Giulio Anselmi, la Repubblica 14/3/2013, 14 marzo 2013
E IL MONSIGNORE SIBILÒ: “TUTTI, MA NON SCOLA”
UN MONSIGNORE cerimoniere, prima della penultima congregazione generale, aveva detto, a voce bassa ma ben intelligibile: «Tutti, ma non Scola!». Augurio o vaticinio che fosse, di certo l’arcivescovo di Milano ha passato la giornata di ieri da gran papabile in un saliscendi di chance che non gli hanno permesso di chiudere la giornata con una fumata per lui bianca. Già a mezzogiorno si segnalava la “crescita” di Bergoglio, che nel Conclave di otto anni fa era stato, per numero di voti, secondo solo a Ratzinger.
La giornata, finita con la straordinaria immagine del vescovo di Roma inchinato davanti alla preghiera che il suo popolo pronunciava per lui, era cominciata cercando di cogliere i segni che cardinali vegliardi e fuori Conclave, prelati di Curia e vaticanisti decrittavano ora per ora. Voci, ipotesi, indiscrezioni. «Bertone non darebbe
mai il voto a Scola»; «né Tettamanzi»; «né Comastri». Molti parlavano, convinti però che lo Spirito Santo, come disse Ratzinger quando toccò a lui, «spira dove vuole».
«Il conclave è pieno di “grillini”», commentava a fine mattinata un vescovo risolutamente bertoniano, italiano e dimostrazione vivente che la Chiesa conta per i media ma ne è anche molto condizionata. «Gente che smantellerebbe la Curia. O che, come l’africano Onalyekan, chiuderebbe lo Ior. C’è il rischio di un papa che non risponda ad alcuna logica». Certo non sono le logiche di una Curia vissuta come potente e prevaricatrice che hanno convinto molti cardinali peones, dopo qualche voto sparso su varie
candidature, tra cui l’americano Dolan, a concentrarsi sull’argentino Bergoglio. La sua candidatura è ripartita con forza. «Ripartita»: già nel 2005 l’arcivescovo di Buenos Aires prese una quarantina di suffragi, che ne fecero il cardinale non europeo più votato nella Storia. Profilo bassissimo (alle Congregazioni dei cardinali non portava neanche lo zucchetto porpora), nella città sudamericana non vive in episcopio, ma in un appartamento,
non usa limousine. Non a caso ha scelto il nome Francesco, il santo della povertà. È molto stimato in patria e ha buoni contatti nel mondo. È un gesuita, ma sono lontani i tempi in cui la Compagnia di Gesù faceva paura per la sua potenza e il “papa nero” incombeva su San Pietro. Per muovergli una critica qualcuno dice: «Un po’ chiuso ». Ma non è questa la sensazione che ha trasmesso ieri sera al suo primo incontro con Roma e col mondo.
Il quinto voto, solo uno più che per Benedetto, ha fatto giustizia di trattative e camarille per trovare un porporato che potesse rientrare, al tempo stesso, nelle caselle di “italiano” e di “straniero”, di “diplomatico” e di “pastore”, garantendo un punto d’incontro
tra le fazioni riformatrice e curiale. Solo in parte una sorpresa, ma una mina per tanti equilibri d’Oltretevere. Colpisce che i papabili, veri e di complemento, abbiano detto del futuro pontefice nei giorni che hanno preceduto la loro chiusura in conclave: «Dev’essere santo, carismatico, deciso a governare, mediaticamente efficace». Le stesse, identiche parole, pronunciate dai loro predecessori otto anni fa. Oggi molti si affannano ad aggiungere: umile, dalla parte dei poveri, chiaro. Il quorum di 77 voti era apparso un traguardo difficile da superare. Ratzinger, da fine teologo, lo aveva voluto con determinazione. A significare che l’uomo chiamato a convincere il mondo doveva riuscirci, per cominciare, con gli eminentissimi colleghi cardinali. A quel che pare, Francesco ce l’ha fatta anche con la gente di Roma.