Antonio Monda, la Repubblica 14/3/2013, 14 marzo 2013
BUON COMPLEANNO MR ROTH
Achi gli ricorda che sta per compiere ottant’anni, Philip Roth risponde: «Prevedo di arrivare al diciannove marzo vivo». Poi, dopo una risata, aggiunge «non ho programmi più importanti». Ha annunciato il suo ritiro dalla scrittura pochi mesi fa, e da allora segue unicamente la lavorazione della biografia che sta scrivendo Blake Bailey e un testo che affronterà unicamente il suo itinerario letterario, a firma di Claudia Roth Pierpont.
Per il resto dedica le giornate a piaceri che racconta di non aver provato da molto tempo: svegliarsi la mattina con comodo e senza la pressione delle pagine da scrivere ogni giorno; ignorare ogni tipo di scadenza; dormire almeno un’ora ogni pomeriggio; riscoprire i classici cinematografici del passato; frequentare con maggior frequenza gli amici fidati e, soprattutto, imparare una serie di cose completamente nuove, tra cui l’iPhone, per il quale ha comprato il manuale intitolato
iPhone for Dummies
(incapaci).
Chi lo conosce bene sa che in realtà erano anni che appariva sempre più distaccato rispetto alla narrativa, come se invecchiando il rapporto con l’espressione letteraria avesse rivelato la propria fallacia: dopo aver scritto una serie di romanzi sempre più brevi e cupi, ha cominciato a dedicarsi unicamente alla lettura di libri storici e biografie, con un particolare interesse per quelle su personaggi tragici come Stalin.
Oggi sorride di gusto quando pensa alle celebrazioni che sono state organizzate per il compleanno nella sua città natale (oltre a mostre, dibattiti e un
gala nel quale parleranno molti scrittori capeggiati da Jonathan Lethem, ci sarà anche l’opportunità di un giro in autobus nella “Newark di Philip Roth” al prezzo di 35 dollari) ma l’impressione che comunica, incontrandolo, è quello di una strana sospensione illuminata dall’ironia. Di fronte all’inevitabile declino della carne e l’avvicinarsi della fine, è come se avesse azzerato tutte le attività a cui ha dedicato una passione febbrile sino alla nevrosi, per poter ascoltare meglio ciò che è nascosto dalla quotidianità, nella speranza di trovare qualcosa che spieghi il mistero dell’esistenza.
Questo suo approccio leggero, che ha sorpreso molti amici, è il modo con cui in realtà affronta i versi di Keats messi
in esergo a
Everyman,
in particolare quelli in cui si parla di un’età in cui «il solo pensare è tutto un tormento». Perfino la scrittura che lo ha accompagnato catarticamente per 53 anni, e attraverso la quale ha realizzato numerosi capolavori, appariva negli ultimi tempi un elemento di fatica e pena, che lasciava troppe domande insolute. Una recente inchiesta pubblicata sul
New York Magazine
indica che l’ottantasette per cento delle persone intervistate lo considera il più grande scrittore vivente, e ritiene unanimemente scandaloso che non abbia ancora ricevuto il premio Nobel. Tuttavia, sin dal debutto nel 1959 con
Goodbye, Columbus,
il giudizio su Roth è controverso, e gli apprezzamenti per il folgorante talento sono andati di pari passo con accuse, quali un antisemitismo di stampo
ebraico e la misoginia: due anni, fa quando è stato insignito del Man Booker Prize, la giurata Carmen Calill è arrivata a dimettersi in segno di protesta.
In privato questo Roth del tardo autunno è un uomo estremamente spiritoso, che dimostra in ogni occasione l’intelligenza della curiosità: quando recentemente ha conosciuto Martin Scorsese, ha voluto capire perché un grande regista trovasse così bello
Scarpette rosse,
e quindi si è informato su cosa significasse girare un film in 3D. È un approccio intellettuale che mantiene con chiunque dialoghi con lui: la curiosità con cui discute le cose più disparate — dal calo della libido generata dagli antidepressivi sino alle dimissioni del Papa — riflettono il costante dialogo, evidente anche nei libri, tra elementi
dolorosamente intimi e questioni universali.
Tra gli scrittori della sua generazione frequenta Don DeLillo, che stima molto (
Pastorale americanavinse
il Pulitzer contro
Underworld,
ma l’amicizia non fu sfiorata dalla rivalità), e più raramente Paul Auster, con il quale parla quasi esclusivamente di baseball, mentre tra i giovani predilige Nathan Englander, del quale ammira l’ironia piena di angoscia e la riflessione costante sull’essenza intima della propria ebraicità. Elementi che ancora una volta riflettono qualcosa di dolorosamente personale: l’ultima volta che l’ha incontrato, lo ha rimproverato scherzosamente per essersi sposato. L’ironia nella quale traspare la sofferenza caratterizza anche il ricordo dei due matrimoni finiti: quello con Margaret Martinson, morta
in un incidente d’auto pochi anni dopo il divorzio, e quello con Claire Bloom, al quale lei dedicò
Fuori dalla casa di bambole
, uno spietato memoir nel quale arrivò a teorizzare che lo scrittore temesse che «troppa armonia sarebbe stato un ostacolo
alla sua creatività».
All’epoca Roth replicò con riferimenti
espliciti al matrimonio in
Ho sposato un comunista,
mentre oggi si limita a chiedere agli amici comuni come stia l’ex moglie e come vada la carriera di cantante lirica di Anna, la figlia che lei ebbe da Rod Steiger e con la quale lui non riuscì mai a legare. È inevitabile, incontrandolo, cercare di capire quale tra i suoi personaggi lo rappresenti maggiormente, e bastano poche parole per comprendere che i romanzi scritti in tutti questi anni compongano un unico autoritratto: Roth non è solo il suo alter ego Nathan Zuckerman, ma anche David Kepesh, come è evidente che ci siano elementi personali anche in Alexander Portnoy e perfino in Mickey Sabbath. L’amore per il cinema, che considera una forma d’arte non inferiore alla letteratura, contrasta con la cocente delusione che ha vissuto di fronte agli adattamenti dei suoi libri: l’unico che trova accettabile è
Goodbye, Columbus,
mentre a proposito della
Macchia umana
ha capito che sarebbe stato un disastro quando ha saputo di Anthony Hopkins nel ruolo del professore che occultava il fatto di essere afro-americano: «Al massimo poteva nascondere di essere gallese».
Non si sbilancia a commentare il documentario, intitolato
Philip Roth Unmasked,
che la PBS manderà in onda in occasione del suo compleanno, e quando un editor del
New Yorker
gli ha ricordato una frase di
Operazione Shylock,
in cui un personaggio «legge la Bibbia come fosse la Bibbia», ha risposto: «Sai che non era affatto male questa battuta? Forse ho fatto male a smettere
di scrivere».