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 2013  marzo 14 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - PAPA FRANCESCO

007

LASTAMPA.IT
GIACOMO GALEAZZI

giacomo galeazzi (vatican insider)
"Non siamo una ong. Chi non prega Dio, prega il diavolo". Dall’altare parla a braccio in italiano come spesso facevano i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Francesco ha celebrato oggi pomeriggio la messa nella Cappella Sistina con i cardinali. Papa mariano come Wojtyla che consacrò alla Madonna il proprio pontificato ("Totus tuus"), appena mercoledì si è affacciato da San Pietro vestito di bianco Francesco ha annunciato il primo appuntamento in agenda: la preghiera alla Vergine. Poi oggi pomeriggio davanti al Giudizio Universale di Michelangelo, papa Bergoglio ha commentato il Vangelo della messa, tratto da Matteo e ha parlato della professione di fede di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
Gesù gli risponde: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». La prima Lettura era tratta da Isaia sulle genti che affluiscono al monte del Signore e la seconda da Pietro sulle pietre vive che edificano la Chiesa. Il Papa, nella sua prima omelia da Pontefice, pronunciata a braccio in italiano, ha sottolineato che in queste tre letture c’è qualcosa di comune: "il movimento". Nella Prima Lettura il movimento è il cammino; nella seconda Lettura, il movimento è nell’edificazione della Chiesa; nella terza, nel Vangelo, il movimento è nella confessione. "Camminare, edificare, confessare".
La prima cosa che Dio ha detto ad Abramo è questa: “Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile”. Dunque - ha proseguito - "la nostra vita è un cammino. Quando ci fermiamo, la cosa non va. Camminare sempre, alla presenza del Signore, alla luce del Signore, cercando di vivere con quella irreprensibilità che Dio chiede ad Abramo nella promessa". Quindi ha sottolineato: "Edificare. Edificare la Chiesa, si parla di pietre: le pietre hanno consistenza; ma pietre vive, pietre unte dallo Spirito Santo. Edificare la Chiesa, la Sposa di Cristo, su quella pietra angolare che è lo stesso Signore". Terzo punto: confessare. "Noi possiamo camminare quanto vogliamo, possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo a Gesù Cristo, la cosa non va". Diventeremo - ha detto - una ong filantropica, "ma non la Chiesa, sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno i castelli di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza".
Il Papa ha citato una frase di Leon Bloy riferita a quando non si confessa Gesù Cristo: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”, perché "quando non si confessa Gesù Cristo - ha spiegato - si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio". Una preghiera particolare è stata elevata a Dio perché Benedetto XVI possa servire la Chiesa anche “nel nascondimento con una vita dedicata alla preghiera e alla meditazione”. E ha aggiunto: "Camminare, edificare-costruire, confessare. Ma la cosa non è così facile, perché nel camminare, nel costruire, nel confessare delle volte ci sono scosse, ci sono movimenti che non sono proprio movimenti del cammino: sono movimenti che ci tirano indietro".
Il brano evangelico proposto dalla liturgia - ha sottolineato - prosegue in realtà con una situazione speciale: "Lo stesso Pietro che ha confessato Gesù Cristo, gli dice: ’Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c’entra’. Ti seguo ... senza la Croce. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce - ha osservato - non siamo discepoli del Signore: siamo mondani: siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore!".
"Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia - ha detto Papa Francesco - abbiamo il coraggio - proprio il coraggio - di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria, Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti". Quindi ha concluso: "Io auguro a tutti noi che lo Spirito Santo, la preghiera della Madonna, nostra Madre, ci conceda questa grazia: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo Crocifisso. Così sia".


REPUBBLICA.IT
ROMA - È iniziata molto presto la prima giornata da Papa per Jorge Mario Bergoglio, che pochi minuti dopo le 8 era già a Santa Maria Maggiore, una delle principali basiliche della capitale per pregare, come aveva annunciato ieri sera, la madonna. Si è trattenuto in preghiera per circa mezz’ora. È stata la prima uscita pubblica, avvenuta a distanza di sole poche ore dalla sua elezione.
Niente auto papale e scorta ’ridotta’. Papa Francesco non ha voluto utilizzare l’auto papale e ha chiesto un auto meno lussuosa della Scv 001 messa a disposizione dalla Santa Sede. Un rifiuto analogo a quello opposto ieri sera, dopo la sua elezione, quando il pontefice ha deciso di rientrare alla Domus Santa Marta in autobus, assieme ai cardinali elettori. Secondo quanto appreso, Papa Francesco ha preteso di alleggerire la scorta della polizia di Stato italiana. Papa Francesco avrebbe voluto che la Basilica restasse aperta ai fedeli come sempre: "Lasciate la basilica aperta - ha detto ai collaboratori approssimandosi a S.Maria Maggiore - sono un pellegrino, voglio andare tra i pellegrini". Ma la protesta è stata inutile e i fedeli si sono assembrati all’esterno della chiesa. Il Papa, all’uscita, ha salutato alcuni studenti affacciati alle finestre.
Misericordia per le anime. Il Papa ha pregato nella Cappella Paolina della Basilica di Santa Maggiore davanti all’immagine della Madonna Salus Populi Romani poi ha cantato il Salve Regina, quindi si è spostato nella Cappella Sistina della stessa Basilica ed ha nuovamente pregato. Infine ha fatto una breve sosta davanti alla tomba di San Pio V. A riferire come il papa ha trascorso i 30 minuti all’interno di S. Maria Maggiore è stato padre Ludovico Melo, confessore della Basilica. "Voi siete i confessori - ha aggiunto il Papa - quindi siate misericordiosi verso le anime. Ne hanno bisogno", ha riferito padre Melo.
"Miserando atque eligendo", il motto di Francesco. È "Miserando atque eligendo" il motto adottato da vescovo da Jorge Mario Bergoglio, tratto da un versetto del Vangelo secondo Matteo: Gesù vede un pubblicano e lo chiama, guardandolo con amore e scegliendolo perchè lo seguisse. Lo stemma episcopale ha al centro il monogramma di Cristo su campo blu, una stella ed un grappolo d’uva. Adesso Francesco deciderà se mantenere motto e stemma: prima i suoi predecessori recenti hanno tutti mantenuto da papa motto e stemma che avevano adottato da vescovi, in alcuni casi con aggiustamenti grafici.
Niente trono e conto pagato. Nell’ormai consueto incontro con la stampa, padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, ha comunicato alcuni particolari delle prime ore del nuovo Papa. "Nella cappella Sistina l’atto di omaggio da parte dei cardinali, Papa Francesco lo ha ricevuto stando in piedi e senza sedersi sul seggio che era stato preparato davanti all’altare", ha detto Lombardi, sottolineando ancora una volta la semplicità del nuovo Pontefice che, già da ieri sera, aveva manifestato la volontà di pagare il conto del suo soggiorno a Roma. Dopo la preghiera alla basilica, Bergoglio è andato alla Casa internazionale del clero di via della Scrofa dove aveva pernottato nei giorni precedenti il Conclave. Lì "ha preso i suoi bagagli, ha salutato il personale, ha pagato il conto per dare il buon esempio", ed è tornato in Vaticano, ha riferito Lombardi.
In visita a Ratzinger, ma non subito. Che il nuovo pontefice farà visita a Benedetto XVI è quasi certo, meno sicuro è quando. "Non dobbiamo aspettare da un momento all’altro che vada fisicamente a Castel Gandolfo - ha precisato padre Lombardi -. Ci andrà qualcuno dei giorni prossimi o seguenti, non oggi o domani o dopo domani. Non è imminente", ha detto il gesuita, sottolineando che "il primo dialogo, il saluto e il ringraziamento hanno già avuto luogo".
Viaggio in Argentina. "I Papi da quando viaggiano sono sempre andati nei loro Paesi, lo hanno fatto Giovanni Paolo II nove volte e Benedetto XVI tre volte, quindi è presumibile che il nuovo pontefice si rechi presto in Argentina, ma quando e come lasciamolo strabilire a lui", ha detto Lombardi che non ha nemmeno escluso la possibilità che il nuovo Papa visiti presto anche Polonia e Germania, cioè i Paesi dei suoi predecessori, come aveva fatto Papa Ratzinger recandosi nella patria del predecessore dopo l’elezione.
La lettera al rabbino. "Spero vivamente di potere contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II, in uno spirito di rinnovata collaborazione..". Papa Francesco ha inviato un messaggio al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, in cui lo invita all’inaugurazione del Pontificato. "Nel giorno della mia elezione a vescovo di Roma e pastore universale della chiesa cattolica, le invio il mio cordiale saluto, annunciandole che la solenne inaugurazione del mio pontificato avrà luogo martedì 19 marzo", scrive papa Francesco. "Confidando nella protezione dell’Altissimo, spero vivamente di potere contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II, in uno spirito di rinnovata collaborazione e al servizio di un mondo che possa essere più in armonia con la volontà del creatore", conclude il messaggio .
Gli auguri. Da Putin a Merkel, dalla Francia alla Cina, sono tantissimi i messaggi arrivati al pontefice. Tra questi anche quelli del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: l’elezione di Papa Francesco "è motivo di universale e gioiosa emozione : il popolo italiano ne è particolarmente partecipe, e a suo nome, interpretandone il sentimento comune e profondo, Le indirizzo le mie più calorose e sincere felicitazioni" si legge nel messaggio nel quale il Capo dello Stato sottolinea come "lo straordinario patrimonio morale e culturale del Cattolicesimo" sia "indissolubilmente intrecciato con la nostra storia bimillenaria e con i valori morali nei quali l’Italia si riconosce".

COSE DI OGGI . CORRIERE.IT
MILANO - Prima messa da Papa per Jorge Mario Bergoglio. Nella Cappella Sistina Papa Francesco ha aperto con il rito della penitenza. Dopo avere letto in latino le formule della sua prima liturgia da Pontefice Romano, ha scelto di utilizzare invece l’italiano per la sua prima omelia, pronunciata a braccio: una scelta diversa da quella del suo predecessore, Benedetto XVI che, nella medesima occasione, l’aveva pronunciata in latino.
TRE LINEE DELLA CHIESA - «Senza la confessione la Chiesa diventa una ong pietosa», ha detto Papa Francesco. «Camminare, edificare, confessare», sono le tre linee della Chiesa secondo Bergoglio. «Nelle tre letture che abbiamo ascoltato c’è in comune il "movimento". La nostra vita è un cammino, e non va quando ci fermiamo. Dobbiamo camminare sempre, in presenza e alla luce del Signore cercando di vivere con quella irreprensibilità che Dio chiedeva ad Abramo nella sua promessa». «Dio ha detto ad Abramo - ha ricordato Papa Francesco - cammina nella mia presenza e sii irreprensibile».
IL DEMONIO - Papa Francesco ha messo in guardia i 114 cardinali che lo hanno eletto ieri: «Chi non prega il Signore prega il diavolo, quando non si confessa Gesù si confessa la mondanità del Demonio». «Se non camminiamo alla luce di Cristo» la nostra realtà, ha ammonito nell’omelia pronunciata a braccio nella Sistina, diventa quella «descritta da Leon Bloy»

HA PAGATO IL CONTO
Sicuramente è mattiniero. Papa Francesco è arrivato pochi minuti dopo le 8 a Santa Maria Maggiore, una delle principali basiliche della capitale per ringraziare la Madonna. Ma la sua visita è anche la prima in una chiesa romana da vescovo di Roma.

PREGHIERA - Con il Papa c’erano il prefetto della Casa Pontificia, monsignor George Gaenswein, e il vice prefetto della Casa Pontificia, Leonardo Sapienza. Visita molto breve, rappresentata esclusivamente dal raccoglimento di Papa Francesco in preghiera davanti all’Altare della Vergine. Rivolgendosi poi ai confessori Papa Francesco ha detto: «Siate misericordiosi, le anime hanno bisogno della vostra misericordia».

Arrivo in Santa Maria Maggiore per la preghiera
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ENTUSIASMO - La prima visita del nuovo Pontefice in una chiesa romana ha provocato entusiasmo tra la folla. Ragazzi e ragazze che si accingevano a varcare il portone di ingresso del liceo classico Albertelli, non appena resisi conto della ressa di fotografi e operatori televisivi e della presenza quindi di forze dell’ordine hanno capito che c’era il Papa in Basilica e rapidamente si sono spostati dalla scuola per raggiungere l’ingresso laterale della Basilica. Dalle finestre delle abitazioni circostanti gente anch’essa sorpresa dal clamore vive questo momento particolare, mentre il traffico nella zona - già di per sè intenso perchè in prossimità della stazione Termini - si è fatto ancora più caotico.
IL CONTO - Dopo aver visitato Santa Maria Maggiore, «su una delle auto della gendarmeria, senza nessun corteo, il Papa è andato alla Casa del clero di via della Scrofa dove abitava nei giorni del pre Conclave e ha pagato il conto per dare il buon esempio», ha detto il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi.
I GESTI - «Nella cappella Sistina l’atto di omaggio da parte dei cardinali, Papa Francesco lo ha ricevuto stando in piedi e senza sedersi sul seggio che era stato preparato davanti all’altare», ha riferito Lombardi. Ieri sera poi, tornando a Santa Marta, nel corso di una cena festosa dopo l’elezione a nuovo Pontefice, il Papa ha detto ai cardinali: «Che Dio vi perdoni». Poi, per tornare a Santa Marta ha detto no all’auto di ordinanza dei Pontefici scegliendo di utilizzare invece il pullmino con il quale tutti i cardinali hanno fatto ritorno nel loro albergo.
LE LINGUE E IL MOTTO - Da segnalare anche il motto episcopale di Papa Bergoglio. È una frase latina tratta dal Vangelo di Matteo «Miserando atque eligendo», che descrive l’atteggiamento di Gesù verso il pubblicano (considerato un pubblico peccatore) che «guardò con misericordia e lo scelse». Il Papa conosce cinque lingue: spagnolo (madrelingua), italiano, tedesco, francese e inglese. « Inoltre un po’ di portoghese, ma è bene che se lo prepari per andare a Rio de Janeiro a luglio in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, che si terrà in luglio».
L’IMPEGNO NELLE PERIFERIE - «Il nuovo Papa ci ha detto che l’evangelizzazione suppone zelo apostolico», ha detto il card. Fernando Filoni, commentando oggi la scelta del nuovo Papa, in un incontro nella Congregazione di Propaganda Fide, riportato da Fides. «E che bisogna uscire, andare verso chi ha bisogno, ad annunciare il Vangelo nelle periferie».

COMPLICE DI VIDELA?
Su Twitter e in rete se ne discute da ore. Quelle foto mostrano il neoeletto Papa Francesco con Jorge Rafael Videla, dittatore argentino dal 1976 al 1981, o si tratta di altri prelati? Subito dopo l’habemus Papam, il regista americano Michael Moore su Twitter posta una foto che mostra un prete di spalle mentre somministra la comunione a Videla. Poi Moore si corregge - sempre con un cinguettio - e smentisce che il sacerdote nella foto sia il neo Papa. Sono in tanti a dirglielo «L’età non corrisponde». Ai tempi - era il 1990 - Bergoglio aveva 54 anni, mentre il prete con l’ostia in mano teso verso il dittatore pare più anziano.
Il tweet di Michael MooreIl tweet di Michael Moore

IL TWEET DI MOORE - Secondo quanto spiega anche il Post, l’immagine è della Corbis e la didascalia recita: «L’ex presidente argentino Jorge Rafael Videla riceve la comunione in una chiesa di rito cattolico romano a Buenos Aires, in questa foto del 20 dicembre 1990. In seguito al colpo di stato militare contro Isabel Peron del 24 marzo 1976, Videla divenne presidente, guidando una giunta militare che includeva il brigadiere generale Orlando Agosti e l’ammiraglio Eduardo Massera». Nessun nome, dunque. Secondo molti commentatori argentini, il sacerdote sarebbe Octavio Derisi, importante sacerdote argentino nato nel 1907, che nel 1990 era vescovo ausiliario di La Plata, vicino alla capitale Buenos Aires. Derisi è morto nel 2002. Inoltre ai tempi Bergoglio non ricopriva incarichi particolari e non è nemmeno dato sapere se vivesse a Buenos Aires o meno.

