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 2013  marzo 13 Mercoledì calendario

«TOCCO LE BRACCIA, MASSAGGIO LE GAMBE, CI SPOGLIAMO. ALL’ULTIMO INCONTRO FACCIAMO SESSO». NON E’ UNA PORTOSTAR NE UNA PROSTITUTA. E’ UNA «PARTNER SURROGATA»

«Mi chiamo Romi, ho 35 anni e vado a letto con sette uomini. Mi pagano per farlo. Ma non sono una prostituta né una ninfomane: mi considero una guaritrice».
L’idea di soccorrere chi ha bisogno Romi ce l’ha sin da piccola: da quando, nel kibbutz sulle alture del Golan dove è nata e cresciuta, diceva che da grande avrebbe salvato il mondo aiutando le persone in difficoltà. Non immaginava però che il prossimo da curare si sarebbe presentato nel corpo nudo di Peter, ingegnere informatico di successo, ma imprigionato in una disfunzione erettile che gli impedisce di amare. Oppure nel fisico straziato di Asaf, ex militare ora costretto su una sedia a rotelle dopo essere stato colpito da una raffica di mitra in Libano.
Sono sette i clienti-pazienti di Romi. Alcuni, come Peter, sono molto attraenti, altri meno. C’è chi soffre di disturbi fisico-psicologici (eiaculazione precoce, impotenza) e chi è disabile, c’è chi è stato vittima di abusi da bambino e chi non ha mai toccato una donna. E lei è la compagna che per un periodo da tre a sei mesi li assisterà, anima e corpo.
Romi è una dei dodici partner surrogati, 8 donne e 4 uomini, dai 30 anni in su, che operano nella clinica di riabilitazione sessuale della dottoressa Ronit Aloni, unico centro a Tel Aviv e in Israele autorizzato a questo genere di trattamenti dal ministero della Salute, con tanto di benedizione del Consiglio dei Rabbini. «Io non offro sesso, ma intimità e confidenza, che nella vita reale si trovano raramente, tanto meno con una prostituta», dice Romi. «Mi ritengo una sorta di educatrice sessuale con cui fare pratica in tutta tranquillità».
«Oggi è il grande giorno per me e per Peter: se tutto va bene, avremo un rapporto completo». Sono trascorsi tre mesi dal primo contatto. L’incontro non è stato in clinica, ma in un caffè, perché «è prassi conoscersi un po’ prima di iniziare il trattamento». La volta successiva, se tutto «funziona», la coppia torna in clinica. Entra dall’ingresso di servizio e raggiunge una delle due piccole stanze del centro dedicate alla «pratica»: quadri erotici appesi ai muri, una doccia, stereo, lubrificanti e un divano letto.
«Le prime volte mi limito a toccare le mani del paziente. Poi gli massaggio le braccia e le gambe, in seguito ci togliamo i vestiti, osserviamo allo specchio i nostri genitali, giochiamo sotto la doccia. Il tutto nel massimo relax, senza fretta né imbarazzo o ansie, riportando ogni cosa al terapeuta che dirige il processo. L’atto sessuale arriva solo alla fine del trattamento».
Partner surrogati si diventa per caso. Passaparola di amici, un annuncio su un giornale. È una sorta di part-time pagato a prestazione, più o meno quanto guadagna una terapeuta per due ore di consulto, e si tende a non avere più di un incontro al giorno. In genere l’attività non dura più di 5-6 anni. «La vita privata è inevitabilmente intaccata», ammette Romi. «Il mio fidanzato non capiva, e alla fine abbiamo rotto».
I partner surrogati non devono essere attraenti o avere una laurea in Psicologia. «Sono persone normali, non modelli da rivista», dice la dottoressa Aloni, sessuologa sessantenne che ha studiato negli Usa e importato in Israele la terapia dei partner surrogati secondo le teorie di Masters&Johnson. «Immaginate un triangolo: alla base ci sono il paziente e il surrogato, in cima il terapeuta che li segue come se fossero una coppia tradizionale. E li consiglia, li istruisce».
Alla clinica c’è anche un percorso formativo per i surrogati. «Non tutti possono farlo», continua la dottoressa, «perché richiede molto dal punto di vista emotivo. Nel training insegniamo come abbracciare, toccare, baciare, e a farlo nei momenti opportuni».

