Marco Del Corona, Corriere della Sera 9/3/2013, 9 marzo 2013
LA PATERNITÀ IMPOSSIBILE
Forse, con la stessa onestà che da noi pretende un figlio, dovremmo dirci una verità. Forse, quindi, tocca ammetterlo: di un congedo di paternità così, purtroppo, possiamo anche fare a meno. Istituzione sulla carta nobilissima, ma di fatto incapace di spingere inequivocabilmente e con forza i carichi dei padri verso quelli delle madri, di scuotere usi e costumi, anche mentali, della società. Con un giorno di astensione obbligatoria dal lavoro per i papà non si cambia nulla; offrendo loro un congedo potenzialmente di mesi al 30% della retribuzione (e comunque in alternativa a quello facoltativo delle mamme esaurita la maternità obbligatoria) si irride — involontariamente, certo, ma proprio per questo quasi sadicamente — alla generosa disposizione dei padri. Che spesso sarebbero pronti a chiederlo, il congedo di paternità. Ma che, a quelle condizioni, non se lo possono permettere.
Peccato. Perché il congedo di paternità fa bene a tutti. Alle madri, ai padri, ai bambini. Alle geometrie variabili delle famiglie: papà e figli, mamma e figli, papà e mamma, perché la coppia va fatta sopravvivere allo sconquasso di un bimbo che arriva e si installa in casa, vorace di cura. Il congedo di paternità, paradossalmente, è un’educazione più sentimentale che pratica. Si impara fallendo moltissimo — chi scrive lo ha sperimentato durante i suoi due congedi, un mese 10 anni fa, di nuovo un paio d’anni dopo — perché con la partner si apre, senza filtri né vie di scampo, una dialettica molto più articolata, ricca e problematica del «vai pure a lavorare ché al(la) piccolino/a penso io». Fosse solo quello. È di più. È meglio. E sotto certi aspetti anche peggio.
Se il congedo di paternità, com’è congegnato ora, delude chi vorrebbe qualcosa di sostanziale, va riconosciuto che le attenuanti abbondano su tutti i fronti. La crisi è quella che è, con l’affanno delle istituzioni, con gli scricchiolii del welfare all’italiana. Le famiglie si arroccano alla sacrosanta difesa di quel che hanno, e per limitare i danni si rinuncia a opportunità illuminate, se costano. Nel 2011, secondo i dati più recenti che l’Inps fornisce, su 263.786 congedi parentali facoltativi in Italia, solo 31.905 sono stati goduti dai padri, e di questi meno di 3 mila con un contratto a tempo determinato. I ritocchi alla materia apportati dalla legge 92 del 2012 («legge Fornero») rimangono poco più che simbolici: dal 1° gennaio di quest’anno è previsto l’obbligo per il padre di «astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno» nei primi «cinque mesi dalla nascita del figlio»; si possono aggiungere due giorni, ma sottraendoli al monte-giorni della madre. Per la prima volta, con la «Fornero», viene dunque introdotta l’obbligatorietà per i padri, ma un giorno solo sa di brindisi coi parenti: è impensabile che orienti equilibri familiari e attitudini sociali. E ciò che resta non detto, però ben presente, è che il lavoro delle donne, spesso meno retribuito o più precario di quello dei loro compagni, diventa subito più spendibile, più sacrificabile.
«Quest’aspetto della "Fornero" rappresenta un esempio delle norme di taglio culturale attraverso le quali il legislatore dà disposizioni di indirizzo. E in tal senso la legge è adeguata», spiega l’avvocato Fabrizio Daverio, socio fondatore dello studio Daverio & Florio. L’esperienza infatti gli mostra che «mentre nelle multinazionali, sul tema, si riscontra una sensibilità coerente con la legge, nelle piccole e medie imprese sia la scarsa conoscenza sia la ridotta possibilità di sopportare i congedi dei padri rendono rarissimi i casi in cui se ne usufruisce». Il giuslavorista ammette che si pongono così sia «il problema filosofico di un legislatore che dovrebbe educare» sia l’esigenza di «tenere in conto l’importanza della famiglia». Ma allora, per provocare un vero cambiamento culturale, potrebbe per ipotesi servire imporre anche ai padri un mese di congedo obbligatorio a pieno stipendio, dunque economicamente non punitivo? «La società a questo non è ancora pronta», chiosa Daverio.
Volendosi fare del male, si può contemplare da lontano l’esempio virtuoso della Norvegia. Primo Paese a introdurre il congedo per i padri esattamente vent’anni fa, dà ai genitori la facoltà di scegliere un congedo parentale di 56 settimane (durante le quali si ha diritto all’80% dello stipendio) o 46 (a salario pieno), 12 delle quali (anche frazionate in modi diversi) sono riservate al padre. L’esempio norvegese — spiega Paola Melchiori, femminista storica, fondatrice della Libera università delle donne, che conosce bene il Paese scandinavo — è l’esito di un accerchiamento giuridico dello stato di diseguaglianza avviato negli anni Settanta». Ha favorito il cambiamento, «perché i paletti giuridici sono essenziali per impedire il puro arbitrio» ma da solo non è garanzia di cambiamento. «In Norvegia, per esempio, il problema della violenza sulle donne non è estirpato». In altre parole, l’apparato legislativo, per quanto avanzato, resta solo un punto di partenza: «Esistono due piani. Uno, l’educazione in uno spazio pubblico con regole cogenti serve. All’interno di questo, occorre poi riuscire a vedere se gli uomini acquistino un senso della paternità in termini non solo tecnici». Ma il nocciolo giuridico, a sua volta, è condizionato e determinato dai fattori culturali. «Il concetto di congedo per paternità come "sollievo" non risolve». Anzi: perpetua la rappresentazione delle donne come «individui svantaggiati».
In Italia le inerzie della società — al netto, come si diceva, dell’inevitabile carico inflitto dalla crisi — promettono di non farsi smuovere dalle pur lodevoli ma poco più che simboliche iniziative legislative. Per Stefano Ciccone, dell’associazione di «uomini consapevoli» Maschile Plurale, «anche se aumenta il numero di padri che si prendono spazi con i figli, e dunque disposti al congedo parentale, è innegabile che la situazione economica abbia aumentato pressione e ricatti. Quando lo stipendio dell’uomo è la voce più importante del bilancio familiare, l’esito è prevedibile. Ma non bisogna tacere un altro aspetto: i padri rimangono esposti a una sottile diffidenza, a una specie di stupore, a una disapprovazione sociale anche in famiglia, quando chiedono di accedere al congedo. Quasi che la cura dei figli certifichi una minore virilità. Solo rendendo automatico il congedo dei padri si avvierebbe davvero un mutamento». Si ha fame di paternità, di occasioni: è troppo poco quanto la legge (e la società, abbiamo visto) offre oggi.
A proteggere dai condizionamenti i padri che volessero avvalersi della possibilità del congedo, la «Fornero» prevede — ricorda ancora il giuslavorista Daverio — «una particolare procedura di convalida delle dimissioni del padre fino al terzo anno di età del figlio, per evitare il sospetto che le dimissioni dipendano dalla paternità e siano perciò forzate». E tuttavia non basta: non basta ancora. In febbraio la funzione pubblica, rispondendo a un quesito del Comune di Reggio Emilia, ha chiarito che i padri dipendenti pubblici non hanno diritto al giorno di congedo obbligatorio e ai due facoltativi previsti dalla legge. Ne può godere solo chi lavora nel privato. Ai nostri figli conviene dirlo: vorremmo tanto, ma la Norvegia non è ancora nostra parente.
@marcodelcorona