Javier Cercas, la Repubblica 9/3/2013, 9 marzo 2013
IL MIO PATTO COL DIAVOLO PER SCRIVERE UN RACCONTO
UNA pioggia nera e sottilissima cadeva sulla piazza. Guardai l’orologio: erano le dieci e un quarto. Mi sembrò strano che fossero passate diverse ore dal mio ingresso nel bar; e anche che mancasse meno di un’ora al mio reincontro con Rosa. Fu allora che sentii una voce alle mie spalle.
«Signor Cabanas» disse. «C’è un signore che desidera vederla ».
Mi voltai: era il cameriere. Anche se avevo capito perfettamente, domandai:
«Come ha detto?».
«Un signore» ripeté. «Vuole vederla ».
«Non capisco» dissi. «Che signore?».
Il cameriere inarcò con impazienza le sopracciglia.
«Sia così gentile da venire un momento con me» disse. «È una questione che la riguarda».
Mi meravigliò che il cameriere mi avesse chiamato per nome; ma mi sorprese ancora di più il fatto che, come vinto da una curiosità insensata, o come se fossi incapace perfino di pensare alla possibilità di rifiutarmi di seguirlo, mi alzai, mi gettai l’impermeabile sul braccio e lo seguii.
Il cameriere bussò con le nocche a una porta: poi l’aprì e mi invitò a entrare. Se in quel momento qualcuno me l’avesse chiesto, io non avrei riconosciuto che ero inquieto, ma la verità è che quello che accade quando oltrepassai la porta mi tranquillizzò di colpo. Quello che accadde fu che mi allungò la mano un ometto minuto, dagli occhi sporgenti e la pelle verdastra, i capelli lisciati con la brillantina, le ciglia lunghissime e il collo incassato tra le spalle, che indossava un doppiopetto e una cravatta degli anni Quaranta, dal cui nodo spuntava una perla falsa; un sorriso premuroso gli illuminava il viso. Strinsi la mano dell’ometto; era molle, grassoccia e leggermente umida: pensai di avere un rospo in mano.
L’ometto fece cenno al cameriere di ritirarsi e mi offrì una sedia; lui si accomodò di fronte a me, dietro una scrivania. Fu allora che notai che il mio ospite non aveva smesso di parlare neppure per un attimo da quando ero entrato nella stanza (un locale quasi vuoto, a metà tra l’ufficio e il deposito, illuminato da tubi al neon fissati al soffitto; sulla parete in fondo si apriva un finestrone che dava sulla notte e sulla pioggia, che si era fatta più intensa); lì per lì non riuscii o non seppi seguire il filo delle sue parole, ma a un certo punto sentii chiaramente:
«E allora?».
L’ometto cercò i miei occhi con il suo sguardo inquisitorio. Poiché pensavo che toccasse a me fare le domande, mi strinsi nelle spalle.
«E allora che?» dissi.
L’ometto sospirò; per un istante sembrò stanco. Con lo sguardo perso nelle sue stesse mani, grassocce e morte sul tavolo, mormorò qualcosa che non capii; poi alzò gli occhi e mi guardò: «Ha idea di chi sono?».
“Un cretino che mi sta facendo perdere tempo mentre aspetto Rosa”, pensai con allegra malevolenza, però non lo dissi, e prima che potessi improvvisare una risposta inoffensiva l’ometto dichiarò:
«Si sbaglia».
«Come ha detto?».
«Che si sbaglia. Cretino, per nulla. E sarebbe meglio che lei non se ne andasse in giro a offendere la gente». Sembrava addolorato: era un po’ arrossito; senza lasciarmi intervenire, proseguì: «Insisto: sa chi sono io?».
Guardai il mio interlocutore: mi sembrò un poveretto: non so perché, pensai che anch’io dovevo sembrargli un poveretto; pensai: “Tutto ciò è deprimente”. All’improvviso la situazione aveva smesso di divertirmi.
«Guardi» dissi. «Sarò onesto con lei. Non ricordo di averla mai vista in vita mia, non ho la minima idea di chi lei sia e, in verità, non mi interessa assolutamente saperlo. Non se la prenda: non ho nulla contro di lei. Immagino che sia tutto un malinteso. Non so chi le ha dato il mio nome né come l’ha saputo, ma certamente lei ha commesso uno sbaglio; io sono uno scrittore, sono di passaggio in questa città: sono venuto soltanto ad accompagnare mia moglie, che fa l’attrice. Ora sono le dieci e trenta e la gente starà uscendo dal teatro. Devo andare; molto piacere e buona fortuna».
