Mirko Molteni, Libero 13/3/2013, 13 marzo 2013
LA GROENLANDIA VUOLE VENDERSI ALLA CINA
Non lontano dal Polo Nord, inedita partita tra le sfere d’influenza cinese e americana. Parliamo della Groenlandia, la gigantesca isola colonia della Danimarca, ma da anni con una notevole autonomia, tanto da tenere ieri elezioni parlamentari locali.
Coperta per il 98 % da ghiacci spessi anche chilometri ha una superficie sette volte quella dell’Italia, quasi un minicontinente, ma è abitata solo da 57.000 persone: 88% eschimesi inuit, 12% danesi e altri europei. Un pugno di elettori ha scelto ancora la compagine di governo, l’Inuit Ataqatigiit del premier Kuupik Kleist che preme l’acceleratore dell’indipendenza totale da Copenhagen, ma deve giungere a fare a meno dei generosi sussidi pubblici danesi di 3,5 miliardi di corone l’anno (in dollari fanno 580 milioni), cioè il 30% del bilancio insulare.
Perciò intende sfruttare al massimo i giacimenti minerari, ancora in larga parte inesplorati, celati dalle distese bianche. Anche a costo di privilegiare fra i concessionari degli scavi le danarose compagnie cinesi aprendo le porte a migliaia di tecnici e minatori specializzati inviati da Pechino proprio in questa anticamera settentrionale dell’America.
Se ne discute da settimane e Kleist ha già dichiarato che sulle concessioni minerarie «non favoriremo compagnie europee a discapito della Cina. Sono tutti sono benvenuti – ha inoltre osservato – e non credo affatto che l’arrivo di migliaia di lavoratori cinesi sia una minaccia».
A loro volta, gli oppositori del partito Simiut, guidato da Aleqa Hammond e che aveva sempre governato dal 1979 al 2009, denunciano il rischio di veder aumentare di botto la popolazione di almeno il 5%, dato che i cinesi sbarcherebbero in tremila o più. L’Inuit Ataqatigiit ha dalla sua il fatto di essere il partito più propenso all’indipendenza, per la quale si erano pronunciati già nel 2008 il 75% dei groenlandesi in un referendum puramente consultivo. Nell’ultimo anno il riconfermato governo di Kleist aveva decuplicato le licenze minerarie per prospezioni ed estrazioni, sbandierando anche l’atteso disgelo dei mari artici come toccasana per consentire alle navi cargo di poter in futuro approdare anche nelle coste settentrionali dell’isola durante la maggior parte dell’anno.
Il sottosuolo groenlandese, del resto, fa gola a Pechino poiché trabocca di oro, uranio, ferro e tutti quei metalli dai nomi bizzarri accomunati sotto la dicitura «terre rare», indispensabili all’industria elettronica e di cui la Cina da sola oggi produce il 97% mondiale. Stando a inchieste dell’Unione Europea, la Groenlandia racchiuderebbe nelle sue rocce oltre il 9% delle riserve mondiali di questo gruppo di minerali, fra cui europio, zirconio e ittrio. Ma a Pechino interesserebbe anche il ferro, in particolare tramite i capitali cinesi con cui la britannica London Mining vorrebbe darci dentro con gli scavi. E senza contare petrolio e carbone, residuo delle estese foreste tropicali dell’ancora calda Groenlandia preistorica.
L’America non sta a guardare e il suo colosso dell’alluminio, l’Alcoa, è pure in prima fila, ma a preoccupare è soprattutto che l’influenza economica cinese in un Paese ormai quasi indipendente, ma debole e sottopopolato, faccia da apripista all’egemonia politica. Nell’isola Washington conta dal 1943 l’importante base di Thule, dapprima «tana» di bombardieri strategici e caccia intercettori, poi dal 2002 sede di radar dedicati a individuare missili nemici lanciati verso gli Usa e comunicarne la posizione alle batterie dello scudo antimissile. Un piede cinese nell’isola gelata sarebbe un cavallo di Troia.