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 2013  marzo 11 Lunedì calendario

D’ALEMA, IL RE DELL’INCIUCIO CHE SOGNA IL TRONO DEL COLLE

Per anni, Massimo D’Ale­ma si è considerato l’or­chidea della politica. Og­gi, quasi sessantaquattrenne, è approdato alla formula più umi­le che Giulio Andreotti applica a sé: «Poco se mi considero. Molto se mi comparo». Si sente il migliore ma senza l’ansia di dovertelo sbattere in faccia co­me prima. Tanto che ha lascia­to il Parlamento dopo un quar­to di secolo, diradando intervi­ste e interventi. Eppure, ogni volta che rie­merge fa capire che per lui il po­sto giusto è il Quirinale. Se chiacchiera con un giornale, chissà perché, una domandina sulla salita al Colle arriva sem­pre. In genere risponde: «Non spetta a me decidere» ma sottin­tende che sarebbe sacrosanto. Anche se parla d’altro in pubbli­ci dibattiti, allude sempre alla sua successione a Napolitano. È accaduto quattro giorni fa alla Direzione del Pd. Mentre il parterre tifava Bersani che face­va gli occhi dolci al M5S, D’Ale­ma ha proposto un governissi­mo con il Pdl. «Non credo che possiamo rinunciare a fare un discorso sulla Destra e alla De­stra. La Destra esiste...», ha det­to. Aggiungendo: «Se in vent’anni in Italia non si sono fatti passi avanti è perché non si è fatto nessun compromesso con la Destra». Poiché, però, cir­colava voce volesse mettersi in vista per candidarsi al Colle e sentendo inoltre che la platea era contro l’alleanza col Pdl, ha prudentemente aggiunto: «Na­turalmente, nulla di tutto ciò è possibile.L’impedimento è Sil­vio Berlusconi ». Così, dopo ave­re lanciato il sasso, ritirava la mano. Fare un passo avanti e due indietro, è tipico di D’Ale­ma. Questa intima viltà ne an­nulla l’originalità delle idee ri­spetto al pensiero unico del suo partito.
Max è il più togliattiano degli ex comunisti. Questo non è so­lo dargli del cinico alla Togliatti ma riconoscergli l’analoga ca­pacità di uscire dagli schemi. Quando nel dopoguerra il Mi­gliore inserì il Concordato nel­la Costituzione per garantire la pace religiosa, amnistiò i fasci­sti per promuovere quella civi­le, e calamitò le ex camice nere per farle diventare rosse, aprì sentieri non battuti, compien­do atti impensabili.
D’Alema, nel suo piccolo, ha fatto cosettine così. Quando nel 1997 si trovò la mina vagan­te di Totò Di Pietro che, uscito dalla magistratura, minaccia­va di aizzare la piazza (pescan­do tra la marea dei giustizialisti di sinistra), ci mise sopra il cap­pello e lo fece senatore nelle li­ste Pds. Una piratata per tener­lo sotto controllo. Poco impor­ta che p­oi Di Pietro abbia conti­nuato a essere una scheggia im­pazzita, Max aveva comunque provato a imbrigliarlo.
Da decenni, il demone dei si­nistri è il Cav. D’Alema è stato il solo che ha tentato di conviver­ci. Una volta (2005) disse perfi­no che «Fininvest è un patrimo­nio del nostro Paese», quando per gli altri era solo l’emblema del conflitto d’interessi (e Ber­sani promette tuttora sfracelli al Biscione). Con la Bicamerale per le Riforme costituzionali ­febbraio 1997, giugno 1998 -Max, che la presiedeva, si mise di fronte al Cav e teorizzò che «era una realtà del Paese con la quale era necessario confron­tarsi ».Un’ovvietà per gente sen­sata (avendo il Berlusca dieci milioni di voti), ma una bestem­mia nel mondo alla rovescia del­la sinistra. Tanto che per quelle aperture, D’Alema fu preso di mira dai suoi. L’allora premier, Prodi, parlò di «Bicamerale del nulla»; il pm Gherardo Colom­bo, capofila delle toghe militan­ti, la definì «figlia del ricatto»; Sylos Labini, intellettuale orga­nico, parlò di «responsabilità gravissime del leader dei Ds». Così,nonostante l’accordo sul­la riforma della Giustizia e sul presidenzialismo, il Nostro fu preso da gran fifa per questi ru­mori di fondo e cominciò a cin­cischiare, finché tutto finì al­l’aria.
