Cristina Manfredi, Vanity Fair 13/3/2013, 13 marzo 2013
LA MUSICA CHE GIRA INTORNO
Milanesi, c’è qualcosa nell’aria, e se non girate sempre con gli auricolari a palla nelle orecchie ve ne sarete accorti anche voi: la città è piena di musica. Musica qualitativa, appassionata, positiva. Musica che non vive di note strimpellate di malavoglia su un vagone del metrò per poi battere cassa. Da San Babila a Cairoli, con una puntatina tra via Manzoni e piazza della Scala, è un susseguirsi di accordi, voci, improvvisazioni, assolo. Le strade, le piazze, gli incroci verso le undici della mattina diventano teatro a cielo aperto per gente che lì si esibisce non per disperazione, ma per scelta, alternandosi fino alle sette di sera.
«Per niente facili». Così Ivano Fossati descriveva chi suonava nel 1983. Trent’anni dopo La musica che gira intorno, sembrano essere cambiati i modi, l’approccio, finalmente pacificato con chi aveva «nella testa un maledetto muro». Michela, Matteo, Simeon, Marcello, Andrea, Dario, Edwin, Leonardo sono tra quelli che escono tutti i giorni con i loro amplificatori, cavi, microfoni, spartiti. Montano il tutto con cura e poi attaccano con il loro repertorio, Pink Floyd, Simon and Garfunkel, Coldplay, ma anche Oasis, Santana, Wayne Shorter, John Coltrane. Ognuno di loro sceglie i pezzi del cuore e suona come se fosse al Madison Square Garden di New York, anche se ad ascoltare in quel momento sono pochi.
Quello che hanno è un pubblico difficile da conquistare, perché non è arrivato lì per loro. Però succede che anche il più indurito dei manager a un certo punto rallenti il passo e tenda l’orecchio. Che un signore emozionato fin quasi alle lacrime si tolga il cappello nel senso letterale del termine. Che un altro strappi una pagina dal suo blocchetto degli appunti per disegnare un angelo e lasciarlo scivolare nella custodia delle offerte. Che una bambina di due anni si pianti immobile finché non finisce la melodia, per poi riprendere a giocare.
FRATELLI DI STRADA
«Ho suonato in tanti locali e su palchi anche molto importanti, ma la strada è l’unico luogo dove la gente è davvero libera di ascoltarti. La strada è dura. Se piaci, bene, se non dai non ricevi, ma è anche calda, accogliente. La strada è una cosa seria». Marcello Calabrese ha 43 anni, è nato in Sicilia e cresciuto in Sardegna, e suona la chitarra on the road da quando, sedicenne, ha raggiunto la sorella a Roma per imitarne la vita senza cartellini da timbrare.
Lei, Michela, 49 anni, a 19 aveva rifiutato un’assunzione con tutti i crismi come insegnante. La sua passione è il flauto traverso in chiave jazz, tra i suoi fiori all’occhiello l’assolo tutto improvvisato di Le acciughe fanno il pallone che Fabrizio De André in persona le chiese dopo averla sentita in studio dove il figlio Cristiano l’aveva chiamata per arrangiare l’album paterno Anime Salve del 1996. «Non ho mai avuto paura di esibirmi in piazza, gli incontri magici sono stati tantissimi, quelli aggressivi molti meno, e poi sarà vero che i posti di lavoro canonici sono tanto più sicuri del mio?».
La loro madre, impiegata in una biblioteca universitaria a Cagliari, si è resa conto in fretta che i suoi ragazzi non sarebbero finiti male: «Le sono grato per come ci ha saputo capire, però è vero che Michela e io non abbiamo mai tradito la sua fiducia. Anche quando abitavamo in zone calde della città, non abbiamo mai fatto cazzate».
UNA CHITARRA PER AMICA
Ai genitori di Matteo Terzi, classe 1985, nato in New Jersey e cresciuto a Milano, è preso un mezzo colpo quando il ragazzo, fresco di laurea in Scienze politiche, ha comunicato che al contratto da precario in una casa di produzioni cinematografiche preferiva il giro dell’Europa in autostop, solo con la sua chitarra. «Era il 2009 e avevo bisogno di una prova
autentica, anche se mi faceva molta paura. L’ansia che a volte mi prendeva l’ho gestita con la musica, e ha sempre funzionato. Un giorno a Lione una bambina ha strattonato la mamma perché si fermasse, poi mi è venuta incontro e mi ha abbracciato, forse aveva visto la mia solitudine. E poi c’è stata la pasticciera che ogni volta che mi sentiva arrivava da me con caffè e dolcetti. Dopo sei mesi così, in cui conosci tutti ma non sei amico di nessuno, ho capito che la felicità per me era opporre meno resistenza possibile alla mia natura, essere soltanto me stesso. E sono tornato a casa».