I DESAPARECIDOS - Altre sono poi le foto che mostrano prelati vicina a Videla. In alcuni casi la somiglianza con l’attuale Papa fa sorgere dei dubbi. Ipotesi plausibili o illazioni? Secondo alcuni studiosi argentini e gli avvocati difensori dei desaparecidos c’è il forte sospetto che Bergoglio fosse a conoscenza della presenza di preti sugli aerei militari da cui venivano gettati i dissidenti da far scomparire. Anche in questo caso si tratta di insinuazioni infondate? «Bergoglio non poteva non sapere, ai tempi era a Buenos Aires dove c’era la Scuola di Meccanica della Marina militare (Esma) e dove ogni mercoledì partiva un aereo che gettava in mare decine di persone. Nella sua posizione, non poteva non essere a conoscenza di quello che stava succedendo. E forse la sua voce, se fosse intervenuto, avrebbe evitato tante vittime», spiega Marcello Gentili, da venti anni difensore di parte civile delle famiglie di desaparecidos . La Chiesa cattolica argentina ha confermato dinanzi alle autorità giudiziarie un incontro segreto del 1978 delle gerarchie cattoliche al più alto livello con il dittatore Jorge Videla nel corso del quale si parlò dell’assassinio dei detenuti-desaparecidos.
Un’altra foto di Videla con un alto prelatoUn’altra foto di Videla con un alto prelato
COSA DICE IL MONDO - Nessuna conferma però sul nome di Bergoglio. Il tutto mentre la stampa internazionale - dal New York Times alla Bbc Mundo, fino al foglio argentino Pagina 12 - ricordano le accuse di connivenza con il regime di Jorge Videla che negli anni hanno coinvolto il gesuita, trovando tuttavia sempre la netta smentita di quest’ultimo. Duro con i governi Kirchner, accusati di una politica economica non attenta alle diseguaglianze sociali, Bergoglio «fu meno energico» durante la dittatura degli anni ’70, scrive il New York Times, ricordando come il pontefice sia stato «accusato di essere a conoscenza degli abusi della Sporca Guerra e di non aver fatto abbastanza per fermarli mentre 30mila persone sparivano, venivano torturate o uccise dalla dittatura». In Gran Bretagna, il Times lancia il proprio dubbio in prima e titola: «L’amico dei poveri che era anche a suo agio con i dittatori», mentre anche in Germania gli anni di Videla, durante i quali Bergoglio fu Superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, riaffiorano sulle pagine dei quotidiani.

MALVINAS: STAVA CON GLI ARGENTINI
A un giorno dalla sua elezione, Papa Francesco sembra uno che parla chiaro: per quel che si è visto fino ad ora, non troppo uso a bizantinismi o a equilibrismi di sorta. Anche su una questione piuttosto delicata, come la contesa che divide da quasi due secoli Argentina e Gran Bretagna sul possesso delle Falkland (o le Malvine come le chiamano a Buenos Aires).

LA CONTESA- Una contesa costata una guerra breve e sanguinosa nel 1982, vinta dalla Thatcher contro i generali (poi caduti anche per questo motivo). Una contesa che ebbe pure un coté calcistico (con il Maradona che "punisce" da solo l’Inghilterra con la celebre Mano di Dio). E che ha visto un nuovo capitolo, proprio qualche giorno fa, con il referendum con cui, gli abitanti delle isole, con una maggioranza a dir poco bulgara, il 99,8% (1.514 sì e 3 no), hanno deciso che le Falkland devono rimanere col Regno.

«SUOLO ARGENTINO»- Ebbene, il day after la salita al soglio di Francesco, tutti i tabloid di Britannia in coro, il Sun , il Daily Mirror e il Daily Mail, ma anche quotidiani più istituzionali come il Telegraph e l’Indipendent, hanno ricordato l’omelia pronunciata nell’aprile scorso dall’allora arcivescovo di Buenos Aires, in occasione del trentennale del conflitto: « Non dimenticate quelli che sono caduti durante la guerra- diceva Bergoglio- perché hanno sparso il loro sangue su suolo argentino».

«USURPATORI»- E poi: «Siamo qui a pregare per tutti quelli che sono caduti, figli della patria che sono andati a difendere le loro madri, per reclamare ciò che era loro, parte della patria, che è stata usurpata». Una posizione molto netta dunque che forse inquieta la stampa britannica, pure cauta e rispettosa però nel riportare le parole del Pontefice (giusto il Sun rispolvera la maradoniana Mano di Dio). Ora che non parla più solo agli argentini, ma al mondo intero, sarà interessante vedere come Francesco affronterà la spinosa questione.

Matteo Cruccu

LA GIORNATA DI OGGI
DI ALDO CAZZULLO
Ai cerimonieri che come prima cosa volevano portarlo dal sarto, Papa Francesco l’ha detto fin dalle 5 e mezza di stamattina: prima si va dalla Madonna. E i francescani della basilica di Santa Maria Maggiore l’hanno appreso quando, aprendo la chiesa, hanno trovato la gendarmeria vaticana in perlustrazione.
L’icona «Salus populi romani»L’icona «Salus populi romani»
Jorge Mario Bergoglio è arrivato alle 8 e ha compiuto pochi gesti, tutti significativi. Ha pregato sull’antichissima icona della Madonna, la «Salus populi romani», dipinta secondo la tradizione da San Luca, cui i gesuiti come lui sono legatissimi: i missionari della Compagnia di Gesù che andarono ad annunciare il Vangelo in Cina portavano proprio la riproduzione di questa icona. Poi Papa Francesco ha pregato nella cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, dove Ignazio da Loyola, fondatore dei gesuiti, ha celebrato la prima messa. Ha sostato davanti alla tomba di san Pio V, il Papa di Lepanto e anche unico Papa piemontese della storia, prima di Bergoglio, che è argentino ma di genitori piemontesi. Si è inginocchiato davanti ai resti della mangiatoia di Betlemme. Prima di andarsene, ha raccomandato a padre Ennio Monteleone, a padre Angelo Gaeta a agli altri confessori della basilica: «Siate misericordiosi».
San Francesco sostiene la Chiesa nel «Sogno di Innocenzo III» di Giotto nella basilica di AssisiSan Francesco sostiene la Chiesa nel «Sogno di Innocenzo III» di Giotto nella basilica di Assisi
Infine ha pregato san Francesco Saverio, altro gesuita, e san Francesco d’Assisi, davanti alla pala d’altare nella navata sinistra che raffigura l’estasi del Poverello. Ma tutti in chiesa hanno pensato a un’altra immagine, quella affrescata da Giotto nella basilica superiore ad Assisi: il sogno di Innocenzo III, con Francesco che sostiene la Chiesa e ne evita il crolllo.

SUI GIORNALI DI STAMATTINA
LUIGI ACCATTOLI SUL CORRIERE DELLA SERA
Il papato lascia l’Europa e va nelle Americhe: è un evento che dice la capacità del nuovo che abita il cuore antico della Chiesa di Roma e la pone ancora una volta sul proscenio della storia, nella stagione del rimescolamento planetario dell’umanità. Va oltre l’Atlantico e sceglie un cardinale del subcontinente americano, cioè un uomo del Sud del mondo, ora che il Sud povero sta sfidando il Nord ricco in nome dei suoi diritti e delle sue necessità.
Sono questi i primi due segni dell’elezione a Papa del cardinale Bergoglio, ma ve ne sono altri, tutti portatori di novità, che insieme potrebbero aiutare la Chiesa a superare quel complesso dell’arretramento che sembra averla colpita lungo gli ultimi quattro decenni, a partire dalla contestazione giovanile degli anni Sessanta del secolo scorso, che coincise con l’inizio del conflitto interno sull’eredità del Vaticano II.
Il terzo segno viene dall’eletto, che ha scelto di chiamarsi Francesco, un nome che racchiude un destino: nell’età di mezzo Francesco d’Assisi andò al soccorso della Chiesa di Roma in risposta alla chiamata avuta nel sogno: «Francesco ripara la mia Chiesa»; e oggi, ottocento anni dopo l’avventura del Poverello, un Papa per la prima volta prende quel nome che è sempre restato un programma e con ciò segnala di volerne assumere la missione che è di ritorno al Vangelo sine glossa, cioè senza adattamenti.
Il quarto segno è da cogliere nel ruolo che il nuovo Papa ebbe nel Conclave del 2005, quando risultò il più votato dopo Ratzinger sia al primo sia all’ultimo degli scrutini. Ricostruzioni attendibili segnalano che arrivò ad avere quaranta voti che forse non sarebbero bastati per eleggerlo ma che potevano impedire l’elezione del Papa teologo.
Si dice ancora che nella pausa del pranzo Bergoglio scongiurasse i suoi sostenitori di concorrere a eleggere Ratzinger, cosa che avvenne. Otto anni dopo è l’eletto di allora a rinunciare e tocca al primo rinunciatario prendere il suo posto: una vicenda parabolica che di sicuro tiene in sé molti significati.
Come hanno fatto i cardinali a convincere ieri chi allora non volle il papato? Bergoglio è un gesuita, il primo Papa gesuita della storia: e si sa che i gesuiti hanno nella Regola l’impegno a non accettare cariche e onori. Si dice che nell’ultima Congregazione generale egli abbia parlato di povertà e di purificazione della Chiesa dal «peccato»: forse i cardinali da quelle sue parole hanno compreso che ora l’umile argentino si sentiva pronto ad osare il papato e a disubbidire alla Regola dettata da Ignazio di Loyola, quasi facendosi da gesuita francescano.
L’uscita del papato dall’Europa ha lo stesso segno epocale che ebbe nel 1978 l’uscita dall’Italia: allora era in questione l’assetto dell’Europa nella fase finale del confronto Est-Ovest, oggi è in questione l’assetto del mondo. Questa uscita è di buon segno perché a nessuno sfugge che le Chiese d’Europa hanno ormai troppa storia per poter guardare con occhi sgombri alla sfida dei tempi nuovi che viene dai poveri del pianeta. Proverà forse a guardarla ora con gli occhi di papa Francesco.

***

T re punti sensibili vi sono nel saluto del nuovo Papa, tremante per l’emozione: il primo è nelle parole «vescovo e popolo», il secondo è quando ha chiamato Benedetto «il nostro vescovo emerito», il terzo quando ha invitato il popolo a invocare su di lui la benedizione di Dio e a farlo in silenzio prima che lui desse al popolo la sua benedizione: «La preghiera del popolo che chiede la benedizione per il suo vescovo». Sono tre punti che nell’insieme segnalano un’idea di Chiesa-comunione e di Chiesa-popolo che sono formule centrali del Vaticano II, che insistono sul legame del clero con il popolo (come avrebbe detto Rosmini), che pongono in risalto la qualifica del Papa come vescovo — egli è «vescovo di Roma» — e che richiamano al ruolo primario che nella Chiesa svolge il «popolo di Dio» tutto insieme prima che il vescovo realizzi il suo «ministero» verso il popolo. Si può vedere qui la premura di presentare uniti compiti e ruoli che la vecchia concezione distingueva e distanziava. Benedetto XVI ha scelto di farsi chiamare «Papa emerito», ma ecco che il suo successore lo ha invece chiamato «nostro vescovo emerito». Vedremo come si svilupperà questo capitolo nei prossimi giorni, ma certo sono state parole intenzionali. Vi sono nelle prime parole di papa Francesco altri elementi di timbro più schiettamente evangelico e popolare: la scelta del «Padre nostro» come preghiera capace di coinvolgere tutti, in modo che l’immensa assemblea tutta si unisse nell’invocazione, il richiamo alla «fratellanza» universale («per tutto il mondo»), l’annuncio che oggi andrà a «pregare la Madonna», come il fedele più semplice: chissà che non vada al Santuario del Divino Amore, luogo di pellegrinaggio dei più semplici tra i cristiani di Roma.

VITTORIO MESSORI
Mi scuso di cominciare con un episodio personale. Ma, come si vedrà, sullo sfondo c’è un problema molto grave che riguarda la Chiesa intera e con il quale, dunque, Francesco dovrà confrontarsi in modo prioritario. Spero dunque mi sia perdonato l’apparente personalismo.
Nel mese trascorso dalla fatidica ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes, l’11 febbraio, innumerevoli colleghi sia italiani sia stranieri mi hanno chiesto una previsione sul cardinale che i confratelli avrebbero eletto come successore di Benedetto XVI. Sempre, senza eccezione, mi sono schermito, a nessuno ho risposto, ricordando che a un cristiano non è lecito tentare di rubare il mestiere allo Spirito Santo; e rievocando episodi, vissuti di persona nella redazione dei giornali, in cui le indicazioni dei papabili da parte degli esperti erano state regolarmente smentite. Per questo motivo, pur scusandomi, non ho partecipato a quella sorta di divertissement dei colleghi del Corriere che, sorridendo, hanno indicato ciascuno una loro terna.
Ho fatto una sola eccezione al riserbo che mi era imposto con un collega — che è anche un vecchio amico e col quale ho scritto un libro sulla fede — Michele Brambilla, ora a La Stampa ma formatosi in questo nostro quotidiano e buon conoscitore dei problemi religiosi. Chiedendogli di tenere per sé la cosa, sino a Conclave concluso, gli ho proposto scherzosamente di farmi da notaio e gli ho affidato un nome, uno soltanto: Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. L’amico collega mi ha telefonato anche ieri, sotto il diluvio di piazza San Pietro dove attendeva la fumata e mi ha ricordato quella previsione, chiedendomi se la confermavo: gli ho detto che mi sembrava di poterlo fare. Michele mi ha ricordato che Bergoglio non era tra coloro che la maggioranza dei colleghi dava come papabile: almeno in questo Conclave, mentre in quello che elesse Joseph Ratzinger pare sia stato colui che ebbe il maggior numero di voti dopo l’eletto. Ma otto anni sono passati, il cardinal Bergoglio ha ormai 76 anni, tutti attendevano un Papa nel pieno delle forze. Un limite che qualcuno aveva fissato sotto i 65 anni. Tra l’altro, sarebbe stato il primo gesuita a divenire Papa, dignità alla quale la Compagnia non ha mai mirato, secondo la raccomandazione del fondatore Ignazio. Eppure, insistetti su quella candidatura argentina.
Doti da indovino, confidenze del Paraclito, collegamenti occulti con le Sacre Stanze cardinalizie? Macché, non facciamola grossa, solo un poco di conoscenza della realtà della Chiesa attuale. Avevo infatti spiegato all’amico: «In Conclave, dove si conosce la condizione della Chiesa nel mondo intero, si potrebbe decidere per una scelta «geopolitica», come fu per Karol Wojtyla. Una scelta fortunata: non soltanto si ebbe uno dei migliori pontificati del secolo, ma si gettò nel panico la Nomenklatura dell’Unione Sovietica e di tutto l’Est che prevedeva guai, da un Papa polacco. Non sbagliava nello spaventarsi. In effetti, vennero Walesa, Solidarnosc, i cantieri Lenin di Danzica, gli scioperi operai che per la prima volta un regime comunista non osò reprimere nel sangue. Fu quella la crepa che, allargandosi, alla fine fece cadere tutti i muri dell’Impero. Ma nulla sarebbe stato possibile senza un Pontefice polacco, e di quale tempra e prestigio!, che sorvegliava e consigliava dal Vaticano». Ebbene, continuavo nel ragionamento, oggi una scelta geopolitica potrebbe rivolgersi in due direzioni: chiamare alla cattedra di Pietro il primo cinese nella storia che partecipi a un Conclave, l’arcivescovo di Hong Kong, John Tong Hon. Il panico, stavolta, non sarebbe a Mosca o a Varsavia ma a Pechino, nella capitale della superpotenza del futuro, dove il governo — non potendo estirpare i cattolici, coriacei alle persecuzioni — ha tentato di creare una Chiesa nazionale, staccata da Roma, nominando persino i vescovi. E i credenti fedeli al Papa sono ridotti alla clandestinità. Come continuare a tenerli nelle catacombe o nei lager, con uno dei loro divenuto Papa?
Ma la Chiesa non ha mai fretta, giudica secondo i tempi delle «lunghe durate», come dicono gli storici degli Annales, il turno della Cina verrà probabilmente in un prossimo Conclave allorché, come capita in tutti i regimi totalitari, il sistema comincerà il declino e sarà indebolito, pronto per il colpo di grazia. E in questo, di Conclave? In questo, pensavo, c’era spazio per un’altra scelta geopolitica e stavolta davvero urgente, anzi urgentissima, anche se in Europa non si conosce la serietà dell’evento. Succede, cioè, che la Chiesa romana sta per perdere quello che considerava il «Continente della speranza», il Continente cattolico per eccellenza nell’immaginario comune, quello grazie al quale lo spagnolo è la lingua più parlata nella Chiesa. Il Sudamerica, infatti, abbandona il cattolicesimo al ritmo di migliaia di uomini e donne ogni giorno. Ci sono cifre che tormentano gli episcopati di quelle terre: dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, l’America Latina ha perso quasi un quarto di fedeli. Dove vanno? Entrano nelle comunità, sette, chiesuole degli evangelicals, i pentecostali che, inviati e sostenuti da grandi finanziatori nordamericani, stanno realizzando il vecchio sogno del protestantesimo degli Usa: finirla, anche in quel Continente, con la superstizione «papista». Occorre dire che i grandi mezzi economici di cui quei missionari dispongono attirano i molti diseredati di quelle terre e li inducono a entrare in comunità dove tutti sono sorretti anche economicamente. Ma c’è pure il fatto che le teologie politiche dei decenni scorsi, predicate da preti e frati divenuti attivisti ideologici, hanno allontanato dal cattolicesimo quelle folle, desiderose di una religiosità viva, colorata, cantata, danzata. Ed è proprio in questa chiave che il pentecostalismo interpreta il cristianesimo e attira fiumane di transfughi dal cattolicesimo. Dunque, i padri del Conclave probabilmente avrebbero valutato l’urgenza di un intervento, secondo un programma proposto e gestito da Roma stessa, insediandovi come Papa uno di quel Continente. Ma l’emorragia riguarda soprattutto il Brasile e l’America delle Ande: perché, se Papa sudamericano doveva essere, perché un argentino, un arcivescovo di un Paese meno toccato dalla fuga verso le sette? Probabilmente ha giocato il fatto che il cardinal Bergoglio (a parte l’alta qualità dell’uomo, la preparazione teologica, l’esperienza) è al contempo iberoamericano ed europeo. La sua è una famiglia di immigrati recenti dall’astigiano, l’italiano è la sua seconda lingua materna: poiché per la Chiesa non sono urgenti solo i problemi di oltreatlantico ma anche quelli di un riordino energico della Curia, occorreva un uomo che sapesse fronteggiare certe situazioni vaticane. Insomma, non una predizione la mia, un semplice ragionamento. Molti altri ragionamenti saranno necessari, a cominciare dalla scelta del nome, Francesco, inedito nella storia del papato. Ma l’ora è tarda, il tempo stringe. Ci sarà tempo per riprendere il discorso.

