Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 14/03/2013, 14 marzo 2013
ROBERTO CERATI EDITORE SILENZIOSO
Un asceta e un rivoluzionario. Giulio Einaudi ha descritto Roberto Cerati come «l’uomo dai significativi silenzi». Da quei silenzi, l’editore-padrone coglieva i suoi pensieri. Cerati, che oggi compie novant’anni, è stato l’eminenza grigia della casa dello Struzzo. Lo storico direttore commerciale, conosciuto da tutti i vecchi librai d’Italia, grandi e (soprattutto) piccoli, dei capoluoghi e delle periferie. Un’istituzione della grande editoria. Novarese della campagna, ogni giorno faceva circa 25 chilometri a piedi per raggiungere la scuola, nel capoluogo. Dalla laurea su Pirandello, conseguita alla Cattolica con Mario Apollonio (che è stato tra i promotori del Piccolo di Milano), gli proviene, probabilmente, la passione per il teatro: a lui, infatti, si devono le grandi acquisizioni einaudiane in questo settore, da Eduardo a Dario Fo, da Roberto De Simone a Moni Ovadia.
Era arrivato alla corte di Giulio per caso, amicissimo di Elio Vittorini sin da studente: vendeva per lui il Politecnico all’uscita delle fabbriche e in piazza del Duomo, e così cominciò a frequentare la sede einaudiana di viale Tunisia, a Milano. Nel settembre 1945, incontrò per la prima volta gli occhi glaciali di Giulio in corridoio, sentendosi dire: «Tu cosa fai qui?». Risposta timida: «Niente». «E allora vai a vendere libri». Lì, seduti sul pavimento, il pittore Ajome e i grafici Max Huber e Albe Steiner preparavano le copertine. Potrebbe essere leggenda, ma non lo è. Roberto cominciò a vendere per corrispondenza, poi fu incaricato di occuparsi delle librerie lombarde. Partì da Pavia rintracciando sull’elenco telefonico tutte le librerie della città. Avrebbe continuato a fare lo stesso lavoro in lungo e in largo per la penisola, viaggiando in treno. Spesso in totale povertà, senza il biglietto. E cercando di dormire in vagone, per risparmiare.
Da allora, per cinquant’anni, Einaudi continuò a dargli del tu, e Cerati continuò a rispondergli rispettosamente con il lei. Diventarono il Gatto e la Volpe. Si capivano al volo, con uno sguardo, nelle riunioni del mercoledì estese ai consulenti esterni. Poi, il lunedì, si passava alla fase operativa, più prosaica. Con l’editore, il direttore Giulio Bollati, il segretario Guido Davico Bonino, il caporedattore Daniele Ponchiroli, e con l’altro direttore Ernesto Ferrero, si decidevano le tirature, i prezzi, le collane in cui sistemare i vari titoli. La «collanologia» è la sua scienza esatta. Ma soprattutto la sua arte è la tiratura: che non deve essere eccessiva e neanche troppo esigua. Giusta. «Il Verbo dell’Editore — ha scritto Ferrero — si esprime attraverso l’evangelista Cerati, che lo interpreta e trasmette ai fedeli». Certo, ogni libro della casa per lui è sacro. Sacri gli autori, con i quali (da Calvino a Rigoni Stern, a Vassalli) ha intrattenuto rapporti di amicizia alla pari, anche se non ha mai amato mostrare la sua sterminata cultura.
Vestito come un marinaio della corazzata Potemkin: così lo vedeva Einaudi. Ha sempre portato un pantalone antracite e una polo blu o nera. Può essere dolcissimo e molto severo, come i veri rivoluzionari, francescano nella sobrietà assoluta e nelle parole parche, non ama parlare di sé e neanche ricordare troppo il passato. Ama, invece, moltissimo parlare di libri e di scrittori: è lui il vero erede di Giulio Einaudi, e non solo perché alla sua morte è diventato il presidente della casa editrice. Instancabile. A Torino ha sempre vissuto in una modesta cameretta dell’Hotel Genio, a pochi passi dall’Albergo Roma, in cui si suicidò Pavese. Non si può dire che si senta a suo agio in questa editoria, e lui non lo dice: da quando il libro è diventato solo merce e le librerie spazi di esposizione, non si ritrova, ma non smette di combattere la sua battaglia. Anche per questo, si merita i nostri auguri.
Paolo Di Stefano