Dal 2010 Matteo si mantiene grazie alle sue esibizioni e, sul finire del 2012, ha centrato un bersaglio grosso, raccogliendo 10.105 euro tramite il sito www.musicraiser.com per la realizzazione del suo primo album di inediti, in uscita in aprile. «Credo di aver presentato con trasparenza il mio progetto e 308 donatori hanno deciso di contribuire con questa modalità di raccolta fondi. Mi ero posto l’obiettivo di 8.000 euro e ho raggiunto il 126% del budget. Sono felice per me, ma anche perché ho battuto la strada per altri ragazzi. Diversi mi hanno contattato per chiedermi dritte su come fare».
Matteo in realtà era stato contattato anche dal team di X Factor, che gli aveva proposto di partecipare alle selezioni iniziali con un video. «Ho detto di no, non per snobismo, ma perché il mio sogno non è diventare famoso. Non ho alcun pregiudizio sui talent show, solo non era quello che voglio per me».
UN AMORE DI BATTERIA
Della fama a questi artisti importa molto poco. Tanto meno a uno come Simeon Monov. Bulgaro, non ama parlare del suo passato ma a tratti, dai suoi modi dolcissimi, spunta l’ombra di momenti bui. È a Milano ormai da qualche anno e gravita attorno a Sos Stazione Centrale, la struttura di assistenza ai senzatetto che si trova sotto uno dei tunnel della ferrovia, gestita da Maurizio Rotaris, vicepresidente dell’Associazione musicisti di strada di Milano (vedi box). Simeon è il batterista della Bar Boon Band, progetto musicale fondato proprio da Rotaris per raccontare in note le realtà degli homeless e, oltre a esibirsi col gruppo, ogni settimana smonta il suo strumento, lo carica su un carrello da aeroporto e se lo spinge fino in centro per i suoi show in solitaria.
«Ogni volta sono dieci chilometri a piedi, ma non mi pesano perché suonare mi rende felice. E poi, ora che sono riuscito a mettere da parte un po’ di risparmi, posso finalmente frequentare il corso di batteria che da sempre sognavo». Fare economia per realizzare un desiderio tanto grande non gli ha però impedito un giorno di dare a un altro musicista di strada 50 euro: «Non potevo non metterglieli nella cassettina, era troppo bravo».
VECCHI AMICI
Andrea Gulotta di anni ne ha 38 e, a differenza degli altri, un lavoro «regolare» ce l’ha: fa l’infermiere in un ospedale cittadino. «Ho iniziato a cantare e a suonare la chitarra in mezzo alla gente nel 1998. All’epoca incrociavo spesso un ragazzo bravissimo e tutte le volte gli chiedevo se aveva voglia di suonare con me in privato. Lui non mi prendeva mai sul serio, finché un giorno mi ha detto che, se proprio volevo intonare qualcosa con lui, potevo farlo lì. Ero paralizzato dall’imbarazzo, ma quella era la mia unica chance e mi sono buttato. Da quel momento non ho più smesso, non potrei mai rinunciare alla strada».
Una strada risanatrice di guai fisici e di screzi del passato, come dimostra la storia del compagno di tante avventure con cui, da qualche settimana a questa parte, Andrea ha ripreso a suonare: Dario Buccino. Romano, 44 anni, i più raffinati lo conoscono come compositore e ideatore del sistema HN, un sistema alternativo di partitura e di esecuzione musicale, che dal 1997 ha applicato alle lamiere d’acciaio. «Sono tornato in piazza dopo un po’ di stop, anche per via di un trauma acustico. Il medico che mi segue mi ha spiegato che la cura non è il silenzio, ma la musica. Le mie orecchie guariranno pian piano, e io intanto mi diverto».
IN UFFICIO NON CI STO
Anche Edwin Bischeri, 31 anni e una laurea in Economia aziendale in Bocconi, si gode la sua suonata quotidiana en plein air: «Sono nato in Colombia e sono stato adottato da genitori italiani. L’anno scorso mi sono stancato di vivere aggrappato a lavori temporanei, e ho deciso di dedicarmi solo alla musica. Oggi vivo delle offerte che ricevo, e mi sento realizzato come chitarrista. Ma soprattutto sono imprenditore di me stesso, altro che fare la scimmietta chiuso in un ufficio».