Mara Accettura, D, la Repubblica 9/3/2013, 9 marzo 2013
SOLO MIO
«C’è un bambino di 7 anni, figlio di separati, in casa famiglia dall’estate scorsa. Il 21 giugno scorso, alla fine della scuola, è stato ospedalizzato per cinque giorni perché non voleva andare col padre, a cui era stato affidato. Il bambino piangeva, si dimenava e nessuno sapeva cosa fare. Alla fine di una giornata terribile, alle due di notte, i servizi sociali con il medico curante hanno deciso di chiamare un’ambulanza e di farlo ricoverare in ospedale per cinque giorni non perché avesse bisogno di cure o fosse stato maltrattato, ma perché si era in attesa di un fax dal tribunale che accordasse il trasferimento in casa famiglia proposto dai servizi».
Lo racconta Vincenzo Spadafora, Garante nazionale dell’infanzia e adolescenza. Se la memoria vi fa tornare alle immagini terribili del bambino di Padova strattonato davanti alla scuola dalle forze dell’ordine qualche mese fa, sappiate che scene simili avvengono tutti i giorni. E le violenze non finiscono sulla strada. «Da allora il bambino, che ha iniziato una terapia psicologica, vede la mamma e il papà 50 minuti a settimana», continua Spadafora. «Che significa niente. Questo mese sia la madre che il padre vorrebbero passare il compleanno con lui, ma il tutore e la responsabile della struttura sono contrari. Ad aprile il tribunale deciderà se potrà lasciare la casa famiglia, a quel punto sarà passato quasi un anno e comunque andrà a finire la storia il bimbo si ritroverà nel mezzo di un conflitto, perché i suoi genitori sono litigiosissimi».
Se un minore finisce in ospedale, ci rimane per per cinque giorni e poi approda in una casa famiglia a tempo indeterminato, anche se i genitori sono persone in sé assolutamente capaci e c’è anche una nonna che si è offerta di tenerlo, se le istituzioni si palleggiano goffamente la patata bollente, se simili aberrazioni avvengono, c’è qualcosa nell’attuale sistema che non funziona. «Aldilà delle intenzioni è un sistema che, nella piena legalità, incentiva la conflittualità invece di frenarla», dice lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro. «Qualche tempo fa i servizi sociali sono entrati in una scuola romana per prelevare un bambino di 11 anni. Così, sotto gli occhi di tutti. Gli insegnanti si sono opposti ed è dovuta intervenire la polizia», racconta Gian Ettore Gassani, presidente dell’Ami (Avvocati Matrimonialisti Italiani).
La situazione è allarmante. Soprattutto per l’aumento di procedure violente. Per esempio i collocamenti nelle case famiglia, una volta una rarità e un’extrema ratio, sono aumentati in modo esponenziale: il 30 per cento in più, 20mila all’anno. «Ci sono ogni anno 150mila bambini contesi, ovvero sottoposti a verifica giudiziaria nelle cause di separazione, il 35 per cento del totale. Un numero enorme che passa sotto le forche caudine di un tribunale ordinario e dei minorenni. Sono procedure cruente che mirano a fare fuori l’altro genitore, a togliere o a sospendere la patria potestà», continua Gassani.
Nella maggior parte dei casi le loro situazioni passano inosservate o si consumano dietro facciate ermeticamente chiuse. «Le conoscono soltanto coloro che le stanno vivendo - le famiglie - e coloro che dovrebbero evitarle o provvedere a pacificare gli animi e cioè gli addetti ai lavori, gli avvocati, i magistrati, gli psicologi, gli assistenti sociali, forze dell’ordine e legislatori», continua Scaparro. «Se si visitassero gli archivi di un grosso tribunale e si desse uno sguardo alle memorie di un genitore contro l’altro, sembrerebbe che si sono sposati due mostri. La guerra tra genitori mostrifica e distrugge la psiche».
