Gherardo Milanesi, Avvenire 15/3/2013, 15 marzo 2013
AL CONCLAVE IN CLASSE ECONOMICA
Era il 21 febbraio del 2001. Padre Guillermo Marcò andò a prendere l’allora arcivescovo Jorge Bergoglio nella casa per sacerdoti in cui aveva trascorso la notte a Roma. Era la mattina in cui Giovanni Paolo II lo avrebbe consacrato cardinale e per questo il gesuita era atteso alla Santa Sede.
«Allora, come ci andiamo?», gli chiese padre Guillermo tutto agitato. «Come ci andiamo? A piedi», rispose l’arcivescovo di Buenos Aires.
Era presto e quella mattina il prelato, già vestito per la cerimonia, fece una sosta per concedersi un espresso. Sorrise e scherzò con padre Guillermo che proprio non riusciva a nascondere l’ansia: «Non preoccuparti – lo rassicurò –, sono vestito così, ma qui a Roma, anche se cammini con una banana sulla testa, nessuno ci fa molto caso».
Quando giunsero alla Santa Sede le guardie svizzere non capirono. «La maggioranza dei cardinali arrivavano al Concistoro con grandi comitive. Ma Jorge Bergoglio – racconta padre Guillermo Marcò, il suo portavoce da oltre un decennio, oggi responsabile per la Pastorale universitaria dell’arcivescovado di Buenos Aires – aveva portato con sé solo tre persone della sua famiglia».
Alla cattedrale i suoi fedeli avevano organizzato una colletta perché i sacerdoti e le persone di Chiesa più vicine a lui potessero accompagnarlo in Vaticano e assistere alla cerimonia. Ma «l’umile servo di Gesù», come ama definirsi, ringraziò e chiese a tutti di restare in Argentina e di donare quei soldi ai poveri.
Quel giorno, entrando in Vaticano, il prelato si prodigò nei saluti, come sempre. Il padre gesuita amava ripetere le parole di suo padre, un immigrato piemontese che in Argentina trovò lavoro come semplice impiegato delle ferrovie: «Quando stai andando verso l’alto, saluta sempre tutti. Sono le stesse persone che incontrerai quando scenderai verso il basso».
Il padre di Francesco si chiamava Mario come lui ed era un piemontese di Portacomaro, in provincia di Asti, emigrato a vent’anni in Argentina per sfuggire come tanti altri connazionali alla morsa della crisi del dopoguerra. Il gesuita si ricorda ancora il dialetto piemontese e conosce Rassa nostrana , «libera e testarda», il canto degli immigrati. Oltre al dialetto e all’italiano, parla spagnolo, francese, inglese e tedesco. Ma ama ricordare che la lingua più importante da conoscere «è quella universale dell’amore e della fratellanza».
Coltissimo e umile, come dimostra la sua biografia: fra quelle preparate dai cardinali per la sala stampa della Santa Sede la sua è tra le più corte, mezza pagina. La storia del servo di Gesù diventato Pontefice è raccontata soprattutto attraverso la concretezza delle sue opere, gesti che tutti gli argentini ricordano. Così come san Francesco curava i lebbrosi e non aveva paura di avvicinarli, il padre gesuita nel 2001 baciò e lavò i piedi di dodici malati di Aids ricoverati in un ospedale di Buenos Aires.
La sua difesa e il suo rispetto per la famiglia umana erano e sono tuttora un esempio per la nazione argentina. Nel 2007, poco dopo l’elezione alla presidenza di Cristina Kirchner, il cardinale Bergoglio non esitò a puntare il dito contro il populismo peronista (di sinistra) del governo: «Viviamo nella regione con le più gravi disuguaglianze sociali del mondo, quella che più è cresciuta e meno ha ridotto la miseria. La distribuzione ingiusta dei beni persiste e ha creato una situazione di peccato sociale che grida aiuto al Cielo e limita la possibilità di una vita piena a molti dei nostri fratelli».
I suoi moniti sono sempre stati rafforzati da una straordinaria coerenza personale e da un esempio di umiltà offerto in prima persona. L’arcivescovo abita in un piccolo appartamento della curia della capitale argentina. Rifugge gli appuntamenti mondani e gli inviti a cena, non frequenta ristoranti se non i piccoli comedores popolari di Buenos Aires e, il più delle volte, preferisce cucinarsi qualcosa da solo a casa.
Per risparmiare, preferisce usare i mezzi pubblici piuttosto che i taxi o le vetture private con autista. Ama il tango, ma anche la musica classica e la letteratura, soprattutto Dostoevskij, Borges e Marechal. È tifoso di calcio (Messi gli ha fatto subito sapere che gli dedicherà la vittoria del Mondiale 2014) e segue, quando gli è possibile, le partite del San Lorenzo, la sua squadra del cuore, di cui conserva una maglietta autografata da tutti i giocatori.
Con la stessa semplicità che ha conquistato il cuore degli argentini, Francesco è arrivato a Roma preoccupato di essere eletto a esercitare il ministero Petrino. Il rettore della Cattedrale di Buenos Aires, Alejandro Russo, ha notato, con molti altri, che «il nuovo Pontefice è apparso solo con la talare bianca, senza zucchetto, e ha chiesto di pregare», un segnale immediato del suo stile austero e profondamente religioso. «La settimana scorsa, prima che partisse per l’Italia – ha raccontato ancora il rettore –, un gruppo di amici decise di regalargli un paio di scarpe nuove, perché quelle che aveva erano troppo consunte. Fu un regalo che apprezzò molto, ma non volle altro».
Il primo Papa gesuita della storia della Chiesa, per recarsi al Conclave, ha rifiutato il biglietto in classe business che gli era stato offerto e ha preferito viaggiare in classe economica. Ha portato con sé una piccola valigia, che contiene soltanto l’essenziale.
Sobrio ancora una volta. Anche martedì, in Vaticano, è arrivato a piedi, proprio come la mattina del febbraio 2001, quando Giovanni Paolo II consacrò cardinale quel semplice servo di Gesù che sarebbe diventato il futuro Papa e la nuova guida per la Chiesa cattolica dopo la rinuncia di Benedetto XVI.