Michele Serra, la Repubblica 14/3/2013, 14 marzo 2013
GIANNI MURA, LO SPORT CHE RACCONTA IL MONDO
Chiunque faccia o abbia fatto il giornalista sa quanto è difficile trovare un equilibrio decente tra la mole incombente della realtà (i cosiddetti “fatti”) e la propria maniera di raccontarla. I lettori — come ogni pubblico pagante — sono severi, e selettivi: se sei troppo anonimo si annoiano. Se sei troppo narciso non si fidano. Capiscono se quello che ti importa è parlare del mondo. A modo tuo, ma del mondo. Oppure se quello che ti importa è solamente parlare di te stesso.
Quando Gianni Mura, raccontando Francesco Moser, introduce i filari di uva schiava; o quando, incontrando Nereo Rocco in quasi-esilio a Firenze, fa cenno allo strucolo (una specie di strudel del Carso) preparato dalla moglie del Paròn; o quando ancora, per le strade del Tour, riesce a intrecciare il filo febbrile della corsa con le trame del paesaggio, l’epica del cassoulet, i colori degli
impressionisti, i versi degli chansonnier;
i suoi lettori gli sono grati, gli sono amici. Mura li porta proprio lì e non altrove, li fa incontrare proprio con quelle storie, quelle persone. Tiene fermo il punto: è un giornalista, è un cronista. Ma non li lascia mai soli, i suoi lettori. Fa sì che la sua voce rimanga sempre udibile, riconoscibile, riga dopo riga. Come se tenesse alla loro compagnia, come se ogni articolo, ogni racconto, avesse il retrogusto della chiacchierata e lo stigma di un potenziale convivio (ora ci spiega che cosa bisogna bere, con il
cassoulet).
Questa sua umanità (il termine è
generico, lo so, ma non ne trovo di migliori) è, credo, il motore profondo della scrittura e del lavoro di Gianni. Dietro la sapienza del cronista che ormai le ha viste tutte, sotto la crosta del gastronomo raffinato, così come dietro le sue idiosincrasie anagrafiche (detesta internet, per lui l’informazione è ancora oggi un greve, babelico bastione di carta stampata che dalla scrivania collassa sul pavimento) si sente respirare una persona, compresi gli sbuffi di fumo e gli effluvi del bicchiere.
“Personale”, che è uno degli attributi più ricorrenti per descrivere uno stile, è nel suo caso qualcosa di più. È ciò che davvero qualifica una scrittura irriducibile, che nella baraonda e nel fracasso, nel mutare delle mode, nel consumarsi delle certezze, è sempre riuscita a conservarsi distinguibile. Non perché sia impermeabile a quello che accade. Ma perché non se ne lascia mai sommergere. In questo senso Mura è una specie di Guccini del giornalismo. Qualcosa di solido, di affidabile, di familiare che sei felice di ritrovare sempre al suo posto. Ad altri il compito di inseguire il mutamento:
sai già che comunque, mano a mano che si allunga il cammino, mentre gli anni sfumano, le poche voci che davvero contano sono quelle che hanno cercato la profondità, non quelle che si sono fidate della velocità.
Un titolo mezzo scherzoso mezzo ombroso (
Non gioco più, me ne vado. Gregari e campioni, coppe e bidoni,
il Saggiatore) contiene una ricca raccolta degli articoli di Mura sulla
Gazzetta dello sport, Epocae Repubblica.
I pezzi non sono impaginati secondo cronologia, ma accorpati in capitoloni più o meno tematici che attraversano una impressionante quantità di cronache sportive, ritratti, incontri, lettere aperte, moralità in forma di pagella (genere amatissimo dai muriani). I più remoti sono degli anni Sessanta, quelli di Gimondi e Gigi Riva, i più recenti arrivano a sfiorare i nostri anni. Vertiginosa la vastità del mare fin qui navigato, delle epoche attraversate, dal bianco e nero al colore, dagli italiani solidi e forti del dopoguerra, Bartali e Zeno Colò, ai campioni nervosi e fragili dei nostri tempi, Pantani amatissimo, altri di meno, comunque sempre rispettati dal racconto, risparmiati nel giudizio. Il cronista sportivo conosce la fatica fisica e nervosa dell’agonista, lo sforzo immane di affrontare la gara e di esporsi all’amore mutevole del pubblico, il prezzo umano della vittoria. Ha le parole di trionfo per il vincitore, ha quelle di pietà per lo sconfitto.
Leggendo e rileggendo Mura, ci si rende conto che i giudizi più duri non sono mai per chi pedala o rincorre una palla. Sono per i dirigenti, per i potenti, per gli speculatori, per i critici faciloni e scadenti. Sono per la sopraffazione economica, pubblicitaria, mediatica di quella trama sottile, eppure invincibile, che è la corsa, la partita, lo sport. C’è una sostanza nello sport, e questa sostanza è la persona che sogna e che suda, che vince e che perde. Il resto, tutto il resto, è solo una cornice che non deve mai distrarci: noi lettori di Mura lo sappiamo, e lo sappiamo perché siamo lettori di Mura.