Andrea Tornielli, La Stampa 14/3/2013, 14 marzo 2013
IL PONTEFICE LATINOAMERICANO CHE SI SPOSTA IN METRO’ E PORTA IL VANGELO AI POVERI
Il gesuita Jorge Mario Bergoglio, Francesco, il primo Papa latinoamericano della storia, è un vescovo senza auto blu che nella sua Buenos Aires si sposta in metropolitana, rifugge gli appuntamenti mondani, e nel palazzo arcivescovile ha ricavato per sé soltanto un piccolo appartamento. Un vescovo che preferisce trascorrere il suo tempo nelle «villas miserias», le baraccopoli della capitale argentina. È un vescovo umile e profondamente spirituale, che quando ti saluta, chiede sempre di pregare per lui e che in questi anni nella grande metropoli argentina ha continuato a ripetere che la Chiesa deve mostrare il volto della misericordia di Dio. «Cerchiamo di essere una Chiesa che esce da se stessa e va verso gli uomini e le donne che non la frequentano, che non la conoscono, che se ne sono andate, che sono indifferenti...».
Nato 76 anni fa a Buenos Aires, figlio di una famiglia originaria di Portacomaro, nell’Astigiano, arrivata in Argentina un’afosa mattina di gennaio del 1929, Jorge è il quarto di cinque figli. Il padre, contabile, nel nuovo mondo si lascia alle spalle ogni nostalgia e con i figli non parla italiano. «La nonna Rosa veniva a prendermi, mi portava a casa con lei... I miei nonni tra di loro parlavano piemontese, ed è così che l’ho imparato».
Con il padre giocava a briscola e seguiva le partite di pallacanestro, con la madre ascoltava musica. «Ogni sabato, alle due del pomeriggio, ascoltavamo le opere liriche che venivano trasmesse dalla Radio di Stato. Prima che iniziasse, la mamma ci spiegava l’opera, ci avvisava quando stava per cominciare l’aria più importante e conosciuta... Era una bellezza, per me, gustare la musica». Insieme ai fratelli, il nuovo Papa ha imparato presto a cucinare: «Mia madre - ha raccontato nel libro intervista “El Jesuita” pubblicato tre anni fa - rimase paralitica dopo aver partorito l’ultimo figlio, il quinto. Quando tornavamo da scuola, la trovavamo seduta a pelare patate, con tutti gli altri ingredienti per il pranzo già disposti. Ci diceva come dovevamo mescolarli e cucinarli». Diventato sacerdote e professore, Bergoglio ha continuato ad esercitarsi: «Nel Collegio Massimo la domenica non c’era la cuoca, e allora preparavo io il pranzo per i miei studenti». Al giornalista che gli chiedeva se fosse bravo, ha risposto: «Beh, non ho mai ammazzato nessuno col mio cibo...».
La famiglia Bergoglio non era povera. «Non ci avanzava niente, non avevamo l’automobile né andavamo a fare le vacanze estive, ma non ci mancava niente». All’età di 13 anni, quando inizia le superiori frequentando un istituto industriale specializzato in chimica, Jorge comincia a lavorare. Il padre vuole che il figlio conosca la fatica del lavoro. Così il futuro Papa Francesco prima fa le pulizie in una fabbrica di calzini, poi dopo due anni passa a compiti amministrativi e infine lavora in un laboratorio di analisi. A fine mattinata ha meno di un’ora di tempo per il pranzo, quindi va a seguire le lezioni in classe fino alle otto di sera. «Ringrazio tanto mio padre perché mi ha mandato a lavorare. Il lavoro è stata una delle cose che meglio mi hanno fatto nella mia vita e, in particolare, nel laboratorio ho imparato il bene e il male di ogni attività umana... Il mio capo era una donna straordinaria».
Il futuro Papa da ragazzo si ammala gravemente e rischia di morire di polmonite. «Ricordo il momento in cui, con la febbre altissima, abbracciai mia mamma e gli chiesi: “Dimmi che cosa mi sta succedendo!”. Lei non sapeva che cosa rispondere, perché i medici erano sconcertati». Jorge dovette subire l’ablazione della parte superiore del polmone destro. Mesi di convalescenza con dolori tremendi. Al giovane Bergoglio davano fastidio le parole di circostanza che molte delle persone che gli facevano visita in ospedale, quando per rincuorarlo gli dicevano: «Ora passa». Fino a che non va a visitarlo suor Dolores, la monaca che lo aveva preparato per la prima comunione. «Mi disse qualcosa che mi colpì molto e che mi diede molta pace: “Stai imitando Gesù”». «Il dolore ha raccontato il nuovo Papa - non è una virtù per se stesso, però sì, può essere virtuoso il modo in cui si vive. La nostra vocazione è la pienezza e la felicità, e in questa ricerca, il dolore è un limite. Per questo, il senso del dolore, uno lo capisce davvero attraverso il dolore del Dio fattosi uomo, Gesù Cristo».
