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 2013  marzo 14 Giovedì calendario

L’ASCESA DI UN CRISTIANO SEMPLICE

Per parlare di papa Giovanni, Hannah Arendt inventò per il New Yorker uno di quei titoli taglienti e indimenticabili: «Un cristiano sul trono di Pietro». Non per denigrare gli altri: ma perché i titoli che si applicavano al Pontefice anche dopo che questo era stato liberato dal potere temporale, finivano per lasciare l’essere cristiano in fondo o fuori dalla lista delle qualità papali. Chi ha più di cinquant’anni e prese la famosa carezza ai bambini poteva guardare alla sua vita come a una vita benedetta, perché aveva già visto in vita sua «un cristiano sul trono di Pietro». E mai avrebbe immaginato che anche ai suoi figli sarebbe stato concesso lo stesso dono, di vedere «un cristiano sul trono di Pietro», col nome impegnativo di Francesco. Perché quello che si è presentato ieri dalla loggia delle benedizioni, primo da sempre affacciatosi a chiedere prima di tutto una benedizione, è un gesuita, un argentino, un vescovo, un cardinale. Ma, più di tutto è un vescovo, un vescovo cristiano sul trono di Pietro.
Ieri mattina Sodano in San Pietro ha fatto un ritratto e i cardinali lo hanno trovato con rapidità raffigurato in papa Francesco. Ancora una volta quel vecchio arnese medievale che è il Conclave ha funzionato bene: ha fatto emergere istanze e nomi, ha lasciato decantare le promesse di voto, e poi, nel segreto della Sistina ha permesso una sintesi alla quale devono aver dato un contributo più d’uno dei papabili (Scola, Scherer, Ouellet), più d’uno dei grandi diplomatici esperti dell’agenda del mondo (Bertello, Filoni, Re, Bertone), e non di meno quella parte di collegio che restava fuori dalla somma dei voti dei papabili e che evidentemente un’idea ce l’aveva, forte della forza della dolcezza.
Francesco s’è presentato con una semplicità sapiente: solo a una lettura superficiale può sfuggire che il nuovo Papa, come vescovo della chiesa di Roma, ha citato Ignazio d’Antiochia, e con un gesto di enorme credibilità ecumenica ha detto che si farà «aiutare» dal suo vicario, ma non rinuncerà al suo ministero episcopale. In pochi minuti carichi di commozione s’è insediato come maestro della preghiera e per prima cosa, a una assemblea e alla selva dei media che attendeva parole «programmatiche», ha fatto dire le preghiere. Ha chiamato i cardinali fratelli e non signori. Perfino nel suo abbigliamento e nella croce pettorale indossata sulla talare bianca ha dato il segno che, cinquant’anni dopo la profezia della Chiesa dei poveri e la scelta della medicina della misericordia, sono ancora quelli i rimedi dei mali che un Papa «manager» avrebbe solo diagnosticato ma non curato. Francesco è apparso subito come un Papa che non ha paura di presentarsi con dolcezza, di essere un cristiano insieme (anche questa è una parola che la loggia non aveva mai sentito in cinquecento anni) al suo «popolo», il popolo di Dio.
La rinunzia di Benedetto XVI ha solo scoperchiato il disgusto per il pandemonio che aveva travolto il centro del potere romano in questi anni. Ha messo la Chiesa davanti ad un grande dilemma: perdere o riguadagnare tutta la sua credibilità. Per perderla il collegio poteva paralizzarsi nei veti e tentare le mediazioni di cui la stampa è stata il sismografo in queste settimane. Per riguadagnarla i cardinali potevano tentare una sorpresa unicamente spettacolare: e invece non hanno avuto paura di fare un passo di santa audacia, di andare oltre ogni attesa e ogni calcolo.
I vociferati papabili — ai quali va reso il merito di aver «ceduto» i voti che servivano per fare un Papa di questa statura — erano ciascuno portatore di una soluzione per un «settore»: uno poteva risanare la Curia, uno rassicurarla; uno era adatto a continuare lo stile Ratzinger, l’altro a correggerlo; uno sembrava gradito ai media, l’altro ai dotti. E poi (già ieri mattina? nel pomeriggio?) il Conclave ha cercato e trovato una soluzione globale, che è la premessa di una collegialità effettiva e non solo affettiva di cui un uomo con una grande esperienza di presidente della conferenza episcopale è già esperto. Bergoglio ha risposto alla scelta scegliendo un nome dolce, che vale più di un programma, Francesco. Il nome dell’uomo che pur sapendo che esiste e non può che esistere la «forma della Chiesa romana», sa che esiste anche la «forma del santo Vangelo» e senza uscire mai da questa forma ammaccata e dalla sua pesantezza istituzionale, vive di quella sete spirituale: e la semina nella storia, come un seme che germoglia ora, in questa Quaresima che vede un cristiano vescovo di Roma, consapevole del peso di questo ruolo davanti al mondo: e che in quella luce di fede vedrà le magagne e le speranze di una Chiesa che ieri sera ha ripreso il largo.
Alberto Melloni