Graham Hill, la Repubblica 13/3/2013, 13 marzo 2013
VIVO AL MINIMO
Abito in un monolocale di 40 metri quadrati. Dormo in un letto a ribalta. Ho sei camicie. Ho 10 ciotole che uso per tutte le portate. Quando c’è gente a cena apro il mio tavolo allungabile. Non ho un solo cd o dvd e ho il 10 per cento dei libri che avevo una volta.
È un bel salto rispetto alla vita che facevo alla fine degli anni 90, quando, pieno di soldi per la vendita di una start up su Internet, avevo una gigantesca casa piena zeppa di sciocchezze - aggeggi elettronici, elettrodomestici, gadget e automobili.
In qualche modo tutta quella roba ha finito con l’essere padrona della mia vita; le cose che consumavo sono arrivate a consumarmi. Il mio caso è insolito (non tutti si ritrovano ricchi grazie a Internet prima dei trent’anni) ma il mio rapporto con le cose materiali non lo è.
Viviamo in un mondo di oggetti in eccesso, di scatoloni di cartone dove stiparle e di occasioni di shopping online 24 ore su 24. A ogni livello sociale le persone possono sommergersi di prodotti e lo fanno. Non c’è un solo segnale che qualcuna di queste cose abbia reso chicchessia in qualche misura più felice; in realtà sembrerebbe vero proprio il contrario.
A me sono serviti 15 anni, un grande amore e molti viaggi per liberarmi di tutte le cose non essenziali che avevo accumulato e vivere con meno una vita più ricca, più ampia, migliore. Iniziò tutto a Seattle nel 1998, quando io e il mio socio vendemmo la società di consulenze Internet che avevamo creato, la Sitewerks, per più soldi di quanti credevo di arrivare a guadagnare in una vita intera.
Per celebrare l’evento comprai una casa di 330 metri quadrati su quattro piani a Capitol Hill, il quartiere trendy di Seattle, un nuovissimo divano modulare nuovissimo (il primo in assoluto) un paio di occhiali da sole da 300 dollari, una montagna di gadget. E, naturalmente, una Volvo turbo nera. Con avviamento a distanza.
Lavoravo molto e non avevo tempo per finire di trovare tutto quello che mi serviva per la casa. Così assunsi come personal shopper un tizio di nome Seven, che diceva di essere stato l’assistente di Courtney Love. Andava nei negozi di mobili, elettrodomestici, elettronica. Scattava Polaroid degli oggetti che pensava potessero piacermi per riempire la casa, poi io le guardavo e procedevo, in una baldoria di shopping virtuale.
Il mio successo e le cose che mi aveva comprato si trasformarono presto da favola a normalità. Diventai insensibile a tutte loro. Non ci volle molto prima che cominciassi a chiedermi perché la mia vita teoricamente migliorata non sembrava migliore e perché io mi sentivo più ansioso di prima. Era inutilmente complicata. C’erano prati da falciare, scoli da pulire, aspirapolvere da passare sui pavimenti, coinquilini da gestire (perché mi era sembrato assurdo tenere vuota una casa così grande), un’automobile da assicurare, lavare, riempire di benzina, apparecchiature tecniche d’ogni tipo da registrare, riparare, mantenere in funzione. La mia casa e le mie cose erano i miei nuovi principali, datori di un lavoro per il quale non avevo mai fatto domanda.
Poco dopo aver venduto la società di consulenza mi ero trasferito a New York per lavoro, dove avevo affittato un loft di 180 metri quadrati a Soho. Il nuovo appartamento aveva bisogno di mobili, stoviglie, elettrodomestici, eccetera - il che prese altro tempo ed energia. E dato che il luogo era così grande, mi sentii in dovere di cercare dei coinquilini - il che richiese ancora altro tempo e altre energie. Avevo sempre la casa di Seattle, così mi ritrovai a dovermi occupare di due case. Quando poi decisi di stabilirmi a New York, chiudere la casa di Seattle e sbarazzarmi di tutto quello che c’era dentro mi costò una fortuna e mesi di viaggi da una costa all’altra, oltre a dei micidiali mal di testa.
Sono un fortunato, ovviamente: non tutti guadagnano un sacco di soldi con la vendita di una start up online. Ma non sono l’unico con una vita ingombra di beni in eccesso.