Per Eva, 42 anni, non è stato facile varcare l’ingresso della clinica. Lei è una produttrice televisiva molto apprezzata e piena di amici, ma fino a pochi anni fa era ancora vergine. «Ho avuto qualche flirt, sono sempre piaciuta ai ragazzi. Al momento del dunque, però, saltava tutto. Ho sofferto di vaginismo fino a 35 anni. Pur di non affrontare questo problema, che mi impediva di avere
rapporti sessuali, mi sono concentrata sul lavoro. Ho avuto successo, e ho rinunciato alla mia vita».
A un certo punto, Eva si è resa conto che non poteva andare avanti così: voleva una famiglia. «Ho provato di tutto: psicologi, massaggi, agopuntura, tecniche di rilassamento ayurvediche. Ho scoperto molto di me, ma il problema non scompariva. Allora sono venuta qui. Non avevo un partner, almeno non uno affidabile che sapesse mettermi a mio agio. Alla clinica me ne hanno dato uno. E con lui sono riuscita a fare sesso per la prima volta nella mia vita».

Molti psicologi non apprezzano: troppe complicazioni etico-professionali, mentre l’assenza di normative fa sì che questi rapporti siano visti da alcuni come prostituzione. Dice Ruta Cohen, socia della dottoressa Aloni: «Se vuoi nuotare e hai paura dell’acqua, un tuffo nel mare ti affoga. Devi cominciare a piccole bracciate, in un ambiente sicuro, seguito da professionisti. Questa terapia funziona nel 90% dei casi».
Le pazienti di sesso femminile sono il 40% del centinaio di persone che ogni anno affrontano la terapia del partner surrogato. «Il numero è in crescita. E me ne rallegro», dice la dottoressa Aloni. «Il problema sessuale di un uomo è ritenuto una vergogna sociale che va risolta. Quello di una donna è considerato di rango inferiore, non merita neppure di essere menzionato. Come se godere pienamente della sessualità fosse un optional per le donne».

E se il rapporto professionale diventa amore? «Capita spesso che il paziente si innamori del partner», riconosce Ronit Aloni. «È normale. Chi bussa alla mia porta ha seri problemi sessuali e affettivi, anche se per l’80% si tratta di disturbi psicologici e non fisici. Da noi sperimenta per la prima volta il piacere dei sensi. Immaginate la liberazione. Ma dopo l’entusiasmo iniziale, che può somigliare all’amore, i sentimenti si placano».
Il problema vero è quando succede il contrario, e il partner si innamora del paziente. È capitato a Sarah, 48 anni, attrice di teatro, madre di quattro figli e compagna orgogliosamente infedele di Samuel: «Il sesso è un gioco, un canale di conoscenza, perché escludere altre persone? Io sono arrivata in clinica dopo aver aiutato un amico con problemi di impotenza. Non ho tabù, e mi affascina l’idea di poter guarire qualcuno con il sesso È successo una volta che mi sono innamorata, ho dovuto troncare la terapia. E non l’ho più rivisto».

La terapia dei partner surrogati è un prodotto della scuola di sessuologia americana. Nasce negli anni Sessanta, sull’onda della rivoluzione sessuale, grazie a William Masters e Virginia Johnson. Fino al 1990 erano circa 200 i partner appartenenti all’associazione di categoria, la Ipsa, ma oggi se ne contano meno di 50. I farmaci contro l’impotenza, la paura dell’Aids, l’opposizione dei terapeuti «tradizionali», la crisi economica (un trattamento costa 7 mila euro) hanno circoscritto il fenomeno. Solo in Israele, a Tel Aviv, è fiorita una clinica come quella della dottoressa Aloni.
Qui, in un grande appartamento di una decina di stanze, sono impiegate più di 40 persone. Ci sono terapeuti, medici, psicologi, life coach e ovviamente i partner surrogati. Il Consiglio dei Rabbini approva, ponendo come unico paletto che le donne partner surrogate non devono essere sposate. Il ministero della Difesa israeliano ha fatto una convenzione con la clinica, e indirizza qui reduci gravemente feriti. «Per molti di loro non c’è guarigione. Ma c’è la speranza. I disabili sono persone continuamente toccate da altri, da infermieri, massaggiatori o familiari. Con un partner surrogato possono dare e ricevere piacere. Non è una cosa da poco».
Alla clinica della dottoressa Aloni c’è anche un partner surrogato bisessuale. «Ma non abbiamo molte richieste da persone gay. Qualcuno ci ha chiesto di essere aiutato a diventare eterosessuale. Ma questo, davvero, non possiamo farlo».