La vocazione, per Papa Francesco, non arriva presto. È il 21 settembre 1953, aveva 17 anni, si prepara a festeggiare la Giornata dello studente con i suoi compagni. Entra nella chiesa di San José de Flores. Lì incontra un sacerdote che non conosce e decide di confessarsi. Quella confessione avrebbe cambiato la sua vita. Non torna più alla stazione ferroviaria per ritrovare gli amici perché ha deciso di farsi prete. «Mi accadde qualcosa di raro, lo stupore di un incontro. Mi resi conto che mi stavano aspettando. Questa è l’esperienza religiosa: lo stupore di incontrare qualcuno che ti stava aspettando. Da quel momento per me Dio divenne colui che ti precede. Uno lo sta cercando, Lui ti cerca per primo».
Il padre accoglie bene la decisione di Jorge. La madre molto meno. «Disse: non lo so, non ti vedo... Dovresti aspettare un po’, continua a lavorare... finisci l’università. La verità è che la mia vecchia mamma la prese male. Mio padre mi comprese di più». A 21 anni il nuovo Papa entra nel noviziato dei gesuiti. «Fui attratto dal loro essere una forza di avanzata della Chiesa, perché nella Compagnia si usava un linguaggio militare, perché c’era un clima di obbedienza e disciplina. E perché era orientata al compito missionario. Mi nacque il desiderio di andare missionario in Giappone. Ma a motivo del serio problema di salute che mi trascinavo dietro, non venni autorizzato».
La sua storia, da quel momento in poi, è quella di un padre gesuita. Studi umanistici in Cile e quindi in Argentina, laurea in filosofia e teologia. Professore, rettore di collegi e facoltà, ma al contempo anche parroco nella chiesa del Patriarca San José, nella diocesi di San Miguel. Vive gli anni bui della dittaturae da arcivescovo chiederà perdono per i legami della Chiesa argentina con la giunta militare. Completa in Germania la tesi di dottorato, quindi torna in Argentina, a Cordoba, a fare il direttore spirituale e il confessore.
Nel 1992, Papa Wojtyla lo nomina vescovo ausiliare di Buenos Aires, cinque anni dopo diviene coadiutore e nel 1998 arcivescovo, successore di Antonio Quarracino. Nel 2001 Giovanni Paolo II lo crea cardinale.
Dedica una linea telefonica soltanto per i suoi preti, perché possano chiamarlo in qualunque momento per qualsiasi problema. Tiene lui stesso l’agenda degli appuntamenti e delle udienze. Vuole una Chiesa di «prossimità», vicina all’umanità e alle sue sofferenze. Coltiva un dialogo particolare con la comunità ebraica - ha pubblicato un libro di dialoghi con il rabbino Abraham Skorka - ma anche con i gruppi evangelici. Confessa ancora molto, ha voluto che ci fossero sacerdoti che si prendessero cura delle prostitute nelle strade di Buenos Aires. Attacca pubblicamente il progetto di legge per il riconoscimento delle coppie gay perché contrario al «progetto divino», ma vuole che tutte le persone sentano di essere amate da Dio.
Papa Francesco ha un film preferito, «Il pranzo di Babette». «Vi si vede - ha spiegato Bergoglio - un caso tipico di esagerazione di limiti e proibizioni. I protagonisti sono persone che vivono in un calvinismo puritano esagerato, a tal punto che la redenzione di Cristo si vive come una negazione delle cose di questo mondo. Quando arriva la freschezza della libertà, lo spreco per una cena, tutti finiscono trasformati. In verità questa comunità non sapeva che cosa fosse la felicità. Viveva schiacciata dal dolore... aveva paura dell’amore».
Lui, che da professore faceva leggere Jorge Luis Borges ai suoi studenti, dice che bisogna passare da una Chiesa «regolatrice della fede» a una Chiesa «che trasmette e facilita la fede».