Sandra Amurri, il Fatto Quotidiano 13/3/2013, 13 marzo 2013
CHI VA ALL’ESTERO, CHI CHIUDE L’AGONIA MUTA DELLE MARCHE
Mentre a Roma si discute di governi Bersani, governi tecnici, o elezioni subito, nelle Marche le aziende continuano a morire come mosche. L’ultima in ordine di tempo è la Faam di Federico Vitali, insignito il 2 giugno scorso del titolo di Cavaliere del Lavoro, ex presidente di Confindustria Marche, membro del comitato territoriale di UniCredit. La Faam, quasi 100 milioni di fatturato, leader in Italia e nel mondo nel comparto degli accumulatori di energia, con sedi a Monterubbiano in provincia di Fermo, a Manfredonia in Puglia e con uno stabilimento di 10 mila metri quadrati a Xuschem nello Jangau in Cina, pronta a sbarcare in Brasile, con l’obiettivo di raggiungere in 8 anni un fatturato complessivo di 300 milioni di euro, un’azienda così è stata messa in liquidazione.
Alcuni giorni fa, la Faam ha siglato un accordo di affitto integrale alla Fib srl, società del gruppo Seri di Caserta, specializzata nel fotovoltaico e nell’edilizia. Fib si è impegnata a riassumere subito circa il 50% degli oltre 250 lavoratori e per il resto verrà attivata la cassa integrazione straordinaria per un anno. Prosegue una moria di piccole, medie e grandi imprese come la Indesit di Merloni che, dopo aver delocalizzato in Polonia, ricorre alla cassa integrazione.
IL DISTRETTO calzaturiero, il più grande d’Europa e uno dei più grandi al mondo, si sta prosciugando. Si salvano solo le aziende che fanno internazionalizzazione, che esportano scarpe di lusso, qualità che spesso va a discapito della quantità e dunque dell’occupazione. Quella delle Marche, secondo i dati Cerved, è la seconda regione dopo il Friuli per tasso di fallimento di società di capitale. Mentre secondo i dati dell’Inps, elaborati dall’Ires-Cgil, nelle Marche nel 2012 sono state richieste e autorizzate oltre 38 milioni di ore di cassa integrazione: il valore più alto dall’inizio della crisi, equivalenti al mancato lavoro di oltre 21 mila persone. Dal 2008 a oggi, le ore di cassa integrazione richieste e autorizzate superano i 133 milioni pari al mancato lavoro di circa 74 mila persone. Dati che confermano che la crisi non molla e che anche per quest’anno si annunciano grandi difficoltà per il tessuto produttivo e soprattutto per migliaia di lavoratori.
Le famiglie, anche in quella che veniva considerata un’isola felice, sono allo stremo. Colpa della crisi, ma non solo. Mariangela Paradisi, docente di Economia dell’Università politecnica delle Marche, se la prende con una politica industriale “miope e suicida”, che risale ai tempi dell’allora ministro dell’Industria Pier Luigi Bersani che varò nel 1999 una legge sui distretti industriali all’insegna del “Piccolo è bello”. Uno slogan che oggi non vale più. La legge, nelle Marche, tipica regione distrettuale, ha consentito finanziamenti a pioggia ai sistemi territoriali (ai territori, non ai settori), artificiosamente denominati distretti. E ne ha beneficiato solo la politica: sindaci, associazioni di categoria, sindacati, consulenti. Senza alcun vantaggio per le piccole imprese manifatturiere. Anzi, è stata rallentata quella “selezione naturale”, indolore se progressiva, e quella “crescita dimensionale la cui strutturale carenza ci sta oggi massacrando sia sul mercato interno che su quello internazionale”, dice la professoressa Paradisi secondo cui “si assisteva e si finanziava l’attività di imprese spesso decotte soltanto perché localizzate in un comune parte di un fantomatico distretto delimitato artificiosamente sulla cartina geografica”. E così, altre imprese magari virtuose ma con la sede nel posto sbagliato, venivano abbandonate. Un enorme spreco di denaro utile però per trovare consensi per gli amministratori regionali. “Un errore storico della politica da cui dipendono gran parte delle nostre attuali disgrazie” secondo la professoressa Paradisi.
UN GIUDIZIO che chiama in causa la vecchia politica. Quella che anche nelle Marche è stata spazzata via dal Movimento 5 Stelle divenuto il primo partito. E che ora dovrà dimostrare di saper trovare soluzioni concrete. Che fare come prima cosa? “Assistere subito i lavoratori espulsi definitivamente dalle fabbriche”, risponde la dottoressa Paradisi. Non ci sono illusioni di rientrare. E inoltre: “Favorire la mobilità, territoriale e settoriale. Puntare sul trasporto pubblico, bloccare la speculazione sugli affitti, ampliare l’offerta di abitazioni a prezzi accessibili, intermediazione del lavoro, rilancio dei centri per l’impiego, riqualificazione professionale vera. Una diversificazione come ritorno alla campagna, all’agricoltura, al turismo. La realtà è drammatica, stare con le mani in mano può solo portarci alla disgregazione del tessuto sociale e umano”, prosegue la Paradisi. Per dirla con Eduardo Galeano occorre pensare a uno “sviluppo che non sia più un viaggio con più naufraghi che naviganti”.