Federico Rampini, D, la Repubblica 9/3/2013, 9 marzo 2013
CHI VIENE IN AMERICA?
Mi dimetto da italiano, è la battuta che ho sentito in bocca a diversi amici qui a New York dopo il risultato elettorale. Ne conosco che stanno pensando di prendere la cittadinanza americana (la quale, peraltro, si può sommare con la nostra), anche perché quel voto li ha privati dell’ultima speranza di una rinascita del nostro paese.
Non è un dibattito ozioso. Non è un lusso snobistico riservato a pochi appartenenti a un’élite delle carriere internazionali, che possono "scegliersi una patria". No, oggi ci sono tanti giovani italiani che stanno soppesando questa scelta per il proprio futuro: di qua o di là? Basta frequentare un po’ le università americane per vederli: entusiasti, bravissimi, preparati e agguerriti per competere con i migliori studenti da tutto il mondo. Si sentono italiani e tuttavia traditi dal proprio paese che nel sistema universitario e anche in altre professioni è stato avaro di opportunità verso di loro.
Tra loro c’è anche qualche figlio di papà. Ma nella maggioranza non sono dei privilegiati, perché le borse di studio per venire qui in America se le sono conquistate a furia di sacrifici, fatica, passione per lo studio. Non sono venuti qui perché attratti dal denaro, fare il ricercatore universitario in America non vuole dire diventare ricco. Però qui i fondi per fare ricerca esistono e non vengono tagliati. L’alternativa in Italia troppo spesso è un precariato a vita, stipendi umilianti. Questi problemi ci affliggono da lunga data, non si possono attribuire a un singolo governo. Ma il risultato di un’elezione può essere la goccia che fa traboccare il vaso, la spinta finale per un giovane che sta riflettendo sul proprio futuro e su quale paese vuole scommettere.
Non siamo i soli, e non è la prima volta che questo accade. Qui a New York ho degli amici spagnoli che vivono una situazione simile alla nostra. E ricordo un tempo in cui alcuni amici americani erano nauseati dal proprio paese: dopo la rielezione di George W. Bush nel 2004 nella sinistra radicale lo slogan era "andarsene in Canada". Pochi anni dopo, vennero l’orrore per gli scandali di Wall Street e gli enormi danni sociali provocati dalla mala-finanza. Viviamo in un’epoca in cui per la prima volta una parte non marginale della società può "votare con i piedi", lasciare un paese in cui non si riconosce, o nel quale non vede futuro. Ripeto, non è più solo un privilegio riservato ai Gérard Depardieu. I ricchi che emigrano per pagare meno tasse sono sempre esistiti. Il fenomeno nuovo è l’emergere di una vasta categoria di nomadi globali, già trapiantati all’estero o pronti a spiccare il volo, in tanti rami di attività che sono all’avanguardia dell’innovazione, o della medicina, o della creatività artistica, dove le frontiere sono diventate più fluide ed elastiche rispetto al passato. Di recente ho fatto amicizia qui a New York con un enfant prodige della lirica italiana, il maestro Michele Mariotti da Pesaro, 33 anni. Il Metropolitan lo chiama a dirigere Rigoletto e Carmen perché riconosce il suo talento. Non è una star, ha un tenore di vita semplicissimo, l’unico "lusso" che si concede qui a New York nei momenti liberi dal lavoro è giocare a basket in palestra.
Una sera fra amici si discuteva se prendere o meno la cittadinanza americana. Ognuno vede i pro e contro in questo paese, gli Stati Uniti hanno difetti enormi e talvolta ripugnanti: dalla cultura delle armi alle diseguaglianze sociali. Mia moglie Stefania ha risposto così: "Non posso dimenticare cosa l’America mi ha dato. Arrivai qui 13 anni fa, alle spalle mi lasciavo un mestiere che non era mai stato la mia passione. Il mio vero sogno era insegnare. Ho ricominciato da zero in un paese dove non ero nessuno e non conoscevo nessuno, all’età di 46 anni e con una laurea italiana, mi è stato consentito di dimostrare cosa sapevo fare. Ho potuto lanciare l’insegnamento dell’italiano in un liceo di San Francisco, mi hanno premiata fino a dirigere il dipartimento lingue straniere. Nessuno mi ha chiesto da dove venivo, chi conoscevo, se mi raccomandava qualcuno. Non credo che sarebbe stato possibile in Italia e neppure in altri paesi europei". L’America è il paese che, dopo soli cinque anni di permesso di residenza (Green Card) ti dà il diritto di diventare cittadino. E non ti chiede di rinunciare alla tua nazionalità originaria. Puoi trovarle mille difetti, puoi sentirti italiano per sempre e fino al midollo, puoi essere determinato a tornare nel tuo paese, perché non ci si dimette mai veramente dalla propria storia. Ma c’è qualcosa che affascina anche nel semplice esame per l’accesso alla cittadinanza. Due sole cose ti chiedono per diventare americano: sapere un po’ d’inglese, e la Costituzione.