Mi alzai e gli tesi la mano sopra la scrivania, deciso ad andarmene. L’ometto non si mosse nemmeno; con voce tranquilla, disse:
«La prego di sedersi un momento e di ascoltarmi».
Si crede sempre di conoscere sé stessi, ma ci si sbaglia: per ragioni che capii solo più tardi, quando ascoltai la richiesta dell’ometto non mi passò nemmeno per la testa la possibilità di rifiutarmi. Mi risedetti.
«Le rivelerò un segreto, ma mi faccia il favore di non spaventarsi» disse, e mi guardò negli occhi; poi annunciò: «Sono il Diavolo».
Fui sul punto di scoppiare a ridere.
«Non pretenderà che le creda, vero? ». Sorrisi con benevolenza, quasi in modo complice. «Si renda conto: siamo alla fine del ventesimo secolo e…».
Non mi lasciò finire: alzando una mano irritata, disse:
«Guardi».
In quell’istante notai che qualcosa era accaduto, ma non seppi precisare cosa. Ci misi un secondo a rendermi conto: dietro la testa dell’ometto la notte si era dissolta e aveva smesso di piovere; un’inappellabile luce di mezzogiorno entrava a fiotti dalla finestra. Bruscamente credulo, sentii come se avessero aperto ai miei piedi un abisso vertiginoso. Allora mi ascoltai dire, soffocato dall’angoscia:
«Le credo, le credo».
Il Diavolo abbassò la mano: le ombre tornarono ad affastellarsi sulla finestra; di nuovo la pioggia batté contro i vetri. Poiché sentii che potevo soltanto rassegnarmi, chiesi con voce tremula:
«Cos’è che vuole?».
Capii immediatamente, quando era ormai troppo tardi, che quella domanda era una forma di accettazione, e mi pentii di averla formulata.
«Mi rallegro che si sia convinto» disse il Diavolo. «Le dirò una cosa che forse la sorprenderà: l’unica cosa che voglio è darle una mano. Se non sono male informato, lei è in un guaio serio. Mi
sbaglio?».
Non risposi.
«Non mi sbaglio» disse il Diavolo. «E allora le offro la possibilità di uscirne bene.»
«Certo» dissi in un tono faticosamente sarcastico, perché di colpo mi resi conto di non potermi arrendere senza lottare. «E l’unica cosa che devo fare è venderle la mia anima.» Il suono della mia voce mi aveva imbaldanzito; aggiunsi in tono di sfida: «Dov’è che bisogna firmare?».
«Non c’è bisogno di firmare da nessuna parte» disse il Diavolo con amabi-lità, come se non fosse in grado di percepire il tono aggressivo delle mie parole. «Se accetta la mia proposta, viene via con me e la questione è risolta».
«Non vedo dov’è l’affare» dissi con sincerità.
«Le spiego» disse il Diavolo. «Se viene con me, io in cambio le offro la storia che sta cercando. Lei la scrive, la pubblica ed evita il fallimento umiliante nel quale era sul punto di sprofondare: sua moglie, felice e contenta, perché non avrà più la sensazione di avere sposato un fallito il cui fallimento la sta distruggendo; felice anche il suo editore, perché recupererà abbondantemente i soldi che, per quanto continui a fare pressioni su di lei, è già convinto da tempo di avere buttato via; e lei, che glielo dico a fare?, perché sarà uno scrittore, non un simulacro di scrittore, che è l’unico motivo che ha per non disprezzarsi».
Non so se gli credetti; non pensai a niente: per evitare che il mio interlocutore giocasse in vantaggio. Punto dalla curiosità, cedetti alla tentazione di domandare:
«Che storia?».
«Come, che storia?».
«Che storia mi offre in cambio?».
«Questa, naturalmente».
«Questa?».
«Sì» chiarì. «Questa: lei e io, qui, proprio adesso. Potrebbe intitolarsi “Il patto”. Cosa gliene pare?».
Traduzione di Bruno Arpaia © 2013 Javier Cercas