ALDO CAZZULLO
ROMA — La Chiesa ha una storia millenaria, ma può essere rivoluzionata in cinque minuti: i cinque minuti tra le 20 e 22 e le 20 e 27 di ieri. Un Pontefice che tra cerimonieri increduli si affaccia dalla loggia senza la mozzetta rossa, simbolo del potere dei predecessori, con una croce semplice anziché quella dorata, che non si definisce mai Papa ma «vescovo di Roma», che prima di benedire i fedeli chiede a loro di pregare il Signore perché lo benedica, che si inchina alla folla anziché attendersi inchini. E poi il nome, mai sentito prima in piazza San Pietro, quasi una sfida al mondo vecchio: papa Francesco.
La folla ha capito. E gli ha subito voluto bene. Nel giro di un’ora, in un capogiro di emozioni collettive, è passata attraverso il giubilo per la fumata bianca, la tensione dell’attesa, la delusione nel non sentire il nome di un italiano, lo stupore per la scelta di Francesco, l’ammirazione per l’umiltà e insieme il coraggio del nuovo Pontefice. Che è figlio di un italiano, ha scelto il nome del patrono d’Italia, è stato salutato dall’inno di Mameli. Ma è nello stesso tempo molto di più: il primo Papa gesuita, il primo Papa a chiamarsi come il poverello di Assisi, il primo Papa sudamericano. Venuto «quasi dalla fine del mondo».
L’unico paragone possibile è con il 16 ottobre 1978. Anche allora a San Pietro pioveva ed era buio, quando fu annunciato il nome a quel tempo oscuro di Karol Wojtyla, che presto diradò lo sconcerto con parole ancora ricordate e si fece amare fin dalla prima sera. Allo stesso modo, Jorge Mario Bergoglio (Flores, 17 dicembre 1936) si è fatto riconoscere fin dai primi indimenticabili minuti del suo pontificato come l’uomo di Dio che a Buenos Aires non dorme nel palazzo episcopale ma in un piccolo appartamento, non gira sull’autoblù ma in autobus, non ha camerieri ma si prepara la cena da sé, non fa vita di mondo ma va a letto alle 9 e mezza e si sveglia alle 4 del mattino. Anche per questo ieri sera ha congedato i fedeli, come fossero amati parrocchiani, con un «buona notte e buon riposo». Prima però li ha incantati, con le parole e più ancora con i gesti, mai visti prima: non ha spalancato le braccia, è apparso anzi trattenuto; la sua solennità è stata essenziale, espressa in pochi passaggi, tutti senza precedenti.
Quasi cavandosi le parole una a una, ha pregato la folla di «farmi un favore», ha invocato la benedizione di Dio tramite l’intercessione popolare, e solo dopo ha benedetto a sua volta, senza intonare canti o litanie, con la massima semplicità. Prima ha chiesto di pregare «per il nostro vescovo emerito Benedetto XVI, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca», e ha recitato — in italiano — il Padre Nostro, l’Ave Maria e il Gloria. Ha definito anche se stesso sempre e solo «vescovo di Roma», mai Papa. Ha citato «il mio vicario qui presente», indicando il cardinale Agostino Vallini, che pareva sul punto di svenire dalla felicità. Per sé ha chiesto di pregare «in silenzio». E ha proposto di cominciare insieme «un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi».
Proprio questo voleva ascoltare la folla che al suono delle campane ha gremito la piazza, via della Conciliazione, i tetti del quartiere, premendo contro le postazioni affittate a prezzi folli dalle tv americane sul Gianicolo, arrampicandosi sulla base dell’obelisco, protendendosi in ogni modo verso il nuovo Papa. È di fratellanza, amore, fiducia che il mondo all’evidenza avverte la necessità, in una stagione di crisi globale e di disorientamento nel Paese che circonda il Vaticano. Anche per questo la fumata che pareva annunciare un Papa italiano è stata accolta con gioia, pure la Cei è caduta in errore diramando una nota per congratularsi con Scola, ma il Conclave aveva scelto invece il figlio di Mario Bergoglio, il ferroviere nato a Portacomaro, vicino ad Asti, ed emigrato a vent’anni verso «la fine del mondo». Suo figlio oltre allo spagnolo, all’inglese, al francese, al tedesco e al latino parla il dialetto piemontese e conosce a memoria «Rassa nostrana», il canto degli emigranti. Ma ieri sera è andato oltre le nazionalità, ha parlato il linguaggio universale dei simboli in cui tutti si sono riconosciuti, anche i filippini che speravano in Tagle, anche i venditori singalesi di ombrelli che sognavano Ranjith. Un linguaggio che ha sconcertato qualche curiale dal volto stupefatto, ma è piaciuto alla vecchia guardia wojtyliana che aveva sorrisi di riscatto, come quello visto a Giovanni Battista Re. Quasi tutti i cardinali però apparivano felici e sollevati, nell’affacciarsi alle logge dopo un giorno e mezzo di clausura, come per vedere se la folla apprezzava la sorpresa che le avevano fatto.
Sventolano tutte le bandiere della cristianità, i tricolori insieme con i vessilli brasiliani, americani, messicani, spagnoli, bavaresi, indiani, libanesi; molti i pellegrini dell’Est europeo, polacchi, croati, slovacchi. E poi le bandiere biancocelesti dell’Argentina, poche ma agitate con vigore dai connazionali che raccontano sul nuovo Papa un mare di aneddoti, compreso qualcuno che forse non sarà mai confermato: «Entrò in seminario a 22 anni dopo aver lasciato una fidanzata», «quando fu nominato cardinale disse a chi aveva prenotato il biglietto per Roma di restare a casa e dare i soldi ai poveri», «andò dal dittatore Videla a chiedere la liberazione di due confratelli»; e questo risulta anche alle madri di Plaza de Mayo, durissime con la gerarchia cattolica ma sempre rispettose verso Bergoglio.
Nelle prime parole — «evangelizzazione», «tutto il mondo» e ancora «fratellanza» e «amore» — c’è l’eco dell’omelia di Sodano, che nella messa per l’elezione del Pontefice aveva esaltato il ruolo universale della Chiesa e della sua carità. Ma, dopo aver evocato la patria lontana, il pensiero di Bergoglio è andato a Roma e alla «comunità diocesana»; del resto, a Buenos Aires era amico dei suoi preti, che avevano un numero dove chiamarlo anche di notte. Solo una volta si ingarbuglia con l’italiano, quando dice «facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me»; ma è una formula talmente inconsueta che forse non ci sono altre parole per dirlo. Poi un altro segno di umiltà: «Grazie tante per l’accoglienza. Pregate per me, e a presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Ci vediamo presto».
I fedeli non vedono l’ora di rivederlo, ed esplodono nel grido di «viva il Papa!». Poi lasciano la piazza lentamente, molti con le foto dei predecessori sotto il braccio, ognuno con il Papa della sua generazione: gli anziani con papa Giovanni, gli adulti con Paolo VI, i giovani con Giovanni Paolo II, i ragazzi con Benedetto XVI, che da Castelgandolfo ha assistito all’elezione dell’uomo che otto anni fa in conclave gli cedette il passo. In molti si chiedono incuriositi quali saranno le prossime mosse di Francesco. Il giovedì santo, Bergoglio non ha mai celebrato la lavanda dei piedi in cattedrale ma ogni anno in un posto diverso: nell’ospedale Muñiz per malati di Aids, nel carcere di Devoto, in un ricovero per senzatetto, in un ospedale pediatrico. Una volta lavò i piedini dei neonati di un reparto maternità. Chissà cosa farà ora nella settimana santa, si chiedono i fedeli che rientrano a casa, senza più badare alla pioggia, ai clacson degli automobilisti anche loro in festa, al Tevere gonfio e impetuoso; tanto per oggi è previsto il sole. Non lo dicono, ma tutti già sentono che sarà chiamato a dure prove e dovrà affrontare grandi ostacoli; ma sarà un Papa straordinario.
Aldo Cazzullo

GIAN GUIDO VECCHI
CITTÀ DEL VATICANO — Curet primo Deum, anzitutto curati di Dio. Bisogna partire dalla Formula di Sant’Ignazio di Loyola, la regola del fondatore della Compagnia di Gesù, per capire la semplicità di Francesco, il primo gesuita vestito di bianco della storia. L’austerità di Jorge Mario Bergoglio, 76 anni, è leggendaria. A Buenos Aires gira in autobus, non vive nell’episcopato ma in un piccolo appartamento, raccontano si prepari la cena da sé e del resto la sera mangia poco o niente, un tè, della frutta. Quando Giovanni Paolo II lo creò cardinale, 21 febbraio 2001 (nello stemma aveva il cristogramma IHS, per il greco Iesous, dei gesuiti), si dice che i fedeli avessero preparato una colletta per fare festa ed accompagnare il suo viaggio a Roma: ma lui chiese loro di restare in Argentina e dare i soldi raccolti ai poveri, a Roma festeggiò quasi da solo. Il suo motto episcopale era miserando atque eligendo, scusando e scegliendo. Nelle biografie preparate dai cardinali per la sala stampa della Santa Sede la sua è tra le più corte, una mezza pagina.
Bergoglio è solido nella dottrina e insieme riformatore, molto attento alle questioni sociali. «In questa città la schiavitù non è abolita, è all’ordine del giorno sotto diverse forme», sillabava poco tempo fa denunciando lo sfruttamento dei lavoratori nelle officine clandestine, il rapimento di donne e bambine per avviarle alla prostituzione. E poi la povertà, il debito sociale: «Per coloro che hanno abbastanza i più poveri non contano, c’è una immorale, ingiusta e illegittima violazione al diritto di sviluppare una vita piena».
Sarà anche che suo padre faceva il ferroviere: si chiamava Mario come lui ed era un piemontese di Portacomaro, in provincia di Asti, emigrato a vent’anni in Argentina per sbarcare il lunario. Lui, Jorge Mario, è nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, da ragazzo fece le pulizie in fabbrica e si diplomò come perito chimico prima di entrare, a 21 anni, nella Compagnia. Studi umanistici, laurea in Filosofia e poi in teologia, una tesi dottorale in Germania. A 37 anni era già «provinciale» e quindi superiore dei gesuiti in Argentina. Durante la dittatura militare si mosse sottotraccia per salvare sacerdoti e cittadini dai torturatori ed è molto rispettato dalle madri di Plaza de Mayo, che non hanno certo risparmiato condanne alle connivenze della gerarchia cattolica.
Ora passerà alla storia anche per essere il primo Papa latinoamericano. È appassionato di tango, ma le origini italiane e piemontesi restano. Francesco si ricorda ancora il dialetto astigiano e conosce Rassa nostrana, «libera e testarda», il canto degli immigrati. Del resto oltre allo spagnolo e all’italiano parla inglese, francese, tedesco. Coltissimo e umile, parla duro se necessario, come quando pochi mesi fa, a novembre, deplorò il fariseismo di alcuni preti della sua diocesi: «Lo dico con dolore, se suona come una denuncia o un’offesa perdonatemi: nella nostra regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano i bambini delle madri non sposate perché non sono stati concepiti nella santità del matrimonio». Contro tale «sequestro» dei sacramenti, contro gli ipocriti che «allontanano il popolo di Dio dalla salvezza» («magari una ragazza che non ha voluto abortire si trova a pellegrinare di parrocchia in parrocchia, chiedendo che qualcuno le battezzi il bimbo») le parole di quell’omelia suonano oggi fondamentali dopo un Conclave che ha avuto al centro la nuova evangelizzazione: «Gesù non fece proselitismo: lui accompagnò. E le conversioni che provocava avvenivano precisamente per questa sua sollecitudine a accompagnare che ci rende fratelli, che ci rende figli, e non soci di una Ong o proseliti di una multinazionale».
L’essenziale sta nella spiritualità ignaziana. Ieri i gesuiti erano così commossi da faticare a parlare, «è un Papa latinoamericano, anzitutto, e sono colpito dal nome, Francesco, scelto per la prima volta con un coraggio notevole, molto espressivo di uno stile di semplicità e di testimonianza evangelica», diceva con la voce incrinata («sono sotto choc, non riesco ad aggiungere altro») padre Federico Lombardi. Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, è emozionato come un bimbo: «Per il Santo Padre il voto di povertà è molto importante, del resto Ignazio ci teneva molto e Francesco e Domenico sono stati i suoi modelli ispiratori...». Ma non c’è solo questo. L’immagine di ieri sera è il Papa che si inchina davanti ai fedeli in piazza, a ricevere la preghiera. Che si definisce anzitutto «vescovo» e si rivolge al «popolo» accorso in piazza, poiché il pontefice è tale in quanto vescovo di Roma: «Adesso vorrei dare la benedizione ma vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica...». A 21 anni, per una polmonite, gli asportarono la parte superiore del polmone destro, ma è un uomo forte. E la spiritualità di Francesco promette molto in tema di riforma della Chiesa: «Bergoglio è una persona dolce ma ferma, un uomo che ha le idee molto chiare e le pone in maniera assolutamente evangelica, e il suo stile di vita rivela questo tratto», sorride padre Spadaro. «Non si imporrà con gesti forti, credo che lo scopriremo pian piano...».
Gian Guido Vecchi

ARMANDO TORNO
Un pontefice che ha deciso di chiamarsi Francesco non lascia indifferenti. Non è mai accaduto nella storia del papato. E questa scelta, significativamente, si deve a un gesuita. Anzi, al successore di Pietro che per la prima volta viene dalla Compagnia di Gesù.
I pontefici cattolici hanno cominciato a cambiare il loro nome da Giovanni II (fu Papa tra il 533 e il 535), che al secolo si chiamava Mercurio. Era romano e in là negli anni, prete di San Clemente: decise di mutare il proprio appellativo perché quello di nascita avrebbe ricordato un dio pagano. Giovanni I era considerato martire e, inoltre, rimandava a uno degli apostoli più amati. Da allora si può dire che il nuovo nome assume un forte significato. Per fare un esempio, i «Pio» dell’Otto Novecento si devono al ricordo delle ristrettezze (o «persecuzioni», secondo la stampa cattolica di allora) che Napoleone inflisse a Pio VI e Pio VII e i Savoia a Pio IX.
Il Dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani ricorda che Francesco deriva da «Francho», ovvero è il «nome di un popolo germanico che invase la Gallia». Per noi rimanda, al di là delle possibili radici, a Francesco d’Assisi, il santo che significa da secoli rinnovamento della Chiesa attraverso un’adesione totale al Vangelo e una scelta di povertà. È un nome medievale, o almeno diventò di uso in quel periodo. Perché nessun pontefice romano lo ha adottato? Rimandava troppo al pauperismo per una istituzione che non avrebbe potuto spogliarsi di ogni cosa come fece il «poverello d’Assisi»? Non è semplice rispondere; comunque dobbiamo ammettere che nella storia del papato non sono mancati dei successori di Pietro francescani, ma mai hanno scelto di testimoniare — almeno con il nome — il loro fondatore. Per diverse ragioni: a volte di natura politica, altre per non suscitare reazioni nella curia. L’accento sul distacco dai beni, non va dimenticato, in molti periodi medioevali era anche il punto di partenza per rifiutare l’autorità romana da parte degli ordini pauperistici e fu sovente confuso con l’odore di eresia. E questo anche se Francesco, recandosi da Innocenzo III nel 1209 per ottenere l’autorizzazione della Regola, desiderava essere obbediente, anzi considerava la Chiesa «madre».
Ci sono stati nella storia quattro pontefici francescani. Il primo fu Niccolò IV (dal 1288 al 1292): fu eletto dopo una moria di cardinali a causa dell’intensa calura. Seguì Sisto IV (dal 1471 al 1484): professore di teologia in prestigiose università, austero nella vita privata, non ebbe molti scrupoli nella scelta dei mezzi. Un terzo francescano è Sisto V (dal 1585 al 1590): di origine contadina, uomo autoritario, diede una solida organizzazione all’amministrazione centrale della Chiesa. Clemente XIV (dal 1769 al 1774) è l’ultimo pontefice che viene dai seguaci di Francesco. Fu lui ad abolire la Compagnia di Gesù «per la pace della Chiesa» con il decreto del luglio 1773 Dominus ac Redemptor (non accettato da Caterina II di Russia, che permise ai gesuiti di formare nuovi allievi nelle sue terre). Un pontefice, tra l’altro, che non brilla. L’Oxford Dictionary of Popes scrive semplicemente: «Il papato sotto di lui perse molto prestigio».
Parrà strano che proprio un gesuita adotti il nome di Francesco. Ma per Jorge Mario Bergoglio questa è forse una scelta carica di significati. Innanzitutto ha inviato un segnale al mondo: la povertà testimoniata dal santo di Assisi ritorna all’attenzione della Chiesa, dopo scandali e altro che non è il caso di ricordare. Inoltre Francesco significa dialogo. Non soltanto con le popolazioni che pagano il prezzo più alto all’economia egoista della globalizzazione, ma anche con le diverse religioni. Il rabbino Giuseppe Laras ieri sera, dopo l’elezione di Francesco, ha diffuso un comunicato nel quale, tra l’altro, faceva seguire agli auguri per il nuovo pontefice una frase: «Le difficili e tormentate vicende del nostro tempo richiedono guide dalla fede salda e sicura e animate da sentimenti di intensa e profonda umanità». E chi meglio di Francesco può aiutare a tradurre in realtà queste parole?
Armando Torno