Bisognerebbe eliminare la distanza temporale tra separazione e divorzio, che oggi può arrivare a 15 anni e costare parcelle stratosferiche. L’attuale sistema giudiziario, lasciando fermentare il conflitto con le sue lungaggini, involontariamente partecipa a questa «mostrificazione», trasformando persone che si sono amate - e che hanno creduto in un progetto di vita insieme - in due estranei che hanno interessi opposti ma restano avvinghiati in una danza mortale fatta di odio, recriminazioni e frustrazioni. Dietro la polarizzazione del conflitto c’è il dolore del fallimento. In mezzo ci sono i figli che diventano lo strumento più affilato per farsi ancora più male. «Nella contesa genitoriale ognuno pensa di voler bene al proprio figlio come nessun altro, tutti sbandierano l’interesse per il bambino», continua Scaparro. «Ma il vero interesse del bambino è la pace, cioè affetti e legami stabili e sicuri. L’angoscia più grande per un figlio è quella che nasce dalle battaglie tra genitori, che per il possesso dei figli si prendono “a bambinate”, spesso coinvolgendo tutto il clan familiare».
La legge 54 del 2006 sull’affido condiviso (di cui è stata chiesta una modifica nella scorsa legislatura) avrebbe dovuto mettere pace stabilendo una parità assoluta tra i genitori. Nella realtà però «l’affido condiviso si sta rivelando un fallimento perché è difficilmente realizzabile», dice Spadafora. «Non si può pensare di far vivere il bambino tre giorni e mezzo con un genitore e tre giorni e mezzo con l’altro. Nei primi anni di vita poi la figura della madre è fondamentale se non altro perché il bimbo otto volte su dieci vive da lei che riesce a essere più presente».
C’è anche un altro problema. Oggi l’affido condiviso è automatico, salvo dimostrare che il coniuge è pedofilo, alcolizzato, tossicodipendente e così via. «I genitori si ritengono ancora proprietari esclusivi dei figli e pur di circumnavigare la legge confezionano calunnie. Il tribunale nell’attesa di verificare le accuse sospende gli incontri. I giudici, che non hanno molto tempo per dedicarsi ai singoli casi, non vanno per il sottile», dice Gassani.
Di qui alla casa famiglia il passo è breve. «Oggi c’è una vera e propria deriva. I bambini ci vengono collocati per sei mesi prorogabili. Lì dovrebbero essere “rigenerati” da una massa di estranei. Le case famiglia sono spesso strutture all’avanguardia ma anche se fossero alberghi a cinque stelle, a un bimbo senza mamma e papà non gliene importerà nulla. C’è un’ipocrisia incredibile in questo ulteriore distacco del bambino e noi avvocati censuriamo questa prassi. Non dobbiamo mai dimenticare che i figli sono persone non proprietà di persone. Non c’è genitore di serie A o di serie B, l’altro non deve essere defenestrato. Una mamma dice “non voglio far vedere i figli a mio marito”, ma così non si va da nessuna parte». Bisognerebbe introdurre prima del processo un percorso obbligatorio di mediazione come accade in tanti altri Paesi europei dove la contesa viene stroncata sul nascere perché la disgregazione di un divorzio può distruggere la psiche. «Io dico che bisognerebbe iniziare addirittura dalla scuola per far capire ai ragazzi che cosa significa fare i genitori. Spiegando che un figlio sarà sempre responsabilità di entrambi e che anche se non si va d’accordo si deve mantenere un impegno comune per assicurare non solo la sicurezza fisica ma anche lo sviluppo affettivo», dice Scaparro.
Alla base di tutti questi problemi però rimane il problema di un’infanzia che nel nostro paese, malgrado i proclami, non è sufficientemente rispettata (vedi box). «Nello specifico di separazioni e divorzi, l’ordinamento italiano, in linea con le indicazioni sovranazionali, prevede che il giudice possa sentire il “figlio minore che abbia compiuto 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento”, soprattutto quando non c’è accordo tra coniugi», dice Spadafora. «Occorre però che sia realizzato con i massimi accorgimenti, da persona specializzata, senza strumentalizzazioni: deve essere garantito, quindi, che coinvolgere direttamente il bambino nel procedimento sia davvero nel suo superiore interesse. Il mondo degli adulti, in generale, stenta a riconoscere il valore dell’ascolto del minore, della sua partecipazione alle decisioni che lo riguardano e del ruolo che in generale potrebbe svolgere nella società se riuscisse a esprimersi liberamente».