Vivian Lamarque, Vanity Fair 13/3/2013, 13 marzo 2013
UN CIGNO MOLTO NERO
Mosca, 17 gennaio 2013. Cuore della notte. Sergei Filin, direttore artistico del leggendario Bolshoi, sta per rientrare nella propria abitazione dopo i festeggiamenti per i 150 anni dalla nascita di Stanislavskij.
Mentre nel cielo nero sopra di lui è in corso uno spettacolare balletto di cristalli di neve, un uomo dal volto mascherato gli si avvicina, in una mano guantata nasconde una boccetta di acido: «Filin» chiama, Sergei si volta, è un attimo, spaventose urla di dolore squarciano la notte, un’auto in attesa dietro l’angolo si porta via l’uomo mascherato a tutta velocità, mentre nel quartiere residenziale già risuonano le sirene delle ambulanze e della polizia moscovita.
La scena successiva ha luogo nel reparto grandi ustionati del maggiore ospedale di Mosca. Filin giace immobile, sotto le bende il volto sfregiato da ustioni di terzo grado, l’acido ha raggiunto anche le cornee con rischio di perdita della vista a entrambi gli occhi. Viene deciso il trasferimento in Germania: là ripetuti interventi chirurgici tentano la ricostruzione dei tessuti e delle cornee.
Parallelamente alla ricostruzione dei tessuti, iniziano indagini e interrogatori per la ricostruzione della verità, per giungere al nome del colpevole.
A Filin immobilizzato nel letto tornano alla mente le minacce anonime che da tempo riceve, le inquietanti telefonate mute notturne, le ruote dell’auto trovate bucate, recenti attacchi di hacker alla sua posta elettronica.
Tra i maggiori sospettati l’iroso e dispotico primo ballerino Pavel Dmitrichenko, luciferino interprete di eroi negativi, dal sanguinario Ivan il Terribile al malvagio Mago Rothbart del Lago dei Cigni. Filin aveva da poco negato alla giovane fidanzata di Pavel, Anzhelina Vorontsova, l’ambito ruolo di Odette.
Ma dietro le quinte del più prestigioso tempio del balletto del mondo, anche l’ombra di antichi mai sopiti rancori legati al succedersi delle nomine dei direttori artistici del Bolshoi: l’estromissione, dalla prestigiosa carica, del leggendario Yuri Grigorovich, che aveva diretto per tre decenni il teatro; e costretto alle dimissioni anche Gennady Yanin, per uno scandalo legato al mondo degli omosessuali e a ricatti per un giro di festini gay.
Chiunque appartenesse al clan dei suoi predecessori, in particolare al clan di Grigorovich, era malvisto da Filin, e tra questi Nikolai Tsiskaridze, maestro di Anzhelina Vorontsova. Insomma fosche storie di clan, faide, intrighi, complotti, ricatti e corruzione intorbidano la scena e aumentano il numero dei sospettati.
La luce della verità riesce a farsi strada anche grazie alle tracce lasciate dai cellulari e alle telecamere presenti nella strada dell’aggressione notturna: alla guida dell’auto risulta essere Andrei Lipatov, compare di Yuri Zarutsky, identificato dunque come sicario. Ma il mandante?
La ballerina Dilyara Timergazina conferma il dispostico violento carattere di Pavel che «minacciava sempre tutti», l’incalzare degli interrogatori conduce infine alla confessione sua, del sicario e dell’autista. Pavel sostiene però di aver commissionato solo una «lezione», un pestaggio, e che dell’uso dell’acido è responsabile esclusivamente il sicario che disprezzava Filin ritenendolo omosessuale benché coniugato.
L’opera volge al termine, tinta anche da esasperate tonalità di un’omofobia che alle nostre orecchie può suonare, per fortuna, datata.
Pavel Dmitrichenko, Yuri Zarutsky e Andrei Lipatov. Tre firme sotto tre confessioni fanno calare il sipario.