PAOLO CONTI
«Ad maiorem Dei gloriam», per la maggior gloria di Dio, e il servizio del prossimo. È tutto qui, nella sua scarna e profonda semplicità, il motto della Compagnia di Gesù: ed è anche il fine che si prefigge. Gli strumenti sono indicati nei quattro voti che vincolano i Padri: povertà, obbedienza, castità e speciale obbedienza al Papa. Un’obbedienza, al pontefice e comunque ai superiori, che dev’essere «perinde ac cadaver», come un cadavere, come un corpo senza vita. Non poteva essere diversamente per la Societas Jesu, la Compagnia di Gesù, fondata da un ex soldato di nobile famiglia basca, sant’Ignazio di Loyola, che ritrovò la fede dopo essere rimasto ferito durante la battaglia di Pamplona nel 1521. Tempo dopo, guardando alla sua gioventù, disse di sé: «Fui uomo dedito alle vanità del mondo, e il cui piacere maggiore era quello di esercizi marziali, con un grande e vano desiderio di acquistarsi celebrità». Dunque una struttura di tipo quasi militare (obbedienza assoluta), una missione chiara (la maggior gloria di Dio), una totale noncuranza per i successi mondani («vano desiderio»).
Ignazio impiega non poco a far approvare la Regola dal pontefice (la Compagnia viene fondata nel 1534 e solo nel 1550 Giulio III emette la bolla «Exposcit debitum»). Ma immediatamente dopo la crescita degli adepti è esponenziale grazie a una vocazione missionaria e insieme pedagogico-culturale. San Francesco Saverio parte per le Indie e il Giappone ed apre a mondi lontani. Lo spinge il motto «per la maggior gloria di Dio». Lo stesso motore porta i membri della Compagnia ad approfondire studi umanistici e scientifici per riversarli nelle scuole e nei collegi che lentamente aprono in Europa e nel mondo conosciuto seguendo il Paradigma Pedagogico Ignaziano. Il frutto principale è il prestigiosissimo Collegio Romano, che per secoli istruisce i figli delle famiglie nobili della Roma papale. Da questa attitudine all’insegnamento e alla diffusione del sapere e dalla profonda cultura multidisciplinare dei suoi membri (scienziati, linguisti, astronomi, matematici, medici, teologi) nasce l’immagine della Compagnia come luogo di potere occulto, quindi solido e autentico. I gesuiti educano i rampolli dei regnanti cattolici, sono apprezzati confessori di personaggi illustri e contemporaneamente fondano missioni avanguardistiche (le «riduzioni») in Sudamerica. Il Preposito generale della Compagnia viene considerato così potente da essere chiamato «Papa Nero». Tanto contropotere fatalmente confligge col papato stesso: Clemente XIV scioglie la Compagnia nel 1773. E i gesuiti, fedeli all’obbedienza assoluta, accettano senza opporsi. Ma cinquant’anni dopo rinascono grazie a Pio VII e riprendono in Europa e nel mondo il loro ruolo. Molti i santi famosi, da Roberto Bellarmino a Luigi Gonzaga. Numerosi, in Italia, gli ex alunni famosi e spesso citati: da Mario Draghi a Mario Monti, da Luca di Montezemolo a Giuseppe De Rita. Gesuita era anche il cardinale Carlo Maria Martini, che nel 2005 sarebbe stato un sicuro papabile se non fosse stato consciamente malato.
Ora sono numericamente assai ridotti (21.000) rispetto agli anni Sessanta, quando erano addirittura 36.000, ma continuano a perseguire i loro compiti educativi (13 università solo in America Latina, ed è appena un esempio) e culturali, come testimonia il peso che tuttora ha la storica rivista «Civiltà cattolica». Con l’elezione di papa Francesco, c’è da scommetterci, ora le vocazioni torneranno a crescere.
Paolo Conti

GIAN ANTONIO STELLA
A RMONIA «Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo "ipse harmonia est", lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
BATTESIMO «Il bambino non ha alcuna responsabilità dello stato del matrimonio dei suoi genitori. E poi, spesso il battesimo dei bambini diventa anche per i genitori un nuovo inizio. Di solito si fa una piccola catechesi prima del battesimo, di un’ora circa; poi una catechesi mistagogica durante la liturgia. In seguito, i sacerdoti e i laici vanno a fare le visite a queste famiglie, per continuare con loro la pastorale postbattesimale. E spesso capita che i genitori, che non erano sposati in chiesa, magari chiedono di venire davanti all’altare per celebrare il sacramento del matrimonio». (Intervista a 30 giorni, 2009, al giornalista che chiedeva se erano giustificabili in alcuni casi di battesimi rifiutati bambini figli di genitori «irregolari»)
CERTEZZE «Le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal chiuso mondo delle loro Tarsis si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
DEBITO «Siamo stati molto chiari nel sostenere che la politica economica del governo non faceva altro che aumentare il debito sociale argentino, molto più grande e molto più grave del debito estero e abbiamo chiesto un cambiamento». (a Francesca Ambrogetti, La Stampa, 31 dicembre 2001)
DESAPARECIDOS «Poiché in diversi momenti della nostra storia siamo stati indulgenti verso le posizioni totalitarie, violando le libertà democratiche che scaturiscono dalla dignità umana. Poiché attraverso azioni od omissioni abbiamo discriminato molti dei nostri fratelli, senza impegnarci sufficientemente nella difesa dei loro diritti. Supplichiamo Dio, Signore della storia, che accetti il nostro pentimento e sani le ferite del nostro popolo. O Padre, abbiamo il dovere di ricordare davanti a te quelle azioni drammatiche e crudeli. Ti chiediamo perdono per il silenzio dei responsabili e per la partecipazione effettiva di molti dei tuoi figli in tale scontro politico, nella violenza contro le libertà, nella tortura e nella delazione, nella persecuzione politica e nell’intransigenza ideologica, negli scontri e nelle guerre, nella morte assurda che ha insanguinato il nostro paese. Padre buono e pieno di amore, perdonaci e concedi a noi la grazia di rifondare i vincoli sociali e di sanare le ferite ancora aperte nella tua comunità». (Richiesta di perdono dei vescovi argentini, tra i quali lo stesso Bergoglio aveva una posizione di spicco, 10 settembre del 2000)
EPIGRAFE «Come si definirebbe?» «Jorge Bergoglio, prete». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
ESPOSA «La mia diocesi di Buenos Aires». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
FIDANZATA «Sì, era del gruppo di amici con i quali andavamo a ballare. Poi ho scoperto la vocazione religiosa». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
FILM «Il mio film preferito? Il pranzo di Babette». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
FIGLI «Qualche giorno fa ho battezzato sette figli di una donna sola, una vedova povera, che fa la donna di servizio e li aveva avuti da due uomini differenti. Lei l’avevo incontrata l’anno scorso alla festa di San Cayetano. Mi aveva detto: padre, sono in peccato mortale, ho sette figli e non li ho mai fatti battezzare. Era successo perché non aveva i soldi per far venire i padrini da lontano, o per pagare la festa, perché doveva sempre lavorare… Le ho proposto di vederci, per parlare di questa cosa. Ci siamo sentiti per telefono, è venuta a trovarmi, mi diceva che non riusciva mai a trovare tutti i padrini e a radunarli insieme… Alla fine le ho detto: facciamo tutto con due padrini soli, in rappresentanza degli altri. Sono venuti tutti qui e dopo una piccola catechesi li ho battezzati nella cappella dell’arcivescovado. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un piccolo rinfresco. Una Coca Cola e dei panini. Lei mi ha detto: padre, non posso crederlo, lei mi fa sentire importante… Le ho risposto: ma signora, che c’entro io?, è Gesù che a lei la fa importante». (Intervista a 30 giorni, 2009)
GARAGE «Ai miei sacerdoti ho detto: "Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta". I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: "Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un pò con quella gente, faccia un pò di catechesi e dia pure la comunione se glielo chiedono". Un parroco mi ha detto: "Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa". "Ma perché?", gli ho chiesto, "Adesso vengono a messa?" "No", ha risposto. E allora! Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
GIONA «Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il Suo perdono e nutrirli con la Sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis. Quello da cui fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio l’amore senza misura di Dio per quegli uomini». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
HÖLDERLIN «Amo le sue poesie». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, nel libro-intervista El Jesuita, 2010)
ITALIA «Mio padre era di Portacomaro (Asti, ndr) e mia madre di Buenos Aires, con sangue piemontese e genovese». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
LAICI «La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati… È proprio una complicità peccatrice. E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. Quando tornarono i missionari li ritrovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la Chiesa e tutti i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solamente il battesimo e avevano vissuto anche la loro missione apostolica in virtù del solo battesimo. Non si deve aver paura di dipendere solo dalla Sua tenerezza…». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
LEBBRA «La cosa peggiore che può accadere nella Chiesa? È quella che Henri De Lubac chiama "mondanità spirituale". È il pericolo più grande per la Chiesa, per noi, che siamo nella Chiesa. "È peggiore", dice De Lubac, "più disastrosa di quella lebbra infame che aveva sfigurato la Sposa diletta al tempo dei papi libertini". La mondanità spirituale è mettere al centro sé stessi. È quello che Gesù vede in atto tra i farisei: " Voi che vi date gloria. Che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri"». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
MICRO «Per contrastare l’effetto della globalizzazione che ha portato alla chiusura di tante fabbriche e la conseguente miseria e disoccupazione, bisogna promuovere anche una crescita economica dal basso verso l’alto, con la creazione di micro, piccole e medie imprese. Gli aiuti che possono venire dall’estero non devono essere solo di fondi ma tendere a rafforzare la cultura del lavoro della cultura politica». (a Francesca Ambrogetti, La Stampa, 31 dicembre 2001)
NAVICELLA «I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di navicella a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela, per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la Sua spinta, senza la Sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero di Dio e ci salva dal pericolo d’una Chiesa gnostica e dal pericolo di una Chiesa autoreferenziale, portandoci alla missione». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
OMOSESSUALI «Non ricorrendo contro la decisione del giudice nel contenzioso amministrativo sul matrimonio di persone dello stesso sesso, ha mancato gravemente al suo dovere di governante e di custode della legge». (Comunicato ufficiale del 26 novembre del 2009 contro il governatore di Buenos Aires Mauricio Macri, reo di non avere fatto ricorso contro la sentenza sul matrimonio gay)
PARANOIA «A una chiesa autoreferenziale succede quel che succede a una persona rinchiusa in sé: si atrofizza fisicamente e mentalmente. Diventa paranoica, autistica». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
POSTO «"Vi faccio una domanda: la Chiesa è un posto aperto solo per i buoni?" "Nooo!" "C’è posto per i cattivi, anche?" "Sìììì!!!". "Qui si caccia via qualcuno perché è cattivo? No, al contrario, lo si accoglie con più affetto. E chi ce l’ha insegnato? Ce lo ha insegnato Gesù. Immaginate, dunque, come è paziente il cuore di Dio con ognuno di noi"». (Dialogo tra Bergoglio e la folla di fedeli alla festa di san Cayetano, in un barrio popolare di Buenos Aires, 30 giorni, agosto 2008, durante la festa)
QUADRO «Il mio quadro preferito? La Crocefissione Bianca di Chagall». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
RASSA NOSTRANA «Drit e sincer, cosa ch’a sun, a smijo: / teste quadre, puls ferm e fìdic san / a parlo poc ma a san cosa ch’a diso / bele ch’a marcio adasi, a van luntan. /
Sarajé, müradur e sternighin, / minör e campagnin, sarun e fré: / s’a-j pias gargarisé quaic buta ed vin, / j’é gnün ch’a-j bagna el nas per travajé. / Gent ch’a mercanda nen temp e südur: / - rassa nostrana libera e testarda - / tüt el mund a cunoss ch’i ch’a sun lur / e, quand ch’a passo … tüt el mund a-j guarda…». («Razza nostrana», poesia in dialetto piemontese di Nino Costa che il nuovo papa si picca di saper recitare a memoria, in omaggio ai genitori di origine piemontese)
SIGNORE «Il Manzoni diceva: "Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato miracolo senza finirlo bene"». (a Francesca Ambrogetti, La Stampa, 31 dicembre 2001)
TANGO «Mi piace molto il tango e da giovane lo ballavo». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)
TRADIZIONALISTI «Paradossalmente (…) proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele». (intervista a Stefania Falasca di 30 giorni, fine 2007)
VERITÀ «La verità è che sono un peccatore che la misericordia di Dio ha amato in una maniera privilegiata… Errori ne ho commessi a non finire. Errori e peccati». (a Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, autori del libro-intervista El Jesuita, del 2010)

COME È ANDATO IL CONCLAVE
CITTÀ DEL VATICANO — È come se Joseph Ratzinger avesse calcolato e previsto tutto, sin dall’inizio. L’ultima svolta nella storia, una sequenza iniziata l’11 febbraio con la «rinuncia» dichiarata da Benedetto XVI, è un gesuita vestito di bianco, il primo dalla fondazione della Compagnia, che si affaccia dalla loggia di San Pietro: lo stesso confratello cardinale che fu l’antagonista «progressista» di Ratzinger nel conclave del 2005 e poi, fermo a una quarantina di voti, scelse con Carlo Maria Martini di dirottare il sostegno su colui che sarebbe diventato Benedetto XVI.
I cardinali nella Sistina si sono sciolti in un applauso quando Bergoglio ha superato i 77 voti, ha raccontato ieri sera Timothy Dolan, e il Papa ha sorriso: «Che Dio vi perdoni!». L’elezione di Francesco è anzitutto una sorpresa che nasce dalla necessità di trovare una soluzione condivisa tra i 115 elettori. Una necessità spirituale e tecnica: Ratzinger aveva voluto che il quorum di elezione restasse sempre di due terzi — anche all’eventuale ballottaggio dopo undici giorni — perché la Chiesa non si può spaccare, tantomeno sul Papa. E una sorpresa generale che ha colto alla sprovvista pure la Cei: per portarsi avanti, aveva già preparato un comunicato che esprimeva «la gioia e la riconoscenza dell’episcopato e dell’intera Chiesa italiana» per l’«elezione del Card. Angelo Scola a Successore di Pietro», un testo inviato per sbaglio pochi minuti dopo l’elezione e poi prontamente corretto col nome giusto.
La piccola gaffe è rivelatrice, perché tutti si aspettavano Scola, o il canadese Marc Ouellet, o uno statunitense, o il brasiliano Scherer. Soprattutto gli arcivescovi di Milano e di San Paolo partivano in vantaggio, nelle preferenze «potenziali» prima dell’ingresso nella Sistina. Ma un conclave sfugge alle logiche degli schieramenti, non è un congresso politico, gli scrutini si accompagnano alle preghiere e si vota davanti al Cristo del Giudizio universale di Michelangelo. L’unica cosa chiara, fin da prima della Sede vacante, era la spinta crescente fra i cardinali a guardare «oltre l’Europa» e «oltre Oceano», verso il continente che raccoglie la metà dei fedeli del pianeta. Così il confronto principale si annunciava quello tra l’europeo Scola e un «candidato americano», Scherer in testa.
Solo che la regola del conclave, oltre al suo spirito, rende impossibile che un nome possa essere imposto anche da una solida maggioranza relativa. Occorrevano almeno 77 voti per eleggere il Papa e questo rendeva più facile «bloccare» un papabile. Scherer doveva fronteggiare i malumori di chi lo etichettava come «curiale» per il sostegno dei cardinali di estrazione diplomatica. Scola scontava la sua estrazione ciellina («è come avere due peccati originali») che gli attirava il sospetto, anzitutto, di molti italiani. Un candidato può partire bene e crescere, ma se dopo due o tre scrutini resta allo stesso punto si passa a un altro, le alternative sono già meditate.
Così si può immaginare che nel blocco reciproco dei favoriti, dopo il terzo scrutinio di ieri mattina, i cardinali a pranzo abbiano pensato a un’alternativa da tentare nel quarto scrutinio del pomeriggio. Ha prevalso la volontà di avere il primo Papa latinoamericano. Ma soprattutto ha prevalso una soluzione che, in termini laici, si potrebbe definire geniale (un credente parlerebbe dello Spirito Santo). Jorge Mario Bergoglio, con il cardinale Martini già affetto dal Parkinson («La Chiesa non ha bisogno di un altro Papa malato, aveva detto»), nel conclave del 2005 radunò su di sé i voti dei «progressisti» che si opponevano al «conservatore» Ratzinger. Ma in questo conclave la già logora distinzione tra conservatori e progressisti è saltata: e c’erano cardinali «martiniani» che argomentavano preoccupati sulla necessità di proseguire l’impulso riformista voluto da Ratzinger e affidato dal Papa dimissionario a un successore che avesse più «vigore» di lui, e al quale ha già promesso «reverenza e obbedienza». A fronteggiarsi, piuttosto, erano la linea «raztingeriana» e quella di chi, in fondo, non l’aveva mai condivisa. Bisognava ripartire, dopo i troppi veleni degli ultimi anni. La Chiesa doveva ritrovare la sua unità. La candidatura di Bergoglio e la prima affermazione forte al quarto scrutinio, l’elezione di Francesco al quinto: alla fine il cerchio si è chiuso. Quasi il Papa emerito, in nome di una riforma condivisa, avesse passato il suo testimone al suo vecchio e stimato antagonista.
Gian Guido Vecchi

