Piero Formica, il Sole 24 Ore 11/3/2013, 11 marzo 2013
GERMANIA E CINA A DOPPIO FILO
Ci fu un tempo in cui Europa venne sequestrata con inganno da Zeus. Oggi, ad afferrarla per mano è la Germania. La quale, soprattutto in Italia, si trova un giorno nella polvere e l’altro sull’altare, vista la sagacia mista ad astuzia con cui tiene la barra del timone navigando in acque così poco sicure come quelle dell’eurozona, perennemente agitate dalle forti correnti alimentate da litigiosità e contrasti tra i partner.
Nell’eurozona, però, si avvertono non solo le forze centripete, ma anche quelle centrifughe di una Germania globalizzata e sempre più prossima alla Cina.
Ancorato alla produzione manifatturiera (per dimensioni la quarta al mondo dopo Cina, Stati Uniti e Giappone, e pari a più del 20% dell’economia del Paese), l’export tedesco ha per anni seguito le sorti della tumultuosa espansione economica in Cina. Le fortune delle imprese-gazzelle che hanno fatto correre nel mondo l’export tedesco molto sono dipese dalla velocità della tigre cinese. Più che raddoppiate rispetto al 2007, le esportazioni verso quel Paese valevano 65 miliardi di euro nel 2011. Secondo le stime di Unicredit, in assenza di una prestazione così brillante, la crescita tedesca sarebbe stata di mezzo punto percentuale inferiore rispetto al 3% realizzato in quell’anno.
Oggi la Cina sembra voler cambiar passo, premendo sull’acceleratore dei consumi interni. E la Germania l’assiste conferendole la forza del suo know how. In cambio, la Cina le porta in dote un mercato di massa. Preziosa quella forza per un Paese in procinto di rimpiazzare la crescita estensiva alimentata dal lavoro manuale e dal capitale con la crescita intensiva nutrita dalle competenze e dalla tecnologia. Prezioso quel mercato di massa per un Paese che non vuole piombare nella grigia atmosfera dell’austerità depressiva che pervade il Vecchio continente.
In tempi diversi e quindi con parole diverse, la Kanzlerin Angela Merkel ricalca le orme del Kaiser Guglielmo II con la sua strategia politica volta a «far ricordare in Cina il nome della tecnologia tedesca per un migliaio di anni, così che nessun cinese oserà mai anche solo guardare male un tedesco». Una voce, questa della Kanzlerin, che è già stata udita forte e chiara dai 500 espositori cinesi presenti all’annuale Fiera di Hannover, lo show della forza industriale teutonica, con la Cina elevata dal governo tedesco al rango di Paese partner dell’esposizione.
Grazie all’export tedesco il fiume in piena dell’espansione cinese ha irrorato gli altrimenti aridi terreni delle economie europee. E dietro il veicolo di trasmissione della crescita proveniente dall’Asia e guidato dalla Germania si sono accodati i tre piccoli Paesi baltici, insieme a Finlandia, Olanda e Austria.
Ma la forza centripeta esercitata dalla tolemaica Merkel ha avuto anche i suoi oppositori. All’interno dell’eurozona non cessano di contrastarla le forze politiche e sociali che non vedono la via di uscita dal tunnel della crisi nell’ortodossia dell’austerità fiscale espansiva (un ossimoro?). Non l’indisciplina smodata dei conti pubblici, dicono in tanti, bensì competitività divergente e squilibri commerciali hanno provocato un infarto all’economia europea.
Tutta l’eurozona, con la parziale eccezione della Germania, è stata risucchiata in una corsa all’indietro. Una sorta di sindrome proustiana del tempo perduto che, secondo l’Economist, ha portato indietro le lancette dell’orologio di dodici anni nel caso dell’economia greca e tra i sei e i dieci anni per gli altri Paesi (circa sette per l’Italia).
Mentre ci vorrebbe la crescita per spostare in avanti le lancette dell’economia, la salute dell’eurozona permane molto instabile perché combattuta tra le forze prigioniere della cosmologia tolemaica tedesca e quelle che a essa oppongono cosmologie basate sulla relatività einsteiniana.
Essendo asincroni gli orologi dell’eurozona, ai tanti Paesi in affanno la cui crescita è in stallo dovrebbe far da contrappeso l’espansione della forte Germania. Alla quale si chiede d’incoraggiare la domanda interna con una politica fiscale espansiva, un approccio più tollerante verso l’inflazione, una riduzione dei persistenti avanzi commerciali con l’estero alzando le importazioni rispetto alle esportazioni.
Insieme al tabù dell’inflazione, è quest’ultimo il tasto più sensibile per i tedeschi che vedono nei loro successi imprenditoriali inanellati nei surplus con l’estero la virtù conquistata con tanta dura fatica per portare la Germania sul trono della competitività internazionale.
Non siamo deliberatamente alla ricerca spasmodica del surplus commerciale, dicono a Berlino, ripetendo quanto da Pechino sostiene il governo cinese. Non trascurando, d’altra parte, che le esportazioni del "ventre molle" dell’eurozona (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) verso la Germania pesano solo per il 2,5% del Pil aggregato di questi Paesi. E se incremento dell’import tedesco deve esserci, questo non può escludere dal banchetto la fidanzata cinese impedendole l’ingresso con la chiave del protezionismo europeo.
Agli altri membri dell’eurozona non resta che convivere con i legami pericolosi dell’ingombrante partner tedesco.