Maria Novella De Luca, la Repubblica 14/3/2013, 14 marzo 2013
I FIGLI DELL’ETEROLOGA
«Ogni tanto la notte Edoardo ed io ce lo chiediamo: le diremo com’è nata? Le spiegheremo che oltre a noi due nella sua storia c’è qualcosa di altro? Qualcosa che io non avevo e un’altra donna mi ha donato. La verità è che rimuovo il pensiero — racconta Adele — Ambra è un sogno realizzato e ha soltanto due anni. Ci sarà tempo...». C’è una nuova generazione di bambini in Italia e il loro numero cresce di anno in anno. Hanno genitori “reali” e conosciuti, e altri biologici ma anonimi. Vengono concepiti all’estero grazie alle banche del seme e degli ovociti, figli dell’amore e della scienza, ma portatori anche di nuovi interrogativi, giuridici, psicologici, etici. Rivelare le origini o mantenere il segreto. Permettere l’accesso all’identità del donatore, o invece vietarla.
Sono quasi tremila i bambini che ogni anno nascono in Italia grazie alla fecondazione eterologa (quasi lo stesso numero dei bambini adottati), pratica vietata nel nostro paese ma permessa in gran parte d’Europa. Accade quando nella coppia uno dei due è sterile e per poter avere un figlio ci si rivolge a centri specializzati che forniscono il gamete “mancante” (lo sperma o l’uovo), che altri uomini e donne hanno donato, in cambio di un compenso. Ma sono sempre di più anche le donne single che diventano madri con il seme congelato, pianificando così una maternità “a prescindere”
da un compagno.
E ai centri dell’eterologa si rivolgono anche le coppie lesbiche, mentre un numero crescente di omosessuali diventano padri attraverso la maternità surrogata. Un panorama demografico che cambia ogni giorno, muta, si complica.
Daniela B. ha poco più di cinquant’anni e ne aveva poco più di quaranta quando, con una decisione sofferta, è diventata madre con la banca del seme nel centro “Azvub” di Bruxelles. «Chiamatelo Jacopo, che è il nome del suo migliore amico. Oggi ha 10 anni ed è un ragazzo sensibile ed equilibrato, ma non sarei
onesta se dicessi che non gli manca un padre. Quando ho deciso di averlo, da sola, ero reduce da più di una storia fallita, un figlio era la cosa che desideravo più al mondo. Ho fatto questa scelta, molti hanno pensato che il bambino mi fosse capitato, e me ne sono assunta tutte le responsabilità ». Daniela, ex broker di successo, dimezza i tempi di lavoro e si dedica a Jacopo. «Ho capito che dovevo raccontargli la verità tre anni fa, quando le maestre mi hanno fatto vedere un quaderno che lui teneva a scuola, e in cui scriveva delle lettere ad un papà immaginario, una specie di cavaliere forte e coraggioso. Ho dubitato fortemente della mia scelta in quel momento, mi sono sentita egoista. Poi con l’aiuto di una psicologa
ho iniziato a parlare con Jacopo: sapere esattamente com’è venuto al mondo non lo ha reso felice, ma in un certo senso lo ha tranquillizzato. E’ come se avesse messo a posto le cose...».
Jacopo, Ambra e gli altri. Figli di genitori “multipli”, generazione eterologa. Bambini che in Italia sono ancora piccoli, ma a cui in un domani molto vicino i genitori dovranno scegliere se dire o meno la verità, o quanta verità e quanto silenzio. E magari rivelare il nome del centro da cui proviene il loro donatore-donatrice, accettando il rischio, in quei paesi che lo permettono, che i ragazzi possano recuperare non solo un colore degli occhi e dei capelli, una mappa cromosomica, ma anche un nome, un indirizzo. Il dibattito è aperto, esattamente come alcuni
decenni fa per le adozioni. E la corsa alla fecondazione eterologa è così massiccia, che la nostra legge 40 pur vietandola, ha pensato di tutelare i “nati” non consentendo il disconoscimento di paternità per i bambini così concepiti. E alcuni mesi fa lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso con un documento sul tema dei diritti dei “figli della provetta”.