ALBERTO MELLONI
Per parlare di papa Giovanni, Hannah Arendt inventò per il New Yorker uno di quei titoli taglienti e indimenticabili: «Un cristiano sul trono di Pietro». Non per denigrare gli altri: ma perché i titoli che si applicavano al Pontefice anche dopo che questo era stato liberato dal potere temporale, finivano per lasciare l’essere cristiano in fondo o fuori dalla lista delle qualità papali. Chi ha più di cinquant’anni e prese la famosa carezza ai bambini poteva guardare alla sua vita come a una vita benedetta, perché aveva già visto in vita sua «un cristiano sul trono di Pietro». E mai avrebbe immaginato che anche ai suoi figli sarebbe stato concesso lo stesso dono, di vedere «un cristiano sul trono di Pietro», col nome impegnativo di Francesco. Perché quello che si è presentato ieri dalla loggia delle benedizioni, primo da sempre affacciatosi a chiedere prima di tutto una benedizione, è un gesuita, un argentino, un vescovo, un cardinale. Ma, più di tutto è un vescovo, un vescovo cristiano sul trono di Pietro.
Ieri mattina Sodano in San Pietro ha fatto un ritratto e i cardinali lo hanno trovato con rapidità raffigurato in papa Francesco. Ancora una volta quel vecchio arnese medievale che è il Conclave ha funzionato bene: ha fatto emergere istanze e nomi, ha lasciato decantare le promesse di voto, e poi, nel segreto della Sistina ha permesso una sintesi alla quale devono aver dato un contributo più d’uno dei papabili (Scola, Scherer, Ouellet), più d’uno dei grandi diplomatici esperti dell’agenda del mondo (Bertello, Filoni, Re, Bertone), e non di meno quella parte di collegio che restava fuori dalla somma dei voti dei papabili e che evidentemente un’idea ce l’aveva, forte della forza della dolcezza.
Francesco s’è presentato con una semplicità sapiente: solo a una lettura superficiale può sfuggire che il nuovo Papa, come vescovo della chiesa di Roma, ha citato Ignazio d’Antiochia, e con un gesto di enorme credibilità ecumenica ha detto che si farà «aiutare» dal suo vicario, ma non rinuncerà al suo ministero episcopale. In pochi minuti carichi di commozione s’è insediato come maestro della preghiera e per prima cosa, a una assemblea e alla selva dei media che attendeva parole «programmatiche», ha fatto dire le preghiere. Ha chiamato i cardinali fratelli e non signori. Perfino nel suo abbigliamento e nella croce pettorale indossata sulla talare bianca ha dato il segno che, cinquant’anni dopo la profezia della Chiesa dei poveri e la scelta della medicina della misericordia, sono ancora quelli i rimedi dei mali che un Papa «manager» avrebbe solo diagnosticato ma non curato. Francesco è apparso subito come un Papa che non ha paura di presentarsi con dolcezza, di essere un cristiano insieme (anche questa è una parola che la loggia non aveva mai sentito in cinquecento anni) al suo «popolo», il popolo di Dio.
La rinunzia di Benedetto XVI ha solo scoperchiato il disgusto per il pandemonio che aveva travolto il centro del potere romano in questi anni. Ha messo la Chiesa davanti ad un grande dilemma: perdere o riguadagnare tutta la sua credibilità. Per perderla il collegio poteva paralizzarsi nei veti e tentare le mediazioni di cui la stampa è stata il sismografo in queste settimane. Per riguadagnarla i cardinali potevano tentare una sorpresa unicamente spettacolare: e invece non hanno avuto paura di fare un passo di santa audacia, di andare oltre ogni attesa e ogni calcolo.
I vociferati papabili — ai quali va reso il merito di aver «ceduto» i voti che servivano per fare un Papa di questa statura — erano ciascuno portatore di una soluzione per un «settore»: uno poteva risanare la Curia, uno rassicurarla; uno era adatto a continuare lo stile Ratzinger, l’altro a correggerlo; uno sembrava gradito ai media, l’altro ai dotti. E poi (già ieri mattina? nel pomeriggio?) il Conclave ha cercato e trovato una soluzione globale, che è la premessa di una collegialità effettiva e non solo affettiva di cui un uomo con una grande esperienza di presidente della conferenza episcopale è già esperto. Bergoglio ha risposto alla scelta scegliendo un nome dolce, che vale più di un programma, Francesco. Il nome dell’uomo che pur sapendo che esiste e non può che esistere la «forma della Chiesa romana», sa che esiste anche la «forma del santo Vangelo» e senza uscire mai da questa forma ammaccata e dalla sua pesantezza istituzionale, vive di quella sete spirituale: e la semina nella storia, come un seme che germoglia ora, in questa Quaresima che vede un cristiano vescovo di Roma, consapevole del peso di questo ruolo davanti al mondo: e che in quella luce di fede vedrà le magagne e le speranze di una Chiesa che ieri sera ha ripreso il largo.

LA REPUBBLICA
PAOLO RODARI
CITTÀ DEL VATICANO
HA PERSO il «partito romano » e hanno perso i curiali.
Hanno vinto i cosiddetti riformatori e con loro gran parte degli extra europei, americani in testa. L’attacco durissmo mosso durante le Congregazioni generali da molti cardinali contro la «corruzione » romana, la curia vaticana che puntava sul brasiliano membro della Commissione cardinalizia dello Ior, Odilo Scherer, si è riverberato in modo drammatico durante un Conclave durato in tutto venticinque ore e mezzo e che ha visto gradualmente i sudamericani e gli statunitensi puntare su una figura aliena a Roma, spirituale, il Vangelo del popolo e della terra dell’arcivescovo di Buenos Aires.
INSIEME un gesuita, e dunque un uomo formato al comando: sant’Ignazio, fondatore dei gesuiti, era un militare oltre che un uomo di grande spiritualità e di spirito ascetico.
Nel 2005 Bergoglio prese prima dieci, poi trentacinque, poi quaranta e infine ventisei voti. E cedette il passo a Ratzinger. Questa volta la sensazione è che sia stato un crescendo graduale e che l’arcivescovo argentino sia stato eletto dopo che al terzo scrutinio Angelo Scola ha indirizzato i suoi voti verso di lui. Fra gli americani da subito ha creduto in lui l’arcivescovo di Washington, il cardinale Donald Wuerl. Gli altri sono andati prima su Timothy Dolan, arcivescovo di New York, poi su Marc Ouellet, prefetto dei Vescovi e poi in scia ai sudamericani su Bergoglio. Un’elezione che è una vittoria per i latinoamericani, mai così forti e uniti nonostante nessuno credesse in loro. Uniti anche in favore di un cardinale che in passato ha subìto attacchi da giri curiali legati alla cultura del dossieraggio. C’era chi lo dipingeva a Roma come un porporato «legato agli aspetti meno ortodossi della teologia della liberazione », quando invece egli era l’opposto. E i riformatori hanno voluto riconoscerglielo perché, dicono fonti vaticane, per loro Bergoglio è come l’eroe del film Mission del 1986 diretto da Roland Joffé, che si fa uccidere per gli ultimi e non cede di fronte alle prepotenze delle gerarchie. Il Conclave riconosce che è questa la Chiesa e non quella del potere della curia.
A perdere non è soltanto la curia romana del decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano e del camerlengo Tarcisio Bertone, segretario di Stato di Benedetto XVI. A uscire sconfitti sono anche i cardinali italiani in generale. Scola, seppure anti-curiale, è stato di fatto ritenuto troppo vicino a Roma per garantirsi l’elezione. Troppo sicuri di sé gli italiani, troppo sicura delle proprie possibilità la Conferenza episcopale italiana che nel porgere gli auguri al nuovo Pontefice saluta, con una gaffe abbastanza clamorosa, con «gioia e riconoscenza il cardinale Angelo Scola a successore di Pietro». Scola entrava favorito, ma è uscito cardinale. Scola per la Cei aveva già vinto e invece non è andata così. Scola ha pagato il fatto che italiani sono stati in questi sette anni e mezzo i collaboratori di Be-
nedetto XVI, una governance romana che ha mostrato pecche gravi e ha portato Benedetto XVI fino alla rinuncia. Certo, ora la strada è quella dell’unità oltre le divisioni. Lo dice a chiare lettere anche Dolan: «Francesco I come successore di Pietro, il nostro primo Papa rappresenta una figura di unità per tutti i cattolici, ovunque essi si trovino. I vescovi degli Stati Uniti e i fedeli delle nostre 195 diocesi pregano per il nostro nuovo leader e gli promettono lealtà».
Erano cresciuti nelle ultime ore anche Marc Ouellet, franco canadese prefetto dei vescovi e Peter Erdo primate d’Ungheria. Ma entrambi sono stati visti da troppi come
un compromesso al ribasso in favore di una tregua coi curiali che poco avrebbe cambiato le sorti della Chiesa. C’era bisogno di aria nuova e alla fine anche gli europei grandi elettori di Scola, sia Christoph Schönborn primate di Vienna che André Armand Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, hanno deciso di ripiegare su Bergoglio per evitare soprese curiali.
L’impressione è invece che Scherer, candidato dei curiali, non sia mai stato davvero in partita. Non tutti i brasiliani, infatti, erano disposti a votarlo. Nel 2011, quando dovettero scegliere il presidente della Conferenza episcopale, gli preferirono Raymundo Damasceno Assis, arcivescovo di Aparecida. E cdosì ancora oggi: gli hanno preferito Bergoglio.
Benedetto XVI è rimasto in disparte durante le Congregazioni generali e anche durante il Conclave. Non ha voluto interferire. Eppure precedentemente l’elezione aveva sempre affermato privatamente di non ritenere Bergoglio un proprio avversario. Anche questo giudizio positivo di Papa Ratzinger sul cardinale arcivescovo di Buenos Aires ha infliuto nell’elezione. Adesso molto dipenderà da chi Francesco I sceglierà come suo principale collaboratore in segreteria di Stato. L’impressione è che deciderà autonomamente dalle logiche passate. Non è escluso che non scelga un italiano. Ora, insomma, tutto è possibile. Anche quella a lungo auspicata riforma della curia romana in chiave collegiale che mai Papa Ratzinger è riuscito a realizzare. Durante il pre Conbclave la riforma della curia è stato un tema decisivo. Bergoglio sembra disposto non solo a riformare ma anche a destrutturare la stessa curia, dandole un carattere più orizzontale come da più parti è stato richiesto.

LA REPUBBLICA
MARCO ANSALDO
...Il nuovo Papa ha persino conosciuto l’amore per una donna. Nel libro-intervista “Il gesuita”, infatti, scritto dai giornalisti Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin nel 2010, il capitolo “Mi piace il tango”’ è il capitolo più intimista con il porporato argentino. E in quel testo Bergoglio rivela di aver avuto una fidanzata: «Era del gruppo di amici con i quali andavamo a ballare — diceva — Poi ho scoperto la vocazione religiosa». Ma da buon argentino ama il calcio e il tango. La sua squadra preferita è il San Lorenzo di Almagro. Tra i suoi scrittori preferiti ci sono Jorge Luis Borges e il russo Dostojevski. Al cinema gli piacciono i film del neorealismo italiano. Non si sa se abbia visto “Habemus Papam” di Nanni Moretti. Ha studiato e si è diplomato come tecnico chimico, ma poi ha scelto il sacerdozio ed è entrato nel seminario di Villa Devoto. È in questo periodo che ha gravi problemi respiratori, che lo portano all’asportazione di un polmone. Nel 1958 la sua decisione di diventare novizio nella Compagnia di Gesù. Il giovane Bergoglio ha poi compiuto studi umanistici in Cile e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Facoltà di Filosofia del collegio massimo “San José” di San Miguel. Per mantenersi gli studi per un breve periodo ha lavorato anche come buttafuori in un locale malfamato di Còrdoba.
Fra il 1964 e il 1965 è stato professore di letteratura e di psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fe e nel 1966 ha insegnato le stesse materie nel collegio del Salvatore di Buenos Aires. Il 13 dicembre 1969 è stato ordinato sacerdote. Nel 1973 è stato eletto Provinciale dell’Argentina, incarico che ha esercitato per sei anni. Anni difficili, quelli della dittatura argentina. E sono controversi i suoi rapporti con il regime: di contrasto secondo alcuni, e di sottomissione secondo altri. Sicura è invece l’adesione, temporanea, alla Teologia della liberazione. Fra il 1980 e il 1986 è stato rettore del collegio massimo e delle Facoltà di Filosofia e Teologia della stessa Casa e parroco della parrocchia del Patriarca San José, nella Diocesi di San Miguel. Nel marzo 1986 è andato in Germania per ultimare la sua tesi dottorale; quindi i superiori lo hanno destinato al collegio del Salvatore, da dove è passato alla chiesa della Compagnia nella città di Cordoba come direttore spirituale e confessore. Giovanni Paolo II il 20 maggio 1992 lo ha nominato Vescovo titolare di Auca e Ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno dello stesso anno ha ricevuto nella cattedrale di Buenos Aires l’ordinazione episcopale.
Ha scritto tre libri: «Meditaciones para religiosos », che risale al 1982, «Reflexiones sobre la vida apostólica» del 1986, e «Reflexiones de
esperanza» del 1992. Dopo la nomina cardinalizia da parte di Papa Giovanni Paolo II, il 21 febbraio 2001 è stato eletto a capo della Conferenza episcopale argentina, dal 2005 al 2011. E in Argentina il quotidiano progressista “Clarin” ha ricordato
«l’aspra relazione di Bergoglio con i Kirchner», soprattutto con il defunto ex presidente Nestor.
Fermamente contrario al matrimonio gay, Bergoglio ha però guadagnato popolarità nel suo Continente per aver lavato i piedi dei malati di Aids. Schivo, colto, è sempre stato restio ad accettare ruoli curiali. Molti nunzi apostolici, però, lo apprezzano, e non da oggi. È infatti uno strenuo oppositore del lusso e degli sprechi.

