solida influenza america­na su tutto il Medio Oriente. Con il senno di poi incassano in­vece l’Iran, uno dei peggiori ne­mici dell’America, e la Turchia ovvero l’alleato che nel marzo 2003 bloccò il passaggio dei sol­dati americani pronti ad inva­dere il nord dell’Iraq.
Il paradosso iraniano è quel­lo più deva­stan­te dal pun­to di vista poli­tico e milita­re. Togliendo di mezzo Sad­dam, il peg­gior nemico di Teheran, l’America ha garantito la nascita di quell’asse sciita che consente alla Repubblica Islamica di esercitare la propria influenza su Iraq, Siria e Libano e minac­ciare i confini settentrionali d’Israele.Lo stesso premier ira­cheno Nouri al- Maliki , un allea­to a cui Washington fornisce ar­mi e caccia F16, viene conside­rato oggi molto più vicino a Teheran che non agli Stati Uni­ti. La cartina di tornasole di que­sto paradosso è la crisi siriana. Il generale americano James Mattis, comandante di Cen­tcom, ha spiegato al Congresso che la caduta del regime di Da­masco rappresenterebbe «la più grande disfatta strategica dell’Iran degli ultimi 25 anni». Eppure uno dei principali ga­ranti della sopravvivenza di Bashar è proprio l’«alleato»Ma­liki sospettato di garantire ­d’intesa con Teheran-il passag­gio dell­e armi usate dall’eserci­to siriano per schiacciare i ribel­li appoggiati da Washington.
Neppure il fronte turco è ava­ro di paradossi. Fino a dieci an­ni fa il nord Iraq, ovvero il Kurdi­stan iracheno, era per Ankara l’anticamera dell’inferno, il ri­fugio- santuario delle formazio­ni terroriste curde considerate il principale ostacolo alla stabi­lità. Oggi quella stessa regione è diventata il nuovo Eldorado. Sfruttando la rivalità tra il gover­no di B­agdad e i capi curdi di Er­bil e Suleimaniya, la Turchia ha trasformato il nord Iraq in una sorta di possedimento extrater­ritoriale. Da lì arriva il greggio dei pozzi di Kirkuk che i curdi ben volentieri sottraggono al controllo di Bagdad. Lì vendo­no e investono le ditte turche, alimentando il giro d’affari per oltre 8,3 miliardi di euro che fa dell’Iraq il secondo mercato per le esportazioni turche dopo la Germania. Basta un giro per Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, per capire che la vera manna sono le costruzioni. Il ri­torno di centinaia di migliaia di curdi costretti all’esilio negli an­ni di Saddam e i proventi del pe­trolio garantiscono ai turchi proventi annui per due miliar­di e mezzo di euro. Grazie ad un polmone iracheno capace di as­sorbire qualsiasi genere di pro­dotti l’economia di Ankara, asfittica fino al 2003, ha cono­sciuto un vero boom. E proprio grazie a quel boom il premier turco Recep Tayyip Erdogan è oggi un protagonista del gran­de risiko del geopolitica medio­rientale ed un concorrente di Washington. Un concorrente di cui però l’America non può far a meno. Soprattutto se vuo­le continuare a contrapporsi al­l’Iran e a mantenere un mini­mo d’influenza su Bagdad.