Spiega Maria Paola Costantini, avvocato, e legale di molte coppie che hanno fatto ricorso contro la legge 40: «Oggi l’orientamento giuridico è quello di consentire ai figli l’accesso ai dati sanitari dei donatori, ma non alla loro identità. In Italia i divieti della legge 40 hanno creato una situazione paradossale: migliaia di coppie, sempre di più, si fanno fecondare all’estero con le banche dei gameti,
i bambini poi nascono nel nostro paese, dove però del problema delle origini non si parla». Sul fronte del diritto comunque i bambini dell’eterologa sono figli della donna che li partorisce, e del padre che li riconosce, esattamente come i nati naturalmente. «Ma se volessero sapere qualcosa su di sé dovranno rivolgersi ai centri esteri dove sono stati concepiti », aggiunge Maria Paola Costantini. «Ci siamo occupati del destino dei figli dell’eterologa — dice Lorenzo D’Avack, vicepresidente del Comitato di Bioetica — perché sappiamo che diventerà urgente dare delle risposte. Nel nostro documento si afferma il principio della verità e l’accesso alle notizie di tipo genetico. Altro è invece permettere che i donatori vengano identifi-
cati. Su questo il comitato si è diviso. E personalmente credo in una verità parziale. La famiglia lo sappiamo è quella che ti alleva: per un ragazzo andare a cercare questi “non genitori” può essere soltanto fonte di delusione».
Comegiàperleadozioniiltema è controverso. Eppure in tutto il mondo si sono costituiti movimenti di “figli della provetta” che vanno alla ricerca dei loro genitori biologici. Famosissimo il caso di Olivia Prattern, che ha portato in tribunale il governo del Canada per sapere chi è quel «donatore 128» che a Vancouver negli anni Ottanta offrì il seme da cui Olivia è nata. Ma è di pochi giorni fa una sentenza tedesca che ha dato ragione ad un giovane uomo che ha ottenuto di poter conoscere l’identità del padre naturale. Laura Volpini, psicologa giuridica, segue le coppie che si rivolgono ai centri di procreazione assistita. «La letteratura scientifica afferma che ai bambini bisogna dire come sono nati, e quando amore c’era in quei genitori che pur di metterli al mondo hanno chiesto “aiuto” a un donatore. Gli studi sulle adozioni aprono la strada. A mio parere però l’accesso al nome di chi ha fornito i gameti, dovrebbe essere consentito soltanto da adulti edietro consenso del donatore».
Andreina e Matteo vivono a Milano e hanno avuto due figli con l’embriodonazione in Spagna. «Dopo dieci anni di matrimonio, ripetuti tentativi di fecondazione in vitro, e l’ammissione dei medici che entrambi avevamo un problema, al centro “Eugin” di Barcellona ci hanno fatto capire che l’unicastradaeraquelladiadottare un embrione. Sì, certo — racconta Matteo — avremmo potuto adottare un bambino già nato, e ci
abbiamo provato, avevamo anche ottenuto l’idoneità. Ma sono stati gli enti a scoraggiarci: un’attesa infinita e davanti a noi e nessuna certezza... Alice è nata nel 2007, Guglielmo nel 2011, dopo tanto dolore un’ubriacatura di felicità. E con i nostri figli abbiamo fatto come si consiglia ai genitori adottivi: la verità, sotto forma di favole. Inutile dire — aggiunge
Matteo — che a quella coppia che ha acconsentito a donare i suoi embrioni, noi saremo grati per sempre».
Del resto lo sappiamo, suggerisce con saggezza Maria Rita Parsi, attenta terapeuta dell’infanzia, «la maternità e la paternità non sono solo biologiche, ma di chi ti accoglie e ti porta nel cuore». Però attenzione: «I figli sono un dono,
ma bisogna rispettarli. C’è qualcosa di estremo in questa corsa ad averli ad ogni costo. Penso alla scelta di tante donne che già oltre i 40 anni diventano madri con le banche del seme, scegliendo di non dare un padre al loro bambino. Non credo sia giusto. Quel bambino, infatti, un padre lo cercherà, per tutta la vita».