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
Ma perché nessun papa dal Medioevo ai giorni nostri non si è mai chiamato Francesco? Per la radicalità delle scelte di Francesco? Certo è che dovette apparire di difficile adozione quando il papa era anche un signore temporale.
La scelta radicale di vita di Francesco di Bernardone – questo è il suo vero nome – consiste nell’avere abbandonato una vita facile, quella del figlio di un mercante di drappi cui avrebbe normalmente succeduto. Francesco fu persino tentato dalle esperienze delle armi, partecipando a una guerra tra Assisi e Perugia. Volle persino partecipare a una spedizione militare organizzata da Innocenzo III contro i fautori dell’Impero nel-l’Italia
del Sud. Ma fu fermato dalla malattia, a Spoleto, dove una visione gli avrebbe ordinato di tornare ad Assisi.
Il primo passo della sua nuova vita è quello della rinuncia ai
suoi beni che pone sotto la protezione del vescovo Guido di Assisi. Francesco sceglie di essere un penitente, consacrandosi alla pratica della carità, non esitando a rompere con suo padre.
Porta una sola tunica, e al posto della cintura, una semplice corda. Presto viene seguito da alcuni abitanti di Assisi. Inizia così una comunità che non si fissa in un luogo, anzi diventa itinerante. Francesco ha quasi una trentina d’anni. La comunità cresce e ha bisogno di una regola che Francesco decide, coraggiosamente, di andare a chiedere personalmente al papa, Innocenzo III (1209). Un papa giovane, dal quale Francesco spera di ottenere una autorizzazione scritta.
Ma Innocenzo III si accontenta di autorizzare oralmente Francesco a continuare la sua esperienza, chiedendogli però di farsi tonsurare e di rimanere legato ad una chiesa, quella della Porziuncola, vicino ad Assisi. I compagni di Francesco si chiameranno presto ‘frati’ (fratelli, il che rinvia alla fratellanza, una parola che é stata pronunciata ieri da papa Francesco). Tra loro spicca una giovane nobile di Assisi, Chiara, che sarà sempre molto fedele al messaggio di Francesco, fino alla sua morte, cui seguirà la fondazione di un ordine, quello delle Clarisse.
Nell’agosto 1219 Francesco d’Assisi intraprende per la terza volta un viaggio in Terra Santa. Giunto a Damietta trovò la città assediata dai Crociati. Con uno di quei gesti storici di cui era capace, cercò di dissuadere i suoi correligionari dal combattere, quindi si presentò spontaneamente davanti al sultano Malik-al-Kamil e predicò alla sua presenza. Pacifismo? Certo non come lo si intende oggi. Francesco vuole predicare, e quindi evangelizzare, vivere secondo il Vangelo. La testimonianza più della dottrina. Che Francesco accetta senza esitazione alcuna. Richiamandosi al santo di Assisi che ha voluto rinunciare ai beni di suo padre per evangelizzare il mondo attraverso la carità e la povertà, il nome del nuovo papa non è soltanto inedito nella storia del papato. Ma è portatore di messaggi forti.

PAOLO GRISERI
CITTÀ DEL VATICANO
— «La Chiesa è in buone mani». Non sono trascorse due ore dall’annuncio del nome del nuovo Papa e, con una scelta decisamente irrituale, Timothy Dolan, primate dei vescovi Usa, mette il timbro sull’elezione. Lo fa con una conferenza stampa in cui rivela quasi in tempo reale alcuni particolari del Conclave: «Quando Bergoglio è arrivato al 77esimo voto è scattato un applauso. Siamo stati molto felici del risultato. Sono emozioni molto grandi». Parole che vanno oltre i riconoscimenti di rito. Perché contemporaneamente, in una nota ufficiale, lo stesso Dolan aggiunge che l’elezione di papa Francesco, «rappresenta una pietra miliare per la nostra chiesa».
Una svolta caratterizzata, secondo il primate statunitense, dal fatto che «il Papa ha detto di aver scelto il suo nome in onore di Francesco di Assisi», e che «sappiamo tutti che il Santo di Assisi si è occupato dei poveri e degli umili. Sarà questo il suo lavoro». Se poi le allusioni ai recenti scandali della Curia non fossero sufficienti, è lo stesso Dolan a sottolineare che «Papa Francesco rappresenta una figura di unità per tutti i cattolici, ovunque essi si trovino ». Dunque dentro ma soprattutto fuori la cerchia delle mura leonine. Per queste ragioni, aggiunge Dolan «i vescovi degli Stati Uniti e i fedeli delle nostre 195 diocesi pregano
per il nostro nuovo leader e gli promettono lealtà».
La mossa dell’arcivescovo di New York coglie di sorpresa perché rompe con la tradizione e anticipa i tempi tradizionali del Vaticano. Questa mattina alle 13 è in programma il
briefing
con il direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi. Ma Dolan ha anticipato ieri sera alcune indiscrezioni che ora attendono solo il crisma dell’ufficialità.
Come l’annuncio che «domani (oggi
ndr)
il nuovo Papa andrà a incontrare il papa emerito Benedetto XVI. O il fatto che «venerdì mattina alle 11 incontrerà i cardinali». Con la mossa di ieri sera i porporati statunitensi hanno anche voluto prendersi un piccola rivincita rispetto a quel che era accaduto nei giorni immediatamente precedenti l’apertura del Conclave. Era accaduto che la scelta dei prelati statunitensi di tenere
propri
briefing
paralleli a quelli della Sala Stampa vaticana aveva finito per irritare. Tanto che negli ultimi giorni delle Congregazioni quegli incontri con la stampa dei vescovi Usa erano stati sospesi. Così ieri sera Dolan ha voluto approfittare del buco comunicativo vaticano, dovuto al fatto che l’elezione si è svolta in serata.
Una sorta di concorrenza che non è solo sull’informazione ma, pare, sulla sostanza. Perché il segnale lascia intendere che almeno Dolan e i porporati del suo Paese ritengano più utile parlare direttamente ai giornalisti piuttosto che passare attraverso la mediazione vaticana. Un modo per marcare una distanza e una diversità. Un piccolo sintomo del clima generale in cui è maturata l’elezione di Bergoglio, quel vento anti curiale che sembrerebbe aver spirato impetuoso nella cappella Sistina. Andranno lette anche in questo senso le parole di Dolan sul suo stato d’animo: «Dormirò bene stanotte e anche papa Francesco dormirà bene. La chiesa è in buone mani, lo sappiamo tutti». Timothy Dolan avrebbe dormito altrettanto sereno se al Soglio di Pietro fosse stato chiamato qualcun altro? Certo l’arcivescovo di New York ieri sera appariva decisamente soddisfatto. Tanto da rivelare via Twitter una battuta scherzosa fatta dal nuovo Papa ai cardinali poco dopo essere stato eletto nella Sisista: «Cari fratelli, che Dio vi
perdoni».

LA REPUBBLICA - CECCARELLI
CITTÀ DEL VATICANO
— Il braccio che si leva lento nella benedizione assomiglia un po’ a quello di Giovanni XXIII, ma forse è la sagoma robusta del nuovo papa che rinvia a quei filmati in bianco e nero. Nell’epoca delle visioni a distanza Francesco appare fermo, solido, abbastanza imperturbabile, ma soprattutto irriconoscibile rispetto alle immagini di repertorio — un uomo magro e così teso da sembrare febbrile — che subito dopo l’apparizione trasmettono i telegiornali.
Comunque assai più robusto di Paolo VI e di Papa Luciani, che anche al balcone, appena eletti, sembravano due gracili uccellini.
Si accavallano i ricordi, stavolta a colori. Nel mostrarsi per la prima volta alla piazza, Benedetto XVI sollevò le braccia quasi in segno di vittoria e alla folla che lo salutava festosa si sforzò disperatamente di sorridere, cosa che peraltro non è che gli riuscisse tanto bene. A ripensarci, l’esordio di Papa Ratzinger aveva un che sviante, o forse già conteneva l’embrione di un equivoco: «Molto aristocratico» commentava Bruno Vespa nella diretta. Questo nuovo Papa no: le telecamere lo inquadrano mentre guarda giù, si direbbe lievemente incuriosito, o attonito. Un primo piano tradisce una minima patina di sudore. Ma il corpo possiede una sua rilevanza, e anche un’economia di gesti che rinvia a certa fissità.
E tuttavia, visto da dietro, si capisce che ha le spalle larghe. Poi chissà se è vero, spesso la tv vive di miraggi, distorsioni. Il saluto di Bergoglio sembra rapido, ma spontaneo. Certo nulla che possa avvicinarsi all’apparizione di Karol Wojtyla. E forse è suggestione, o peggio il segno del poi, ma nel suo caso si poté cogliere subito la presenza di scena, l’energia, il magnetismo, il carisma del nuovo Papa. Era pure un bell’uomo, giovane, intenso, talmente sicuro di sé da cominciare il pontificato con uno sgarro cerimoniale. Doveva limitarsi alla benedizione e invece Giovanni Paolo II prese la parola e anzi improvvisò e perfino si concesse, sotto gli occhi dei suoi ex parigrado, quella specie di celeberrima gag che diede inizio alla sua personale rivoluzione comunicativa: «Anche — così iniziò con una incongrua congiunzione — non so se potrei spiegare con la vostra — qui si fermò un attimo — la nostra lingua italiana». E quindi, per la sempiterna gloria della civiltà mediatica: «Se sbalio, mi corrigerete! ».
Disse anche, Papa Wojtyla, che «era stato chiamato da un paese lontano», e almeno in tale ambito di provenienza Papa Bergoglio lo ha legittimamente superato collocando l’Argentina «quasi alla fine del mondo». Ma poi, ripensandoci, il tratto più inedito e sorprendente dell’apparizione di ieri è stato quel «Fratelli e sorelle, buonasera» con cui egli ha inteso rompere il ghiaccio, per così dire. E alla fine, non senza essersene uscito con un «vi chiedo un favore
» e dopo aver formulato un proposito più che informale, «Ci vediamo presto», il pontefice si è congedato con una formula anche affettuosa che si usa tra famigliari, amici e colleghi: «Buona notte e buon riposo». Oh, santa semplicità e beatissimo registro colloquiale nell’esordio dal balcone.
Anche nello stile è parsa riverberarsi questa compiuta assenza
di complessità, nell’abito essenziale, ad esempio, senza orpelli, senza gioielli, scarpine o accessori vari. Così, pure al netto delle espressioni di saluto e di ringraziamento, le prime parole e le prime mosse del Papa gesuita, però anche francescano, sono suonate e apparse facili, educate, sostanziali, misurate e abbastanza naturali.
La stessa gestualità non trova
FOTO: AP
riferimenti nei suoi predecessori. Non si ricorda un Papa con le mani lungo i fianchi, in una posa quasi militaresca. Vero è che in un secondo tempo ha intrecciato le dita delle mani tenendosele sul petto, come chi prega, però anche nel gesto detto «a guglia», che secondo i decrittatori del linguaggio del corpo indicherebbe un atteggiamento di superiorità.
Nessuna autodefinizione, d’altra parte, ha ritenuto Sua Santità di offrire al pubblico mondiale. Si ricorderà come Papa Ratzinger si fosse definito, con voce flebile, «un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». In compenso, Francesco ha derogato al proprio autocontrollo solo al momento in cui levando le mani ha chiesto una preghiera su di sé; e qui, in modo anche inaspettato, si è piegato sulla balaustra, per un attimo mostrando gli anni che pure nel complesso sembra portare abbastanza bene.
Anche per quanto riguarda la voce, che non è quella di un anziano. Anche la recita del Padre Ave e Gloria è una novità. Va da sé che la pronuncia spagnola, almeno per un orecchio latino, è infinitamente più dolce e rassicurante di quella tedesca, e in questo senso è difficile dimenticare l’aspro effetto suscitato a tanti romani dalla parola «gioia» pronunciata alla loggia dopo che il conclave aveva nominato Benedetto:
«
Cioia
».
A Papa Bergoglio, in compenso, nell’Ave Maria è scappato un «Signore è con
ti
» invece che con
«te». Per diverse volte ha menzionato il popolo di Roma, il vescovo di Roma e Roma stessa «
tanta
bella città», complimento che ha sciolto un certo numero di applausi. E seppure il nuovo pontefice in questo non c’entra nulla, anzi può esserne addirittura vittima, sul piano della resa cerimoniale quegli interminabili attimi di silenzio sulla loggia mentre le bande suonavano l’inno argentino e Fratelli d’Italia devono averlo anche un po’ sconcertato; e per dirla tutta sembrava un po’ di stare alla partita, e se proprio bisogna più che un ipotetico vincitore quei secolarizzatissimi suoni e nazionali si possono purtroppo intitolare alla sconfitta dell’universalismo della Chiesa.
Ma così va il mondo in cui Francesco dovrà dedicarsi nel suo «cammino», parola più volte pronunciata. Solo alla fine lo si è visto appena sorridere, un po’ tirato. Ma almeno a occhio, i guai seri della Chiesa, i dissidi che s’intuiscono dietro l’appello alla «fratellanza », non sembrano aver nemmeno scalfito la calma e forse anche la pazienza che il portamento stabile, immoto e concentrato di Francesco a suo modo manifesta. Eppure, mai come stavolta, più del corpo del Papa è quello della Chiesa e dei suoi fedeli che appare bisognoso di cure e di purificazione. E se la semplicità è una grazia francescana che confonde tutta la vana sapienza di questo mondo, da oggi è da lui che si aspettano gesti, ma veri e utili e coraggiosi, insomma nel senso più alto della parola.

L’ALFABETO DEL PAPA - CRISTINA NADOTTI
ROMA
— Parole schiette su ogni aspetto della vita della comunità, spesso per sferzare i potenti. Dalle omelie e dai discorsi di Jorge Mario Bergoglio come arcivescovo di Buenos Aires si ricava un glossario dei temi che gli sono più cari e che indicano quali potranno essere i punti fermi del suo pontificato.
Aborto.
«Ancora una volta si vuole limitare o eliminare il valore supremo della vita e ignorare i diritti dei bimbi a nascere. L’aborto non è mai una soluzione. Quando si parla di una madre incinta, parliamo di due vite: entrambe devono essere preservate e rispettate perché la vita è un valore assoluto». Comunicato ufficiale, settembre 2012
Buenos Aires:
«Buenos Aires appare come una città fiorente. Qui vi è di tutto. Ma quanti sono i bambini sottomessi? Le donne sottomesse? Quanti i lavoratori clandestini? Quanti i postriboli? Quante cose odorano di schiavitù…». Omelia, dicembre 2008
Corruzione.
«Nessuno si fa carico dei crimini, delle tragedie e dei pesanti debiti che ci affliggono a causa della corruzione. La corruzione è come un potere monolitico ideologico, una pazzia ingannevole e dannosa che impedisce la realizzazione del progetto nazionale». Messa di Te Deum, maggio 2012
Economia.
«L’economia speculativa, priva di etica, insegue l’idolo del denaro. Per questo non si hanno remore a trasformare in disoccupati milioni di lavoratori». Omelia, Festa del Santo Gaetano di Thiene, agosto 2001
Eucarestia.
«L’Eucaristia è il centro vitale dell’universo, in grado di soddisfare la fame di vita e di felicità. In questa festa felice possiamo partecipare alla vita eterna, e quindi la nostra esistenza quotidiana diventa una Messa prolungata». Dissertazione dottorale, 2004
Fidanzata:
«Ho avuto una fidanzata, era del gruppo di amici con i quali andavamo a ballare. Poi ho scoperto la vocazione religiosa».
Il gesuita,
libro- intervista
Ingiustizia.
«Indignarci contro l’ingiustizia che il pane e il lavoro non siano accessibili a tutti è una parte della benedizione, perché questo desiderio e questa lotta fanno bene al cuore, lo rallegrano, lo allargano, lo fanno palpitare con felicità». Messa per la Festa del Santo Gaetano di Thiene, agosto 2012
Libertà.
«Non abbiate paura della libertà, sappiate che ci sono molti furfanti che vi stanno vendendo falsità perché abbiate paura della vita, paura della libertà». Discorso ai giovani, Buenos Aires, giugno 2012
Matrimonio omosessuale.
«La legislazione civile argentina che ci regge regola il matrimonio come entità civile composta da un uomo e da una donna. La decisione di un giudice nel contenzioso amministrativo che permette un vincolo matrimoniale tra persone dello stesso sesso è quindi contraria alla
suddetta legislazione. Il nostro atteggiamento non è religioso, discriminatorio o fondamentalista, ma puramente legalista: è parte del compito pastorale difendere l’applicazione delle leggi perché non si commetta un atto di ingiustizia nei confronti degli altri». Comunicato ufficiale, giugno 2010.
Migranti.
«Dio chiede di aprire gli occhi di fronte a questa realtà. Perché Gesù ci dice che il giorno del giudizio ci giudicherà per quello che avremo fatto a quei piccoli, per quello che avremo fatto a un migrante sottoposto alla tratta del lavoro, alla tratta del cartone, alla tratta della prostituzione, a qualsiasi tipo di tratta umana». Omelia, dicembre 2008
Pedofilia
«Se c’è un prete pedofilo è perché porta in sé la perversione prima di essere ordinato. E sopprimere il celibato non curerebbe tale perversione. O la si ha o non la si ha. Bisogna stare molto attenti nella selezione dei candidati al sacerdozio. Nel seminario di Buenos Aires ammettiamo circa il 40% dei candidati, e facciamo un attento monitoraggio sul processo di maturazione».
Il gesuita,
libro- conversazione.
Potere.
«La mascherata del potere e le rivendicazioni rancorose sono il guscio vuoto di anime che riempiono il loro nulla triste e soprattutto la loro incapacità di intraprendere percorsi creativi che diano vera fiducia» . Te Deum, maggio 2011
Relazioni fuori dal matrimonio.
«Lo dico con dolore, e se sembra una denuncia o offesa, mi si perdoni, ma ci sono sacerdoti della nostra regione che non battezzano i figli di madri sole perché non sono stati concepiti nella santità del matrimonio. Questi sono gli ipocriti di oggi». Messa pastorale, settembre 2012
Schiavi. «
Il Paese ospita commercianti di schiavi: uomini e donne che vendono e comprano persone violando ogni loro dignità… Chiediamo a Dio di toccare il cuore di quegli uomini e donne che schiavizzano perché anche loro sono schiavi. Schiavi della cupidigia, della superbia, della presunzione, della malvagità». Omelia, dicembre 2008
Squadra di calcio
«Non mi sono perso nemmeno una partita del campionato del San Lorenzo dal 1946. I colori della squadra, il blu e il rosso, sono quelli della alla veste rossa e del mantello azzurro della Vergine. Abbiamo chiesto i colori alla Vergine, non li abbiamo presi da altre parti».
Il gesuita,
libro- intervista
Tango.
«Mi piace molto il tango e da giovane lo ballavo
». Il gesuita,
libro-intervista
Verità.
«I sacerdoti devono predicare la verità, fare del bene a tutti e illuminare la vita del nostro popolo. Non basta che la nostra verità e la nostra pastorale siano ortodosse ed efficaci. Senza l’allegria della bellezza, la verità diventa fredda, spietata e superba, come vediamo accadere nei discorsi di molti fondamentalisti incattiviti». Messa del giovedì santo, Pasqua 2011

