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 2013  marzo 14 Giovedì calendario

FESTIVAL, ARRIVEDERCI ROMA

Davanti a un assembramento non autorizzato di gabbiani, in un indistinto effluvio di odori nauseabondi, gli stipatissimi cassonetti di viale De Coubertin raccontano una partecipazione senza medaglie. Ai piedi dei Parioli, a due passi dal Villaggio Olimpico del ’60, davanti alla sede della Fondazione cinema per Roma, si è arresa anche l’Ama. La nettezza urbana cittadina. Per pulire l’area, dovrebbe vedersi riconosciuto il pagamento di poche migliaia di euro. Una goccia nella larga pozzanghera di creditori che da mesi bussano invano per ottenere soddisfazioni economiche regolarmente procrastinate. Ora che anche il tempo delle menzogne tira un consumato sipario e in cassa non c’è l’ombra di un centesimo, l’immondizia si accumula al ritmo delle responsabilità. In attesa delle esequie di Malagrotta, la nuova discarica dei sogni e della guerriglia della politica locale si chiama Festival del Cinema. Inventata otto anni fa da Veltroni come festa e volano elettorale e oggi sprofondata, archiviate passerelle e strumentali cambi di divisa, in grottesca zattera senza più ancoraggi. Per smaltire i rifiuti di un costoso equivoco cine-filo (la festa brucia più di 12 milioni di euro a edizione) il Pdl aveva scelto da destra un direttore di sinistra, Marco Müller. Nobili ascendenze tematiche. Pesaro, Rotterdam, Torino, Locarno, Venezia. Una prima edizione irta di polemiche e difficoltà. Un contratto triennale. Un progetto già finito. Ora che Alemanno è sull’uscio e Renata Polverini non gode più delle fumettistiche perorazioni del Batman di Anagni, Franco Fiorito, anche Müller è in disgrazia. Assediato, sgomento per le lotte intestine, incredulo per i buchi di bilancio , ora anche operato in Svizzera di ulcera, indesiderata compagna di viaggio delle ultime, terribili settimane. Müller era in trattativa per portare l’ultimo Scorsese a Roma. Allo stato, tramontate le illusioni da grandeur hollywodiana, non si può ipotizzare neanche un viaggio all’allegro Festival delle Cerase di Palombara Sabina. Niente denaro. Niente ordinaria programmazione. Comune, Provincia e Regione avevano promesso di saldare presto la loro parte. Circa tre milioni sulle spalle di Gianni Alemanno. Poco più di un paio su quelle di Renata Polverini. Uno e mezzo a carico della precedente istituzione guidata da Nicola Zingaretti. Pagamenti messi formalmente in atto dagli amministratori e respinti alla fonte dalle tesorerie degli enti indebitati. Un no secco, giustificato dalle contingenze: “Non c’è un euro”. Zingaretti, fresco sostituto di Polverini alla Pisana, dopo qualche schermaglia preparatoria a mezzo stampa con Müller (“Mi pare che il Festival abbia tradito l’idea di una manifestazione popolare per promuovere il cinema tra le persone” disse burocratico a Maria Latella paventandone la possibile chiusura) è ora pronto a riconsegnare (magari snellito e in veste low cost) al Richelieu di Thailandia, Goffredo Bettini, la chiave “cultural-mondana” chiamata Festival. Un evento di cui con l’amico Walter, all’epoca della sbornia e delle figurine Panini al potere, Bettini immaginò ogni tassello. Mentre l’assediato Müller si arma di cappello, cerca invano fondi a largo raggio, prova a mòndare il peccato originale e sogna la fuga, Bettini, forte dell’appoggio di Zingaretti, insegue legittimazioni trasversali per tornare in sella. Nel mezzo, il fallimento del progetto economico complessivo del doppione veneziano e un autobus con le ruote sgonfie che in queste condizioni, al traguardo, non porterà nessuno. Non il quadrumviro di sapor lettiano Alemanno, Paolo Ferrari, Luigi Abete, Lamberto Mancini, con gli ultimi due legati a doppio filo dalla comune esperienza a Cinecittà Studios. Non il tandem Bettini-Zingaretti chiamato in caso di golpe a sanare conti e rimodulare verso il basso le ambizioni. Più facile che falliscano tutti e che a novembre, nella già sventolata indifferenza della città, il Festival non abbia luogo. Il Mibac assiste alla scomposta rissa di classe per uno strapuntino sul Red Carpet dell’Auditorium con il distacco degli ignavi. Lorenzo Ornaghi, precario custode a tempo di via del Collegio Romano, aveva consigliato prudenza. Provando a evitare la prova di forza sulla sovrapposizione delle date con il Festival di Torino guidato da Gianni Amelio. Mostrandosi contrario alla defenestrazione coatta di Gian Luigi Rondi. Dissentendo platealmente quando Alemanno e Polverini, affidandosi al prestigio di Müller, travolsero le regole ignorandone mòniti e desideri. Müller illuso dalle promesse, azzardò il passo e si fece convincere e nominare. Un anno dopo non esiste più niente. E così, mentre la marea montante degli esclusi di ieri pretende per il Pd nuovi posti a un tavolo già abbondantemente frequentato, anche il previsto milione di euro del Mibac è rimasto nelle casse del ministero. Marco Müller, prescelto dal duo Bersani-Gotor per ragionare sulla crisi del settore spettacolo in Italia con gli addetti ai lavori e poi spedito tra attori e registi davanti agli involtini primavera di un ristorante cinese sulla via Flaminia, attende di capire se nel Pd balcanizzato dalle elezioni, per la sua direzione suoni la stagione del sacrificio o dell’addio. I nuovi inquilini di un evento svuotato di prospettiva sono pronti a occuparne l’ufficio. Nel quotidiano di una politica culturale ridotta a parodia western, mentre trema anche il Maxxi, presto o tardi, gabbiani e creditori si trasformeranno in avvoltoi.