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 2013  marzo 14 Giovedì calendario

USA, PERSONALE SOTTO CONTROLLO


Tutto è cominciato con una donna: Marissa Mayer. Nei giorni scorsi l’amministratore delegato del colosso internet Yahoo ha inviato un memo, che doveva restare riservato, nel quale ha vietato ai suoi dipendenti di lavorare da casa. Le motivazioni? «Alcune delle migliori decisioni vengono adottate nei corridoi oppure davanti alle macchinette del caffè», si è giustificata l’a.d. scatenando un vero e proprio dibattito nelle corporation statunitensi su cosa sia meglio fare per aumentare la produttività dei loro dipendenti.
Negli Usa il problema è molto sentito, tanto che diverse società hanno condotto esperimenti volti a controllare i lavoratori con metodi che in Europa rimandano al Grande fratello di orwelliana memoria. Ci sono aziende americane, per esempio, che fanno indossare ai loro dipendenti sensori applicati ai vestiti per studiare l’interazione all’interno degli uffici. In particolare, il Wall Street Journal cita il caso di Bank of America che, qualche anno fa, chiese a un gruppo di lavoratori del call center di indossare sensori che registravano dati come il tono di voce, i movimenti all’interno dell’ufficio e la durata delle pause. Dall’elaborazione dei risultati emergeva che i più produttivi appartenevano a un piccolo gruppo molto coeso e costoro tendevano a parlare con più frequenza con i loro colleghi.
Un esempio più recente è quello di Cubist Pharmaceutical che si è rivolta a una società specializzata, la Sociometric Solutions, che ha fatto indossare a 30 addetti alle vendite dei badge delle dimensioni di un iPhone per raccogliere dati sui movimenti delle persone osservate. Tali informazioni sono state incrociate con i dati sul traffico email e con i risultati del sondaggio settimanale nel quale i dipendenti danno un voto al loro livello di produttività. Anche in questo caso è emerso uno stretto collegamento tra maggiore produttività e interazione faccia a faccia dei dipendenti. L’attività sociale, per esempio, si interrompe bruscamente durante la pausa pranzo, poiché molti dipendenti si ritirano nelle loro scrivanie per controllare la mail o navigare sul web. L’azienda ha pertanto investito nel rinnovo dei locali della mensa, disponendo per esempio di spazi più raccolti.
Al di là dei risultati, questi esperimenti pongono seri interrogativi sui limiti da non oltrepassare quando si fanno indagini sui dipendenti. «In termini europei, e in particolare italiani, avremmo dei problemi a riprodurre modelli simili per la legge sulla privacy, che richiede l’assenso informato dei lavoratori per essere registrati nei loro movimenti», spiega a ItaliaOggi Francesca Prandstraller, docente di organizzazione del lavoro dell’Università Bocconi. «Tuttavia, l’idea di fondo di questi esperimenti nasce da studi condotti sui social network che hanno come scopo individuare il ruolo delle persone per valutare il capitale sociale delle aziende». Studi che sono basati sulla teoria delle comunità di pratica, secondo cui la conoscenza tacita che passa da un lavoratore all’altro parte dal presupposto di vivere e lavorare insieme, parlare linguaggi comuni e sperimentare pratiche simili. Tutte attività indissolubilmente legate alla presenza fisica in azienda, essenziale per il passaggio delle conoscenze tacite.
Attraverso i social media, invece, i messaggi sono già codificati. Chi fa parte di un social network, inoltre, sceglie a priori con chi vuole interagire e ciò può condurre a una chiusura mentale, mentre recarsi fisicamente in ufficio impone una serie di attività come la gestione del conflitto e l’interazione con persone con cui non vorremmo avere a che fare, che sfocia in una maggiore flessibilità. Chissà che il telelavoro non sia davvero sul viale del tramonto, con buona pace del boom dei social network.