TARQUINI INTERVISTA HANS KUNG
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO
— «Sono felice, è la migliore scelta possibile, conosce e ama la vita semplice, umile, reale, è esterno al sistema romano della Curia. Spero che vari le riforme necessarie, e in un radicale rimpasto ai vertici come primo segnale ». Il professor Hans Küng, massimo teologo cattolico critico oggi, esulta, sembra parlare di una possibile
perestrojka
vaticana.
Professor Küng, che ne dice?
«Sono felice. La scelta di quest’uomo, proprio lui, a sorpresa, è una vera scelta di qualità».
Cioè anche meglio dei previsti papabili riformatori?
«Sì, insisto, è la scelta migliore. Primo, è un latinoamericano, e di questo sono molto felice. Non solo: è anche un latinoamericano dalle vedute aperte. È un gesuita, che sicuramente dispone di una formazione e preparazione teologica molto solida. È un uomo che ha sempre condotto una vita semplice, non in grandi e sontuosi palazzi di potere. Un uomo abituato ad andare tra i fedeli anche a piedi scalzi, col bastone di pastore. Già con i primi gesti ha dato consigli e segnali: non ha chiesto né cercato applausi trionfali né parole pompose, bensì preghiera
in silenzio».
Cioè anche un buon esordio?
«Sì, appunto, un esordio ben riuscito con segnali giusti. E infine ma non ultimo, trovo significativa la scelta del nome: Francesco ».
Ecco, lei come la interpreta?
«Un cardinale che nel mondo d’oggi e sullo sfondo della grave crisi della Chiesa sceglie non nomi che richiamino suoi predecessori recenti, bensì proprio questo nome, sa esattamente di richiamarsi e riferirsi a San Francesco d’Assisi. Francesco d’Assisi fu l’alternativa al programma della Chiesa vista e vissuta come potere. Fu l’antitesi del più grande e importante Papa di potere del Medioevo, Innocenzo III, il quale incarnava la Chiesa del potere: Francesco visse e testimoniò la Chiesa degli uomini semplici, dei poveri, dei modesti. Spero solo che Francesco possa veramente realizzare nella Chiesa e nel rapporto tra la Chiesa e il mondo tutto quanto sicuramente si propone di fare».
Dunque non è il candidato della Curia?
«Sicuramente no, bensì candidato
delle voci progressiste nella Chiesa, inclusi i progressisti tra i cardinali tedeschi».
Che significa per la Chiesa nella sua profonda crisi?
«È la domanda decisiva. La risposta dipende da se e come potrà riuscire a lanciare le riforme. Se e come le riforme necessarie e mancate, accumulatesi nella Chiesa d’oggi, verranno realizzate e s’imporranno, o se invece tutto continuerà come fino ad ora.
Se il nuovo Papa le realizzerà, troverà un grande appoggio, ben oltre l’ambito della Chiesa cattolica e dei fedeli. Altrimenti, il grido “indignatevi!” si diffonderà anche all’interno della Chiesa e imporrà riforme dal basso. Io sono per riforme guidate dall’alto, ma ora la scelta è davvero nelle sue mani. La comunità della Chiesa non si accontenterà più di belle parole, la pazienza di molti cattolici è alla fine».
Che cosa lascia prevedere la sua biografia?
«Lascia spazi di speranza. Non nascondo che ha vissuto ai tempi della dittatura militare argentina. Certo non fu facile, come non lo fu vivere degnamente da fedeli in Germania sotto il nazismo. È stato a volte criticato, ma certo si spiegherà. Il punto non è questo, la domanda-chiave è cosa farà per la Chiesa e per il mondo. Se ha davvero lo spirito ecumenico e
coinvolgerà le altre Chiese. Se riaprirà le finestre che il suo predecessore ha chiuso, se tornerà alla linea di Giovanni XXIII, allora sarà davvero Francesco I».
Quali potrebbero essere i suoi migliori primi segnali?
«Come segretario di Stato, quale primo segnale, potrebbe scegliere non un rappresentante del sistema romano, bensì una persona pronta alle riforme e dallo spirito ecumenico: non deve per forza essere un cardinale, ma deve essere pronta a realizzare la riforma della Curia. Spero che non vengano fatti compromessi col partito della Curia del tipo “tu sei il Papa ma la Curia resta in mano nostra”».
Vista anche la velocità dell’elezione, quanto è grande questo pericolo?
«Non faccio speculazioni. Indico cinque punti. Primo, il segretario di Stato appunto. Secondo, il nuovo Papa dovrebbe sostituire e non confermare i responsabili dei dicasteri vaticani. E scegliere personalità competenti, anche esterne al Collegio dei cardinali. Terzo, dovrebbe introdurre la collegialità nella Curia, costituire un Gabinetto responsabile di scelte collettive. Quarto, dovrebbe introdurre la collegialità con i vescovi, riattivare il Consiglio dei vescovi come organo decisionale e non solo consultivo. Quinto, dovrebbe vigilare che diocesi, comunità, singoli fedeli, abbiano riconosciuto un diritto di resistenza e critica. È conforme con il Vangelo. E i cattolici in tutto il mondo sono insoddisfatti di questo ritardo delle riforme».
È il punto più difficile?
«Vedremo se avrà la forza necessaria. Le riforme necessarie sono note: ruolo della donna, l’enciclica
Humanae Vitae
quindi la contraccezione, l’ordinazione di donne, l’ecumenismo con le altre Chiese, l’apertura della Chiesa ai drammi del mondo, dalla morale sessuale in Africa al resto».
Il primo Papa non europeo rafforzerà o indebolirà la Chiesa europea in crisi?
«Può solo aiutarla. I problemi della Chiesa, dal celibato alla crisi delle vocazioni, sono problemi mondiali. Cerchiamo di essere felici che un Papa extraeuropeo apra nuove prospettive».
Cercherà dialogo e incontro con lui?
«Non è la cosa più importante, deve occuparsi della Chiesa».

LA STAMPA
ANDREA TORNIELLI
Un candidato neanche tanto nascosto, c’era. Solo così si spiega la rapidità di un Conclave che ha avuto quasi gli stessi tempi di quello di Ratzinger, senza Ratzinger.
Il gesuita Jorge Mario Bergoglio, Francesco, il primo Papa latinoamericano della storia, è un vescovo senza auto blu che nella sua Buenos Aires si sposta in metropolitana, rifugge gli appuntamenti mondani, e nel palazzo arcivescovile ha ricavato per sé soltanto un piccolo appartamento. Un vescovo che preferisce trascorrere il suo tempo nelle «villas miserias», le baraccopoli della capitale argentina. È un vescovo umile e profondamente spirituale, che quando ti saluta, chiede sempre di pregare per lui e che in questi anni nella grande metropoli argentina ha continuato a ripetere che la Chiesa deve mostrare il volto della misericordia di Dio. «Cerchiamo di essere una Chiesa che esce da se stessa e va verso gli uomini e le donne che non la frequentano, che non la conoscono, che se ne sono andate, che sono indifferenti...».

Nato 76 anni fa a Buenos Aires, figlio di una famiglia originaria di Portacomaro, nell’Astigiano, arrivata in Argentina un’afosa mattina di gennaio del 1929, Jorge è il quarto di cinque figli. Il padre, contabile, nel nuovo mondo si lascia alle spalle ogni nostalgia e con i figli non parla italiano. «La nonna Rosa veniva a prendermi, mi portava a casa con lei... I miei nonni tra di loro parlavano piemontese, ed è così che l’ho imparato».

Con il padre giocava a briscola e seguiva le partite di pallacanestro, con la madre ascoltava musica. «Ogni sabato, alle due del pomeriggio, ascoltavamo le opere liriche che venivano trasmesse dalla Radio di Stato. Prima che iniziasse, la mamma ci spiegava l’opera, ci avvisava quando stava per cominciare l’aria più importante e conosciuta... Era una bellezza, per me, gustare la musica». Insieme ai fratelli, il nuovo Papa ha imparato presto a cucinare: «Mia madre - ha raccontato nel libro intervista “El Jesuita” pubblicato tre anni fa - rimase paralitica dopo aver partorito l’ultimo figlio, il quinto. Quando tornavamo da scuola, la trovavamo seduta a pelare patate, con tutti gli altri ingredienti per il pranzo già disposti. Ci diceva come dovevamo mescolarli e cucinarli». Diventato sacerdote e professore, Bergoglio ha continuato ad esercitarsi: «Nel Collegio Massimo la domenica non c’era la cuoca, e allora preparavo io il pranzo per i miei studenti». Al giornalista che gli chiedeva se fosse bravo, ha risposto: «Beh, non ho mai ammazzato nessuno col mio cibo...».

La famiglia Bergoglio non era povera. «Non ci avanzava niente, non avevamo l’automobile né andavamo a fare le vacanze estive, ma non ci mancava niente». All’età di 13 anni, quando inizia le superiori frequentando un istituto industriale specializzato in chimica, Jorge comincia a lavorare. Il padre vuole che il figlio conosca la fatica del lavoro. Così il futuro Papa Francesco prima fa le pulizie in una fabbrica di calzini, poi dopo due anni passa a compiti amministrativi e infine lavora in un laboratorio di analisi. A fine mattinata ha meno di un’ora di tempo per il pranzo, quindi va a seguire le lezioni in classe fino alle otto di sera. «Ringrazio tanto mio padre perché mi ha mandato a lavorare. Il lavoro è stata una delle cose che meglio mi hanno fatto nella mia vita e, in particolare, nel laboratorio ho imparato il bene e il male di ogni attività umana... Il mio capo era una donna straordinaria».

Il futuro Papa da ragazzo si ammala gravemente e rischia di morire di polmonite. «Ricordo il momento in cui, con la febbre altissima, abbracciai mia mamma e gli chiesi: “Dimmi che cosa mi sta succedendo!”. Lei non sapeva che cosa rispondere, perché i medici erano sconcertati». Jorge dovette subire l’ablazione della parte superiore del polmone destro. Mesi di convalescenza con dolori tremendi. Al giovane Bergoglio davano fastidio le parole di circostanza che molte delle persone che gli facevano visita in ospedale, quando per rincuorarlo gli dicevano: «Ora passa». Fino a che non va a visitarlo suor Dolores, la monaca che lo aveva preparato per la prima comunione. «Mi disse qualcosa che mi colpì molto e che mi diede molta pace: “Stai imitando Gesù”». «Il dolore ha raccontato il nuovo Papa - non è una virtù per se stesso, però sì, può essere virtuoso il modo in cui si vive. La nostra vocazione è la pienezza e la felicità, e in questa ricerca, il dolore è un limite. Per questo, il senso del dolore, uno lo capisce davvero attraverso il dolore del Dio fattosi uomo, Gesù Cristo».

La vocazione, per Papa Francesco, non arriva presto. È il 21 settembre 1953, aveva 17 anni, si prepara a festeggiare la Giornata dello studente con i suoi compagni. Entra nella chiesa di San José de Flores. Lì incontra un sacerdote che non conosce e decide di confessarsi. Quella confessione avrebbe cambiato la sua vita. Non torna più alla stazione ferroviaria per ritrovare gli amici perché ha deciso di farsi prete. «Mi accadde qualcosa di raro, lo stupore di un incontro. Mi resi conto che mi stavano aspettando. Questa è l’esperienza religiosa: lo stupore di incontrare qualcuno che ti stava aspettando. Da quel momento per me Dio divenne colui che ti precede. Uno lo sta cercando, Lui ti cerca per primo».

Il padre accoglie bene la decisione di Jorge. La madre molto meno. «Disse: non lo so, non ti vedo... Dovresti aspettare un po’, continua a lavorare... finisci l’università. La verità è che la mia vecchia mamma la prese male. Mio padre mi comprese di più». A 21 anni il nuovo Papa entra nel noviziato dei gesuiti. «Fui attratto dal loro essere una forza di avanzata della Chiesa, perché nella Compagnia si usava un linguaggio militare, perché c’era un clima di obbedienza e disciplina. E perché era orientata al compito missionario. Mi nacque il desiderio di andare missionario in Giappone. Ma a motivo del serio problema di salute che mi trascinavo dietro, non venni autorizzato».

La sua storia, da quel momento in poi, è quella di un padre gesuita. Studi umanistici in Cile e quindi in Argentina, laurea in filosofia e teologia. Professore, rettore di collegi e facoltà, ma al contempo anche parroco nella chiesa del Patriarca San José, nella diocesi di San Miguel. Vive gli anni bui della dittaturae da arcivescovo chiederà perdono per i legami della Chiesa argentina con la giunta militare. Completa in Germania la tesi di dottorato, quindi torna in Argentina, a Cordoba, a fare il direttore spirituale e il confessore.

Nel 1992, Papa Wojtyla lo nomina vescovo ausiliare di Buenos Aires, cinque anni dopo diviene coadiutore e nel 1998 arcivescovo, successore di Antonio Quarracino. Nel 2001 Giovanni Paolo II lo crea cardinale.

Dedica una linea telefonica soltanto per i suoi preti, perché possano chiamarlo in qualunque momento per qualsiasi problema. Tiene lui stesso l’agenda degli appuntamenti e delle udienze. Vuole una Chiesa di «prossimità», vicina all’umanità e alle sue sofferenze. Coltiva un dialogo particolare con la comunità ebraica - ha pubblicato un libro di dialoghi con il rabbino Abraham Skorka - ma anche con i gruppi evangelici. Confessa ancora molto, ha voluto che ci fossero sacerdoti che si prendessero cura delle prostitute nelle strade di Buenos Aires. Attacca pubblicamente il progetto di legge per il riconoscimento delle coppie gay perché contrario al «progetto divino», ma vuole che tutte le persone sentano di essere amate da Dio.

Papa Francesco ha un film preferito, «Il pranzo di Babette». «Vi si vede - ha spiegato Bergoglio - un caso tipico di esagerazione di limiti e proibizioni. I protagonisti sono persone che vivono in un calvinismo puritano esagerato, a tal punto che la redenzione di Cristo si vive come una negazione delle cose di questo mondo. Quando arriva la freschezza della libertà, lo spreco per una cena, tutti finiscono trasformati. In verità questa comunità non sapeva che cosa fosse la felicità. Viveva schiacciata dal dolore... aveva paura dell’amore».

Lui, che da professore faceva leggere Jorge Luis Borges ai suoi studenti, dice che bisogna passare da una Chiesa «regolatrice della fede» a una Chiesa «che trasmette e facilita la fede».

LA STAMPA
MICHELE BRAMBILLA
Abbiamo il Papa! Ci sono parole per raccontare il cuore del popolo per un rito così antico eppure ancora così unico nel regalare parole di vita eterna? Quando si leva dal camino la fumata bianca, in piazza San Pietro c’e gente che piange di gioia.
Che si abbraccia, che prende in mano il rosario. Quando poi, un’ora dopo, viene detto che si chiama Jorge Mario, quasi nessuno capisce chi è. Ma non importa: abbiamo il Papa, ed è una festa.

Bergoglio è il primo Papa argentino. Più in generale, il primo Papa latinoamericano. È anche il primo Papa gesuita. Il primo che si impone un nome che nella cristianità ha un fascino quasi soprannaturale. Il primo Papa - perdonateci un riferimento che a noi non può non essere caro - di origine piemontese.