In uno studio dal titolo “La vita domestica nel ventunesimo secolo”, i ricercatori dell’Università della California hanno esaminato 32 famiglie della classe media di Los Angeles e scoperto che nelle madri tutti i picchi di crescita degli ormoni dello stress avvenivano durante il tempo che dedicavano ad avere a che fare con le loro proprietà. Il 75 per cento delle famiglie analizzate nello studio non poteva parcheggiare le automobili in garage perché era troppo pieno di cose.
La nostra passione per le cose materiali influenza quasi tutto nelle nostre vite. Nel 1950 le dimensioni medie di una casa americana appena costruita erano di 91 metri quadrati. Nel 2011 erano diventati 230. Nel 1950 in ogni casa americana vivevano in media 3,37 componenti. Nel 2011, si era scesi a 2,6. Ci prendiamo più del triplo dello spazio pro-capite che ci prendevamo sessant’anni fa. A quanto pare però nelle nostre case gigantesche non c’è spazio per tutto ciò che possediamo: lo dimostra il giro d’affari di 22 miliardi di dollari della nostra industria dei servizi di deposito e custodia.
L’enorme consumo ha conseguenze globali, ambientali e sociali. Come ha illustrato un recente rapporto del Congresso, l’aumento delle temperature, l’acidificazione degli oceani, lo scioglimento dei ghiacciai e della calotta artica, sono «provocati principalmente dall’attività umana». Molti esperti reputano che il consumismo abbia un ruolo importante nello spingere il nostro pianeta sull’orlo del baratro. E molti dei prodotti a poco prezzo che compriamo sono spesso fabbricati all’estero da manodopera sfruttata, dove sono in vigore norme ambientali molto permissive.
Ma tutto questo infinito consumo, porta a un quantificabile aumento di felicità?
In uno studio recente, lo psicologo della Northwestern University, Galen V. Bodenhausenin ha posto in relazione il consumo con il comportamento antisociale e aberrante. Il professor Bodenhausenin ha trovato che «a prescindere dalla singola personalità, in situazioni che attivano uno stato mentale da consumatore, le persone esprimono gli stessi tipi di comportamenti problematici verso il benessere, incluse emozioni negative e disimpegno sociale». Benché l’attività del consumatore americano sia considerevolmente aumentata dagli anni 50 in poi, i livelli di felicità sono rimasti invariati.
Non so se le cose che ammassavo nel mio loft rientrassero realmente in un piano di comportamento aberrante o antisociale, ma andai avanti così finché non conobbi Olga, una bellissima ragazza delle Andorre della quale mi innamorai perdutamente. La seguii a Barcellona, dove vivevamo in un minuscolo appartamento, poi a Bangkok, a Buenos Aires e a Toronto, con molte tappe intermedie. Lavoravo in continuazione e creavo nuove società da un ufficio che stava tutto dentro il mio zaino. Vivevo una vita piena d’amore e di avventura e del lavoro che mi piaceva. Mi sentivo libero, non mi mancavano né l’auto, né i gadget, né la casa. Piuttosto, mi sentivo come se avessi lasciato un lavoro senza alcuna prospettiva.
Il rapporto con Olga poi finì, ma la mia vita non è mai più stata quella di prima. Ora vivo con meno e viaggio più leggero. Ho più tempo e più denaro. Mi piacciono le cose materiali come a tutti, ma la mia esperienza dimostra che arrivati a un certo punto gli oggetti hanno la tendenza a spiazzare i bisogni emotivi che avrebbero dovuto sostenere.
Continuo ad essere un imprenditore e la mia ultima scommessa è progettare piccole case pensate per aiutarci a vivere bene. Come i 40 metri quadrati in cui abito, le case che progetto contengono meno cose, rendono più facile vivere con i propri mezzi e limitare l’impronta ambientale. Nel mio appartamento possono dormire comodamente quattro persone. Spesso organizzo cene per 12. Il mio spazio ha costi abbordabili ed è funzionale quanto spazi grandi il doppio. Ho meno cose e sono più soddisfatto. Il mio è un piccolo spazio. La mia vita è grande.
(© The New York Times Syndicate. Distributed by The New York Times Traduzione di Emilia Benghi)