Portato per indipendenza in­tellettuale a rompere i tabù del­la sua cerchia, D’Alema non ha il fegato di andare a fondo. Que­sto lo omologa a un qualsiasi ciompo della politica e, per co­me la vedo io, lo rende disadat­to a fare l’arbitro dal Quirinale. D’altra parte,ce lo vedete voi ri­volgere un saggio discorso di fi­ne anno, lo stesso tizio che ha trattato da «energumeno tasca­bile » Renato Brunetta e che- in­vocando a parole il rispetto del­le Istituzioni­frombolava di im­properi il suo premier: «Quelle di Berlusconi sono scemenze», Berlusconi dice solo bischera­te », «È un trombone», «Porta iel­la »? È immaginabile che faccia il garante della libera stampa e riceva amabilmente i giornali­sti sul Colle chi li ha apostrofati come «iene dattilografe» e che in tv sibilò ad Alessandro Sallu­sti, con toni alticci: «Vada a farsi fottere. Lei è un bugiardo e un mascalzone»? Se è così, si acco­modi pure Beppe Grillo.
Messo poi alla prova, che ha fatto D’Alema come presidente del Consiglio, tra il 1998 e il 2000? Due cose, nessuna meri­toria. Ci infilò (senza voto del Parlamento) nell’unica guerra dopo mezzo secolo, mandan­do l’Aeronautica a bombarda­re Belgrado. Poi si appassionò ai grandi affari, avallando la sot­trazione della Telecom, che era pubblica, da parte di un avven­turoso gruppo privato, quello di Colaninno e la «cordata pada­na ». Un vorticoso giro di miliar­di di cui Baffino fu il pivot e che suscitò l’ironia dell’ex parla­mentare di sinistra e noto avvo­catone, Guido Rossi, che definì il dalemiano Palazzo Chigi «l’unica merchant bank (una Goldman Sachs, per intender­ci) in cui non si parla inglese».
Devo ricordare il «Facci so­gnare! Vai!» di Max via telefono al presidente di Unipol, Giovan­ni Consorte, che stava per fago­citare la Bnl per darla al partito su un piatto d’argento?O la tan­gente sottobanco di venti milio­ni avuta nel 1985 da Francesco Cavallari, il re delle cliniche pu­gliesi? Si seppe dieci anni dopo per ammissione di Cavallari al pm Alberto Maritati. Interroga­to a sua volta, lo ammise anche Max e Maritati- che non lo pote­va più perseguire per sopravve­nuta amnistia­ ne elogiò le «lea­li dichiarazioni». Fu carino da parte sua che, carineria per cari­neria, l’anno dopo divenne se­natore del Pds. E il rapporto di D’Alema con la verità, dove lo mettiamo? Quando nel 1995 Bossi abban­donò il Cav, D’Alema tentò di annetterlo dichiarando al Ma­nifesto (31 ottobre): «La Lega c’entra moltissimo con la sini­stra, è una nostra costola». Il 29 marzo del 2011, disse invece: «Mai detto che la Lega è una co­stola della sinistra, questa è una leggenda popolare». Tutto­ra, si ignora come abbia pagato l’Ikaro II, la sua barca. Ha detto nell’ordine che:era in compro­prietà; aveva acceso un mutuo; era stata acquistata con la ven­dita dello scafo precedente, l’Ikaro I,e un appartamento ere­ditato. L’ultima è stata: ho avu­to lo sconto, il costruttore me la voleva regalare perché gli face­vo réclame ma ho insistito per pagare almeno metà prezzo. Vogliamo davvero una lingua biforcuta al Quirinale?