Se i cardinali hanno scelto lui, è forse anche perché hanno capito che mai come ora la Chiesa doveva dare un segnale al mondo. Bergoglio, il cardinal Bergoglio, è uno che va a mangiare alla mensa dei poveri, che porta l’Eucarestia in casa ai malati della sua diocesi. Che quando è a Roma gira in autobus o in metropolitana, che va a fare la spesa al supermercato. È un caso se ha scelto di chiamarsi Francesco?

Ha già ricevuto l’abbraccio di Roma e di tutto il mondo cristiano. È un mondo che noi giornalisti - mi ripeto - fatichiamo molto a capire. Mentre parlavamo di scandali, di divisioni e di Ior, migliaia di fedeli andavano in piazza San Pietro solo per sapere quale uomo sarebbe stato scelto da Dio - non dagli uomini: da Dio - per guidare una Chiesa cui vogliono bene nonostante tutto, anche perché sanno che è altro da quello che i media raccontano. E così martedì sera, anche se tutti sapevano che la fumata sarebbe stata nera, piazza San Pietro era gremita. Come ieri mattina, quando s’è attesa un’altra fumata nera. E ieri sera, poi. C’era come una sensazione, un presagio del cuore.

La piazza si riempie a partire dal pomeriggio perché si sa che potrebbe anche esserci una fumata - solo bianca - verso le cinque. Se invece a quell’ora non c’è fumata, vuol dire che si aspetta l’ora canonica, le sette, alla fine del secondo scrutinio. A un certo punto un gabbiano si posa in cima al comignolo, lo si vede lì, immobile per più di mezz’ora, dai quattro megaschermi. «Non è un buon segno», dice un prete, «perché l’uccello che simboleggia lo Spirito è la colomba. Vuol dire che non hanno ancora scelto». Eppure c’è un qualcosa che si avverte. È strano. Tutto quello che succede quando si elegge un Papa è strano.

Sono le sette e sei minuti quando dal comignolo esce il fumo. Si capisce subito che è bianco. C’è una gioia che sembra di un altro mondo. Una donna peruviana grida la sua felicità. Le chiedo chi vorrebbe, ma è la domanda di chi, appunto, non capisce: «Voglio quello che Dio ha scelto, mi fido».

Poi è tutto un affluire davanti alla basilica. C’è il mondo intero, in piazza San Pietro. Bandiere da ogni continente. Ma poi arrivano i romani, perché a Roma il Papa, er Papa, è innanzitutto il vescovo della città. Come perdersi uno spettacolo così? E davvero è una scena indicibile: una cosa d’altri tempi. Nel mondo delle notizie che corrono istantanee, magari via Twitter, per sapere chi ricoprirà il non facilissimo ruolo di Vicario di Cristo bisogna aspettare più di un’ora, fino a quando un signore vestito in un modo strano aprirà una finestra per annunciare in latino che c’è un Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum».

È il Dominum Georgium Marium, Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio». Davvero non tutti sanno chi è, anzi la maggioranza per qualche istante sembra smarrita; ma appena il Cardinale Protodiacono Jean-Louis Tauran dice che il nuovo Papa si chiamerà Franciscum, c’è un’esplosione di gioia. Quello è un nome di fronte al quale anche il più ostinato agnostico deve inchinarsi.

Lui appare alle 20,10. C’è l’applauso: ma anche un lungo silenzio. Papa Francesco resta zitto: uno, due minuti. «Oddio, è paralizzato dall’emozione, ti prego dì qualcosa», fa una collega al mio fianco. Ma quando comincia a parlare, il 265esimo successore di Pietro fa capire subito che sarà un Papa vicino alla gente. «Fratelli e sorelle, buonasera!». Un Papa che si presenta dicendo «buonasera»! «Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a sceglierlo quasi alla fine del mondo... Ma siamo qui... Vi ringrazio dell’accoglienza». E poi: «Prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca». E così si assiste alla scena inedita di un Papa che recita il Pater Ave e Gloria insieme con la folla.

Perché il suo stile sarà quello: è il Papa, ma un Papa fra la gente: «E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo... Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza». Ricorda un po’, per questo suo stile da parroco del mondo, Papa Luciani. Capovolge le gerarchie con parole a sorpresa: «E adesso vorrei dare la benedizione ma prima, prima vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera». E così, piazza San Pietro si raccoglie, ciascuno chiede in cuor suo, e con le parole sue, che il Cielo assista il nuovo Papa. S’era ma vista una cose del genere? Papa Francesco sembra aver già conquistato tutti.

«Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto! Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo!».

Poco dopo telefona a Benedetto XVI. Oggi andrà, ma in privato, a Santa Maria Maggiore a chiedere aiuto alla Madonna. La Messa di inizio pontificato sarà martedì alle 9,30. Farà anche alcune cose inedite, nel frattempo: ad esempio, sabato incontrerà noi giornalisti, tutti noi 5.600 giornalisti accreditati, nell’aula Paolo VI.

«Davvero lo Spirito Santo sfugge alle nostre logiche», dice un signore mentre la folla defluisce dalla piazza: «Otto anni fa era arrivato secondo dietro Ratzinger, sembrava una partita chiusa per lui, e invece...». C’è un’aria finalmente serena, tra tutta questa gente che torna a casa. C’è soprattutto la sensazione che sulla Chiesa e sul mondo abbia cominciato a soffiare un vento diverso, e che ci sia una speranza nuova.
"«Prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito; preghiamo perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca» «Vorrei dare la benedizione ma prima vi chiedo un favore Prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore per me» «Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Ci vediamo presto: domani vado a pregare la Madonna Buona notte e buon riposo!»"

ANDREA TORNIELLI L’ULTIMA INTERVISTA
Questa intervista è stata realizzata a Roma nel febbraio 2012 in occasione del concistoro per i documenti trafugati in Vaticano. Il colloquio con l’allora cardinale fu pubblicato sul sito de La Stampa «Vatican Insider».

Nel recente concistoro, che si è tenuto nel mezzo delle polemiche per le fughe di documenti dalla Segreteria di Stato vaticana, Benedetto XVI ha voluto che i cardinali parlassero della nuova evangelizzazione. E il Papa ha richiamato i porporati allo spirito di servizio, e all’umiltà. L’arcivescovo di Buenos Aires, il gesuita Jorge Mario Bergoglio, è una delle figure di spicco dell’episcopato latinoamericano. Nella sua diocesi, Buenos Aires, già da tempo la

Chiesa va nelle strade, nelle piazze, nelle stazioni per evangelizzare e amministrare i sacramenti. Vatican Insider lo ha intervistato.

Come vede la decisione del Papa di indire un anno della fede e di insistere sulla nuova evangelizzazione?

«Benedetto XVI insiste nell’indicare come prioritario il rinnovamento della fede, e presenta la fede come un regalo da trasmettere, un dono da offrire, da condividere un atto di gratuità. Non un possesso, ma una missione. Questa priorità indicata dal Papa ha una dimensione di memoria: con l’Anno della fede facciamo memoria del dono ricevuto. E questo poggia su tre pilastri: la memoria dell’essere stati scelti, la memoria della promessa che ci è stata fatta e dell’alleanza che Dio ha stretto con noi. Siamo chiamati a rinnovare l’alleanza, la nostra appartenenza al popolo fedele a Dio» Che cosa vuol dire evangelizzare, in un contesto come quello dell’America Latina?

«Il contesto è quello emerso dalla quinta conferenza dei vescovi dell’America Latina, che si è tenuta ad Aparecida nel 2007. Ci ha convocato a una missione continentale, tutto il continente è in stato di missione. Si sono fatti e si fanno dei programmi, ma c’è soprattutto l’aspetto paradigmatico: tutta l’attività ordinaria della Chiesa si è impostata in vista della missione. Questo implica una tensione molto forte tra centro e periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima».

Qual è la sua esperienza a questo proposito in Argentina e in particolare a Buenos Aires?

«Cerchiamo il contatto con le famiglie che non frequentano la parrocchia. Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve, cerchiamo di essere una Chiesa che esce da se stessa e va verso gli uomini e le donne che non la frequentano, che non la conoscono, che se ne sono andate, che sono indifferenti. Organizziamo delle missioni nelle piazze, quelle in cui si raduna molta gente: preghiamo, celebriamo la messa, proponiamo il battesimo che amministriamo dopo una breve preparazione. È lo stile delle parrocchie e della stessa diocesi. Oltre a questo cerchiamo anche di raggiungere le persone lontane attraverso i mezzi digitali, la rete web e dei brevi messaggi».

Nel discorso al concistoro e nell’omelia della messa di domenica 19 febbraio, il Papa ha insistito sul fatto che il cardinalato è un servizio e sul fatto che la Chiesa non si fa da sola. Come commenta le parole di Benedetto XVI?

«Mi ha colpito l’immagine evocata dal Papa, che ha parlato di Giacomo e Giovanni e delle tensioni interne ai primi seguaci di Gesù su chi dovesse essere il primo. Questo ci indica che certi atteggiamenti, certe discussioni, sono sempre avvenute nella Chiesa, fin dagli inizi. E questo non ci dovrebbe far scandalizzare. Il cardinalato è un servizio, non è un’onorificenza. La vanità, il vantarsi di se stessi, è un atteggiamento della mondanità spirituale, che è il peccato peggiore nella Chiesa. È un’affermazione questa che si trova nelle pagine finali del libro “Méditation sur l’Église” di Henri De Lubac. La mondanità spirituale è un antropocentrismo religioso che ha degli aspetti gnostici. Il carrierismo, la ricerca di avanzamenti, rientra pienamente in questa mondanità spirituale. Lo dico spesso, per esemplificare la realtà della vanità: guardate il pavone, com’è bello se lo vedi da davanti. Ma se fai qualche passo, e lo vedi da dietro, cogli la realtà… Chi cede a questa vanità autoreferenziale in fondo nasconde una miseria molto grande».

In che cosa consiste l’autentico servizio del cardinale?

«I cardinali non sono gli agenti di una Ong, ma servitori del Signore, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che è Colui che fa la vera differenza tra i carismi, e che allo stesso tempo nella Chiesa li conduce all’unità. Il cardinale deve entrare nella dinamica della differenza dei carismi e allo stesso tempo guardare all’unità. Avendo coscienza che l’autore, sia della differenza come dell’unità, è lo stesso Spirito Santo. Un cardinale che non entri in questa dinamica, non mi sembra sia cardinale secondo ciò che chiede Benedetto XVI».
"«Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata e una malata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima»"

"LA MISSIONE"

"«Cerchiamo di essere una Chiesa che va verso gli uomini» «Il cardinalato è un servizio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e non è un’onorificenza. La vanità, il vantarsi di se stessi, è un atteggiamento della mondanità spirituale, che è il peccato peggiore nella Chiesa di nostri giorni. Chi cede a questa vanità autoreferenziale, in fondo, nasconde una miseria molto grande»"

COM’È ANDATO IL CONCLAVE
GIACOMO GALEAZZI
Che per il super-favorito Scola le cose potessero complicarsi lo si era già visto martedì. Pochi istanti dopo l’extra omnes e la meditazione in Sistina, a sorpresa Bergoglio aveva ottenuto subito il maggior numero di voti. Però al primo scrutinio i consensi erano troppo sparpagliati per delineare un quadro realmente indicativo. Si trattava comunque di un campanello d’allarme per l’arcivescovo di Milano, accreditato di tali chance di vittoria che ieri, a pochi minuti dall’annuncio del protodiacono, uno sfortunato comunicato del segretario generale della Cei esprimeva «i sentimenti dell’intera Chiesa italiana nell’accogliere la notizia dell’elezione del cardinale Angelo Scola a Successore di Pietro».

A sbarrare a Scola la strada verso il Sacro Soglio è stata la confluenza di due cordate e di due ordini di valutazioni nettamente distinte: quella extraeuropea (e soprattutto sudamericana) intenzionata a portare per la prima volta il papato fuori dal Vecchio continente e quella curiale dei nemici-alleati Bertone e Sodano irriducibilmente ostili a Scola. «Per antiche invidie e rivalità», commentano nelle Sacre Stanze. A Bertone non è mai andato giù il consiglio di Scola al Papa in un incontro a Castel Gandolfo durante la bufera per la grazia al vescovo negazionista Williamson: la sua sostituzione alla guida della Segreteria di Stato. Da parte sua, invece, Sodano si è trovato su opposte barriere rispetto a Scola in varie partite di potere per il controllo di istituzioni cattoliche. Lo stesso Ruini, pur stimando Scola, non ha dato indicazioni di voto a suo favore ai conclavisti come l’australiano Pell che hanno chiesto di potergli fare visita prima del conclave. Insomma, i 28 elettori italiani non hanno remato tutti nella stessa direzione e così hanno vanificato la possibilità di riportare un loro connazionale sul Soglio di Pietro 35 anni dopo Luciani.

Neppure tra gli arcivescovi residenziali italiani c’è stata totalità di consensi per Scola, al quale perciò non potevano più bastare i consensi di numerosi elettori europei. Inoltre i conclavisti vicini alla comunità di Sant’Egidio (per esempio, Sepe) non vedevano di buon’occhio la vicinanza di Scola a un movimento distante dalla loro impostazione come Comunione e Liberazione. Nelle ultime ore non erano mancati segnali che la candidatura fortissima di Scola fosse un gigante dai piedi d’argilla. A parole tutti riconoscevano la sua eccezionale statura di vescovo e intellettuale, però poi, a scavare un po’ oltre le frasi di circostanza, affioravano distinguo e riserve. E soprattutto prendeva sempre maggior campo quella suggestione per il “volo oltre oceano” che faceva vacillare l’opportunità di ripiegarsi su un pontificato italiano mentre la gran parte della sua crescita la Chiesa la sta sperimentando in Sud America, Africa, Asia. «Non può esserci sempre il pastore a monte e il gregge a valle», sintetizzò un porporato africano in congregazione.

Inoltre poco prima dell’avvio del conclave, il sodaniano Lajolo aveva pubblicamente dato voce al fastidio della Curia per il protagonismo della pattuglia statunitense e pochi vi colsero il gradimento del partito del decano per uno stile più sobrio. Proprio la cifra di basso profilo, l’etichetta rispettata da Bergoglio per l’intera durata della sede vacante. Pochissima esposizione, uscite pubbliche ridotte al minimo e congregazioni generali vissute alla stregua degli altri peones del collegio cardinalizio malgrado nel 2005 avesse ottenuto nell’elezione pontificia più consensi di chiunque altro ad eccezione di Ratzinger. E Benedetto XVI non ha mai fatto mistero della sua considerazione per l’austero gesuita che ha «purificato» la Chiesa argentina dalle compromissioni con il regime militare.

Per Bergoglio ora come otto anni fa il luogo fatale è stata Santa Marta. Ma stavolta con risultato opposto. Ciò che è accaduto ieri alle 13,30 nella Domus conta più dei primi scrutini senza esito nella Sistina. Alle fumate nere, infatti, sono seguiti i conciliaboli domestici nella residenza degli elettori. Bertone e Re hanno parlato con Bergoglio garantendogli il loro sostegno. Prima i conclavisti mangiavano e dormivano nella cappella affrescata da Michelangelo, dal 2005 rientrano (in navetta o a piedi) per i pasti e il pernottamento nell’albergo fatto ristrutturare da Giovanni Paolo II. Durante i pranzi e le cene i cardinali discutono liberamente ed entrano in azione i pontieri che offrono una possibile conciliazione tra le diverse fazioni. Otto anni fa, fu proprio nel refettorio di Santa Marta che la partita si chiuse a favore di Ratzinger. «Dall’ultima cena in poi, nella Chiesa le cose importanti vengono decise a tavola», spiega sorridendo un elettore di Ratzinger.

Nel conclave del 2005, dopo le prime tre votazioni, Bergoglio si rivolse ai commensali con un discorso destinato a cambiare immediatamente le sorti di quella elezione pontificia. Chiese espressamente ai suoi quaranta sostenitori di smettere di votarlo. Insomma davanti a un piatto di pasta al sugo o a un digestivo si è deciso anche stavolta chi si dovesse affacciarsi vestito di bianco dal balcone di San Pietro. Le ore trascorse a Santa Marta, tra salottini, confessionali e cappella interna, hanno offerto occasioni per concordare informalmente l’uscita di scena dei candidati con minori consensi, a tutto vantaggio del papabile che nei primi tre scrutini avevano ottenuto più voti.

Abboccamenti in extremis che, nello stallo delle votazioni, sono risultati determinanti. I dubbi sono diventati scomposizione di cordate e l’appannamento della stella di Scola si è tramutato nella polarizzazione attorno al mite Bergoglio.

TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DAL BALCONE APPENA ELETTO
«Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo. Ma siamo qui... Vi ringrazio dell’accoglienza, alla comunità diocesana di Roma, al suo Vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca».

Quindi ha recitato il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria.
«E adesso - ha proseguito - incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo - mi aiuterà il mio cardinale vicario qui presente - sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa sempre bella città... Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me». «Adesso darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà», ha proseguito, impartendo la benedizione in latino e concedendo l’indulgenza plenaria. «Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo».